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La lettura del libro di Ezio Manzini Politiche del quotidiano (Edizioni di Comunità, 2018), oltre a essere piacevole e stimolante per i molti spunti di riflessione che offre, è anche intrigante per gli altrettanti interrogativi che pone. Riflettendo sul diffuso emergere di comunità volontarie che si è prodotto in questi anni, il testo offre una prospettiva ottimista sul futuro che ci sta davanti. Questo costituisce di per sé un connotato a favore, specie nell'impeto del cambiamento in cui siamo immersi e la cui direzione nessuno è in grado di prefigurare. Yuval Noah Harari nel suo Homo Deus. Breve storia del futuro (Bompiani, 2018) mette in guardia sui drammatici effetti che potrebbero derivare dal progresso congiunto delle tecnologie informatiche e di quelle biologiche. Insieme, queste tecnologie rischiano di portare da un lato a una disoccupazione di massa, con un passaggio dunque dallo sfruttamento del lavoro all'irrilevanza di buona parte di quelli che potrebbero lavorare -; dall'altro ad algoritmi sempre più affinati in grado decidere al posto degli umani, senza soccombere a impulsi o a sentimenti che spesso, sulla spinta dell'emotività, portano uomini e donne a prendere decisione meno che efficienti, quando non sbagliate. Manzini per contro ci rincuora, proponendo uno scenario in cui le cose possono andare in modo affatto diverso grazie al formarsi di comunità leggere, fluide e aperte, che esistono perché progettate e costruite e non perché ricevute da ciò che già c'era, "in cui si bilancia l'individualità di ciascuno con il desiderio di stare e di fare qualcosa assieme" (p. 15).
L'autore incerniera il ragionamento essenzialmente su due considerazioni/constatazioni. In primo luogo, il fatto che si danno casi sempre più numerosi di azioni e comportamenti che si muovono lungo un percorso che Manzini definisce di "innovazione sociale trasformativa". Assumendo un atteggiamento critico nei confronti delle idee e delle pratiche correnti, queste azioni producono trasformazioni sistemiche che "mettono in atto passi verso la sostenibilità". Si è in presenza cioè di evidenti spinte a rispondere alla crisi del neoliberismo attraverso percorsi che escono dal pensiero e dall'azione prevalenti, attivando risposte originali, inaspettate che, nella maggior parte dei casi si realizzano in modo collaborativo innescando una nuova relazionalità tra individui. Individui e relazionalità sono alla base della prospettiva proposta da Manzini, che confluisce nella costruzione di nuove comunità dove si riattivano quella fiducia e capacità di dialogo che il neoliberismo ha compresso e molto spesso soppresso. L'autore riconosce che immaginare un ritorno alla comunità come si presentava fino a tutta la prima metà del secolo scorso non è realistico, né avrebbe senso in un mondo in cui la struttura familiare prima di tutto, ma anche quella sociale, sono radicalmente cambiati. Viceversa, nel mondo interconnesso di oggi, nuove comunità si possono formare, e si formano, su basi non più parentali ma di scopo, cioè costruite intorno a specifici, concreti obiettivi comuni e sulla spinta della voglia/necessità di sfuggire alla solitudine di un mondo segnato da un sempre maggiore individualismo. Il mercato degli agricoltori a Montevarchi è un esempio di costruzione di comunità il cui formarsi e evolversi l'autore ha seguito da vicino. Tuttavia, l'autore si spinge ben oltre il superamento dell'individualità come ricostruzione di una trama sociale, affermando che "partire dalle persone che nella loro quotidianità co-abitano un luogo, con i loro problemi e i loro progetti di vita, è anche una scelta etica e politica", perché è dalla necessità di risolvere i problemi nel quotidiano che si arriva a fare e pensare in modo diverso dall'ordinario.
Queste "nuove" comunità di innovazione sociale che sono al centro dell'attenzione di Manzini hanno una serie di caratteri piuttosto ben identificabili: chi vi appartiene lo fa per scelta, non sono imposte dal gruppo o dal contesto sociale, e se ne può uscire in qualsiasi momento, sono reversibili; da chi decide di farne parte vengono viste come un'occasione, un'opportunità di costruire relazioni, non una costrizione o un obbligo; si costruiscono nel tempo, secondo un processo incrementale dove ogni nuovo componente aggiunge qualcosa, modificando e innovando allo stesso tempo la trama delle relazioni (community building); e si fondano su una progettualità condivisa, che può essere più o meno esplicita ma è inevitabilmente intrinseca all'esistenza stessa della comunità.
Il secondo punto di ancoraggio sta nella convinzione che gli individui dispongono di una autonoma capacità di progettare il proprio percorso di vita, di cui tuttavia nella maggior parte dei casi non hanno consapevolezza. Per questo occorre invece farla emergere, incitare quella che Manzini chiama la progettualità autonoma degli individui, che porta a mettere in pratica azioni che si discostano - e non di rado contrastano - gli "schemi di pensiero e le prassi dei grandi progetti dominanti". È la figura del bricoleur, di chi è capace di usare le risorse e capacità di cui dispone per raggiungere gli obiettivi di vita che si è dato, adattandole alle circostanze che di volta in volta si presentano. Manzini ritiene che questo sia "l'approccio progettuale più adatto per operare in un mondo di cui, volenti o nolenti, dobbiamo accettare la complessità", agendo in maniera autonoma ma non disgiunta dal contesto. Al contrario, il bricoleur deve far parte di un sistema di relazioni, formando coalizioni progettuali intorno a problemi comuni che sono alla base delle comunità leggere e fluide contemporanee. L'autore sottolinea anche che ingredienti rilevanti al formarsi di queste comunità "collaborative" sono amicizia e empatia tra gli aderenti, beni immateriali che pesano tanto quanto la soluzione delle questioni pratiche intorno cui le comunità si addensano, giungendo ad affermare che la generazione di valori relazionali è il principale indicatore di successo o di fallimento. Insomma, per costruire una comunità collaborativa, uno dei primi requisiti è che gli aderenti devono essere, e essersi, simpatici. È da queste comunità che nascono le "politiche del quotidiano" che danno il titolo al libro, quelle azioni place-based e di piccola scala ma in grado di produrre "effetti sistemici", e per questo di contenuto politico, connessi alla capacità di progettare il proprio percorso di vita. Aspetto centrale sostenuto nel testo - ma in misura forse inferiore a quello che sarebbe necessario - è il ruolo che le amministrazioni devono svolgere per far sì che queste "politiche del quotidiano" possano esprimere tutto il proprio potenziale, attraverso sistemi di governance capaci di metterle in sinergia con l'operare dell'insieme degli attori presenti.
Il testo si conclude con una riflessione sulle forme della democrazia con un appello alla "democrazia progettuale". Sulla base delle riflessioni condotte in precedenza, Manzini si schiera senza mezzi termini a favore di un localismo ("sistemi produttivi e di servizio […] dotati di autonomia e definiti da scelte fatte e attuate localmente") su cui le comunità abbiano pieno potere di decisione. In questo quadro la 'democrazia progettuale' costituirebbe la forma attraverso cui ognuno può elaborare un proprio progetto che, poiché non si può progettare da soli, diventa necessariamente una 'democrazia collaborativa' in cui, per la complessità del mondo in cui viviamo, chi opera non ha mai l'intera responsabilità delle conseguenze di quello che fa. Il bricoleur deve dunque essere consapevole dell'impossibilità di conoscere gli effetti del proprio operare, nel tempo medio e nello spazio ampio, poiché cambiamento e discontinuità sono gli elementi che caratterizzano il nostro tempo. Manzini ha ben presente che le piccole azioni "non potranno mai costituire un programma politico organico", ma resteranno delle esperienze frammentarie e frammentate, in grado nel migliore dei casi di entrare in una rete relazionale 'interna' ma non facile da aprirsi verso ciò che non fa parte di quelle specifiche 'politiche del quotidiano'.
Il pensiero di Manzini appare percorso da un'assunzione: ciò che nasce da forme collaborative, dall'agire condiviso e in comunanza è di per sé portatore di valori positivi. Tuttavia, considerare che le comunità tradizionali trovassero un valore positivo nel loro concretizzarsi in uno spazio fisico definito, e per questo "denso di significato", mentre la commistione di spazio fisico e spazio virtuale in cui si costruiscono le comunità di oggi produrrebbe una "crisi delle comunità e dei luoghi", è asserzione che lascia adito a qualche dubbio. Da un lato perché i significati densi delle comunità di luogo non sempre erano e sono portatori di valori positivi (D. Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, 2017), dall'altro perché, come l'autore stesso sottolinea a più riprese, le odierne comunità di relazione sono luoghi cui si entra e si esce per scelta ("leggere") per questo di forte - non di rado eccessiva - riconoscibilità e relazionalità basate su un'esplicita condivisione di interessi ("intenzionali") ma non sempre così "aperte", anzi, spesso segnate da una tendenza all'esclusione del diverso (le gated communities ne sono la più chiara espressione sociale e spaziale, ma certo non la sola).
La nozione di 'comunità' si sostiene su un modello complessivo che non rispecchia mai le complicate sfaccettature della realtà, non quella del passato, ancor meno quella di oggi (per tutti Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, 2001). Semplificherebbe di molto la vita poter condividere scelte e decisioni con un gruppo omogeneo di simili, dove competizione e differenze sono escluse e muri materiali o immateriali separano da inquietanti e pericolose diversità. Sappiamo che così non è, per fortuna, perché se lo fosse sarebbe esclusa ogni possibilità di interazione con tutto ciò che è "altro" e dunque di relazionalità foriera di innovazione. Il testo lascia piuttosto sullo sfondo - forse troppo - la diversità culturale che caratterizzerà sempre più il locale e il quotidiano, insieme alle nuove complessità che essa aggiunge a un mondo già assai complicato (per esempio: S. Vertovec, "Super-diversity and its implications", Ethnic and Racial Studies, 30:6, 2007).
Come si è detto, il testo è stimolante nella sua proposizione di come il mondo potrebbe e dovrebbe andare per garantire la sostenibilità, ma ancor di più, per favorire forme decisionali più collaborative e dunque democratiche. Allo stesso tempo, il pensiero di Manzini apre alcuni interrogativi.
L'idea che chi si prende cura di un giardino sotto casa, o anche chi decide di vivere in cohousing, abbia in testa "una diversa maniera di pensare e di gestire la città" (p. 102) è accattivante, però va presa con una certa cautela. In realtà, le azioni del e nel quotidiano solo di rado si collocano nel solco dell'innovazione sociale e del cambiamento sistemico. È molto più facile, e probabile, che costituiscano una risposta individuale, o un'alleanza difensiva tra alcuni, all'inadeguatezza della decisione collettiva. Può essere che il mercato di Montevarchi produca innovazione sociale ma può essere anche che esso costituisca il tentativo di ricostruire un'idea di località che contrasta con le trasformazioni cui non solo è soggetto, ma deve andare soggetto, il "sistema sociotecnico" di Montevarchi se non vuole essere messo ai margini dal cambiamento prodotto da quello che vi sta intorno, a fianco o dall'altra parte del mondo. Occorre fare attenzione nell'attribuire giudizi di valore ai cambiamenti dei meccanismi economici e ai conseguenti mutamenti dei contesti locali che derivano dalle trasformazioni profonde, delle strutture sociali, culturali e, prima di tutto, tecnologiche, impossibili da governare a livello locale.
Per questo, non è detto che la diversa maniera di pensare la città che la cura del giardino locale sottende sia ciò che ci si deve augurare. Di mamme con la carrozzina se ne vedono sempre meno, e gli anziani non sono necessariamente felici di stare seduti nelle panchine del giardinetto di quartiere: chissà, magari preferirebbero poter guardare la nuova puntata della serie TV di cui tutti parlano. Le opportunità che la città offre cambiano, si modificano, in futuro lo faranno sempre più e a velocità sempre più rapida. I modelli cui facciamo riferimento oggi, anche per quanto riguarda i modi d'uso e la tipologia degli spazi, tra solo qualche decina di anni hanno buone probabilità di non essere più gli stessi. Già oggi l'idea di vacanza concepita nella seconda metà del secolo scorso è sparita, annullata ma le migliaia di seconde case costruite su quell'idea, oggi in disuso, segnano e continueranno a segnare per chissà quanto tempo ancora coste, crinali e valli.
Le politiche del quotidiano cui ci riporta il testo sono suggestive. Eppure viene da domandarsi se queste possano davvero costituirsi come 'politiche' o se non debbano essere collocate piuttosto nella categoria delle 'pratiche'. Politica vuol dire - o dovrebbe voler dire - sguardo lungo nel tempo, orizzonti di spazio ampi, valutazioni sui riverberi oltre i confini dell'immediato, del quotidiano appunto. Politica vuol dire giustizia, equità dunque redistribuzione, ma la redistribuzione non può essere pensata per e tra pochi. Costruendo inevitabilmente dei confini, la comunità invece corre sempre il rischio di inciampare in meccanismi di esclusione, di chi è dentro e chi resta fuori. Per questo ancora oggi, e forse ancor più che in passato, continua a essere indispensabile un soggetto che agisca nell'interesse della collettività intera, fatta di quelli che la pensano in un modo e di quelli che la pensano in modo diverso, oggi in modi sempre più diffusamente diversi. Politiche del quotidiano appare muoversi all'interno di, e puntare a, una società di frammenti dove differenze e contrasti svaniscono grazie all'emergere di un nuovo tipo di comunità plasmato per corrispondere all'ambiente "fluido e connesso" della contemporaneità. Comunità rispetto alle quali, tuttavia, il testo non chiarisce in che modo riuscirebbero a restare scevre da conflitti sociali e culturali, pur in presenza di società sempre più composite, né perché il potere e la sua distribuzione non sarebbero più variabili rilevanti. 'Politica' e 'quotidiano' possono davvero essere coniugati così facilmente e rappresentare la via maestra per rispondere alle incertezze che si prospettano, o non vi è bisogno invece di predisporre 'politiche', e dunque forme di governo, attraverso cui reggere e indirizzare il cambiamento?
Marcello Balbo
N.d.C. Marcello Balbo, professore di Urbanistica all'Università Iuav di Venezia, è responsabile della Cattedra Unesco "Social and Spatial Inclusion of International Migrants: urban policies and practices" e Direttore del Master "Rigenerazione urbana e innovazione sociale (U-RISE)" dello stesso ateneo.
Per Città Bene Comune ha scritto: Disordine? Il problema è la disuguaglianza (7 settembre 2018).
N.b. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 08 MARZO 2019 |