Maria Rosa Vittadini  
  casa-della-cultura-milano      
   
 

GRANDI OPERE: DEMOCRAZIA ALLE CORDE


Commento al libro curato da Roberto Cuda



Maria Rosa Vittadini


altri contributi:



  maria-rosa-vittadini-grandi-opere-democrazia.jpg




 

Il libro dal titolo vagamente pugilistico curato da Roberto Cuda - Grandi opere contro democrazia. Assalto al territorio, assalto alla democrazia (Edizioni Ambiente, 2017) -riecheggia temi sollevati spesso dagli osservatori più attenti alle cose del nostro paese e dai movimenti di protesta fioriti in gran numero nei decenni scorsi. La raccolta di saggi prende le mosse da un seminario promosso dalla Fondazione Finanza Etica e dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso per "approfondire il nesso tra grandi opere e speculazione finanziaria, modelli di sviluppo e democrazia". Occorre ricordare che Lelio Basso è il promotore del Tribunale permanente dei popoli (Tpp), in qualche misura erede del primo Tribunale Russel, nato nel 1966 per giudicare i crimini commessi dagli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, e poi del secondo Tribunale Russel, presieduto dallo stesso Basso, nato per affrontare le violazioni dei diritti umani sotto regimi dittatoriali dell'America Latina. Oggi il Tpp è un prestigioso tribunale internazionale d'opinione che si fa carico di affrontare problemi dei diritti dei popoli che non trovano udienza nei tribunali nazionali e neppure nella Corte internazionale di giustizia, troppo spesso ostacolata da limiti burocratici e pressioni di potenti interessi nazionali.

Data questa matrice culturale, il libro associa alle tradizionali questioni relative alla corruzione, ai danni ambientali o alla inutilità di molte grandi opere una analisi non scontata circa i "buchi di democrazia". Ovvero l'opacità e le distorsioni dei processi decisionali di autorizzazione di quelle opere o le pratiche che nel tempo hanno piegato norme e leggi al servizio della loro realizzazione, anche a scapito di diritti fondamentali delle popolazioni interessate. Distorsioni e pratiche che rendono le grandi opere particolarmente permeabili a un malaffare che proprio dalla loro dimensione trae facilità e rendimento. Si tratta di un problema certo non solo italiano, ma rispetto al quale l'Italia si è mostrata particolarmente restia a introdurre anticorpi, facendo così maturare un sentire comune che di fatto ha contribuito in misura non piccola alla disaffezione verso la democrazia rappresentativa, dove il decisore politico è apparso troppo spesso succube degli interessi che avrebbe dovuto governare.

Il tema assume un particolare interesse nel presente passaggio da Governi di regola favorevoli alle grandi opere, nonostante il diverso orientamento politico, a un Governo come quello attuale, dove una componente fondamentale della maggioranza ha vinto le elezioni anche sulla spinta della dichiarata ostilità alle grandi opere. Le riflessioni critiche suggerite dagli interessanti contributi presenti nel testo - di Alessandra Algostino, Paolo Berdini, Roberto Cuda, Nicoletta Dentico, Anna Donati, Franco Ippolito, Stefano Lenzi, Tomaso Montanari, Cesare Vacchelli, Alberto Vannucci, Edoardo Zanchini - potrebbero dunque trovare un campo di ascolto inusualmente fertile e aiutare ad introdurre modi di decidere più democratici, capaci di ridurre gli attuali elevatissimi tassi di conflittualità. La tesi che vorrei sostenere in queste note è che tali modi di decidere possono avere speranza di successo solo superando la prassi ormai abituale della decisione opera per opera e passando invece attraverso processi di pianificazione "ad elevato tasso di democrazia" profondamente diversi da quelli del passato. Processi capaci di dar senso strategico e condiviso a scelte, anche infrastrutturali ma non solo, in grado di durare nel tempo e nel normale ricambio dei Governi. Con il positivo risultato di decidere politiche e opere rispondenti a reali necessità, di evitare l'evidente sovradimensionamento che troppo spesso accompagna opere nate per il profitto invece che per l'utilità e soprattutto di governare l'inevitabile tensione tra interessi locali e interessi nazionali in modo equo e democraticamente condiviso. Se - come sostiene Cuda e come io credo sia vero - molta parte del conflitto sulle grandi opere è originata dall'opacità, dal malfunzionamento, dalla mancanza di democrazia e dalla permeabilità alla corruzione del processo decisionale, il fatto di costruire piani trasparenti, democraticamente elaborati ed attuati, costituisce la via maestra per uscire da politiche oggettivamente generatrici di inefficienze, ineguali diritti e doveri, rilevanti danni ambientali, conflitto sociale tendenzialmente insanabile e pericolosi strascichi di rancore.

Non mi sfugge la scarsa fiducia e talvolta l'irrisione che oggi raccoglie in Italia il concetto stesso di 'piano', identificato come luogo della perdita di tempo, delle belle parole e della nessuna efficacia. In tema di infrastrutture la debolezza, quando non la totale assenza di pianificazione è stata la regola: basti ricordare la scarsissima autorevolezza dei Piani generali dei trasporti elaborati nel tempo (1986 e 2001) e l'azzeramento di qualsiasi piano operato dal 2000 ad oggi dalla Legge Obiettivo. Intorno al nodo delle grandi opere infrastrutturali si sono consumati aspri scontri istituzionali e politici e si sono accumulati deficit di democrazia che ancor oggi mostrano cicatrici e trascinano problemi non risolti. Un esempio eclatante è costituito dalla lunga stagione del salvataggio con denaro pubblico delle concessionarie autostradali insolventi che ha caratterizzato tutti gli anni settanta e ottanta (e anche oltre). Se le opere autostradali scavavano pozzi senza fondo nel bilancio dello Stato grazie alle garanzie pubbliche sui debiti privati, le opere ferroviarie non sono state da meno: la realizzazione dell'Alta Velocità, avviata sul presupposto di un finanziamento privato del 60%, è ancor oggi in via di realizzazione a totale carico dello Stato. È del tutto evidente la lesione della democrazia perpetrata attraverso tali sovvertimenti dell'ordine delle priorità: a quali utilizzazioni socialmente più utili e desiderabili avrebbero dovuto essere dedicate le risorse devolute "a posteriori" a quelle grandi opere e ai potenti interessi coinvolti nella loro realizzazione? Non è difficile stabilire una connessione tra quelle vicende, il peso del debito pubblico e "l'altro disavanzo" come lo chiamava Guglielmo Zambrini, fatto di dissesto del territorio, mancanza di manutenzione, abusivismo o, per restar nel campo dei trasporti, ammaloramento della viabilità ordinaria e ritardo abissale nei sistemi di trasporto pubblico per le città e le aree metropolitane.

I capovolgimenti di logica, di significato e di modalità di finanziamento hanno ovviamente inciso sulla attendibilità dei progetti, sulla incertezza dei costi, sui tempi biblici, sulla incompiutezza e sulla vulnerabilità a pressioni politiche e ad aggressivi interessi economici e finanziari. Turbative che, tuttavia, hanno avuto conseguenze nulle sulle cordate imprenditoriali, messe al riparo da regole "intrinsecamente criminogene", come l'affido a general contractors responsabili della progettazione e delle realizzazione delle opere, in contrasto con le norme comunitarie e in palese conflitto di interessi. Oppure come il ricorso a formule di project financing in cui la totalità dei rischi sta sulle spalle della parte pubblica e la totalità dei vantaggi è garantita alla parte privata, come ad esempio nel caso della Pedemontana Veneta oggi in corso di realizzazione. In questo quadro di estremo squilibrio tra la forza degli interessi legati alla realizzazione e alla connessa appropriazione di risorse pubbliche (monetarie, territoriali e ambientali) e la debolezza delle forme di decisione democratica circa la destinazione delle medesime risorse come stupirsi della conflittualità, della abnorme lievitazione dei costi, della permeabilità degli appalti alle pratiche corruttive evidenziata dalla Magistratura, e comunque della inefficienza complessiva di un sistema infrastrutturale peraltro assai costoso?

 

Nonostante l'evidenza di tali fenomeni, per decenni la diagnosi dei Governi in carica ha mostrato una insuperabile ripugnanza a mettere a fuoco la connessione tra questi problemi e l'intrinseca mancanza di democrazia del processo decisionale. Piuttosto, con una narrazione di facile presa, si sono distribuite colpe alla burocrazia, alla valutazione dell'impatto ambientale, ai movimenti locali di opposizione. E comunque si è preferito parlare di "ritardo infrastrutturale": una diagnosi "facile", che ha consentito di promettere ulteriori grandi opere e riforme del processo decisionale all'insegna di parole d'ordine come "semplificazione" o "centralizzazione", con nuove regole emergenziali dense di misure che peggioravano il male che avrebbero dovuto curare. È esemplare a questo proposito la berlusconiana Legge Obiettivo per la realizzazione delle opere strategiche, del 2001, di cui molti dei contributi del libro denunciano gli esiti disastrosi. Le sue scorciatoie procedurali hanno scardinato i pallidi tentativi di programmazione del Piano generale dei trasporti del 2000 e hanno pressoché azzerato il senso stesso delle valutazioni ambientali. Quella volta solo l'intervento della Corte Costituzionale ha imposto di coinvolgere nelle decisioni i Governi regionali, ma non ha impedito l'impressionante proliferazione di opere "strategiche" di incerta fattibilità tecnica e finanziaria, progettualmente approssimate, prive di attendibili valutazioni e senza alcun disegno di sistema. Un coacervo di oltre 400 opere che, nonostante qualche sforbiciata da parte del Ministro Delrio, ancor oggi formano una pesante zavorra che ostacola la ripresa di un razionale e democratico processo di programmazione del sistema delle infrastrutture nazionali. Per similitudine degli intenti val la pena di ricordare anche azioni del Governo Renzi come la proposta di Riforma costituzionale, dove ancora la centralizzazione delle decisioni riguardo alle grandi opere era uno dei pezzi forti. Ma anche il Decreto Madia che riserva al Presidente del Consiglio un mazzetto di grandi opere da decidere a suo insindacabile giudizio. Tutte misure per dare un taglio alle lungaggini, alla incertezza sui tempi di realizzazione, alla conflittualità endemica, talvolta passando sulla testa della Regioni e sempre passando su quella delle comunità locali interessate.

Nel libro curato da Cuda molti di questi aspetti trovano spazio e sollecitano riflessioni a tutto campo sia nell'analisi dei fatti contingenti sia nei ragionamenti di carattere più generale. L'analisi di un certo numero di casi specifici offre non solo le storie dei processi decisionali e delle ragioni del conflitto, ma ricostruisce le posizioni, le strategie operative dei proponenti, le dinamiche di maturazione culturale che spesso caratterizzano gli oppositori. Con una sistematica attenzione al tasso di democrazia (o di non democrazia) che governa i reciproci rapporti. Le opere considerate comprendono la ferrovia Torino-Lione, l'autostrada della Maremma, il Ponte di Messina, la Brebemi, il primo lotto della Tirreno-Brennero e lo Stadio di Roma. Sono casi diversissimi ma il loro racconto mette bene in luce il filo comune che li lega. Una componente sostanziale del conflitto nasce dalla totale "estraneità" delle opere al contesto sociale e territoriale che le deve ospitare, dalla negazione di qualunque rilievo al senso dei luoghi per i loro abitanti, ai valori paesaggistici e ambientali come fondamento della cultura e anche dell'economia delle collettività locali. Dunque opere sentite come insopportabile prepotenza, a cui reagire non solo opponendosi alla loro realizzazione, ma studiando, elaborando progetti alternativi, sviluppando forme inedite di coesione sociale. Il caso della ferrovia Torino-Lione, ma anche quello dell'autostrada della Maremma sono assolutamente emblematici a questo proposito.

Accanto alla analisi di alcuni casi concreti il libro offre, come si è detto, una serie di ragionamenti di carattere più generale, dai quali varrebbe davvero la pena di trarre indicazioni per il futuro. Ragionamenti che si snodano attraverso:

  • le convincenti argomentazioni di Alberto Vannucci sulla connessione tra dimensione dell'opera e rischi di corruzione, con la disamina delle condizioni del processo di progettazione e realizzazione che favoriscono fenomeni corruttivi di varia natura e di diverso grado di sofisticatezza e di riconoscibilità;
  • la descrizione e l'interessante commento critico del magistrato Franco Ippolito circa la Sentenza del Tribunale permanente dei popoli (Tpp) sul caso Tav in Val di Susa emessa nel 2015: una sentenza che introduce criteri di lettura e di gestione del conflitto realmente illuminanti anche ai fini della situazione attuale;
  • il quadro un po' sconfortante tacciato da Anna Donati circa le aperture e le promesse in materia di politica infrastrutturale introdotte dal Governo Gentiloni nel 2017 con il documento Connettere l'Italia e il loro rapido impigliarsi nelle secche della revisione dei progetti in Legge Obiettivo e nella rete del blocco di interessi sotteso a quelle infrastrutture;
  • il brillante esame comparato di Tomaso Montanari sul significato e sul valore sociale di due contemporanee ma diversissime retoriche circa le necessità del paese: da un lato UGO, ovvero l'Unica Grande Opera Utile proposta nel 2014 dai Wu Ming 1 nel libro Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotta No Tav (Einaudi, 2016), una grande opera costituita dalla moltitudine di interventi per il salvataggio, la messa in sicurezza del territorio dai dissesti e dal rischio idrogeologico, il risanamento attraverso l'alleggerimento della cementificazione e delle attività inquinanti; dall'altro la retorica espressa, sempre nel 2014, dal Ministro Lupi nel presentare il decreto Sblocca Italia come "padroni in casa propria": un grimaldello per profonde deregulation di questioni edilizie ed urbanistiche ma anche una potente suggestione per una più ampia deregulation su tutte le questioni che interessano il paese, la casa comune degli italiani.

 

Tutti i contributi, sia quelli che si occupano dei singoli casi sia quelli di carattere generale, sono interessanti e sollecitano riflessioni utili per avviare un proficuo dibattito, anche quando la radicalità delle posizioni induce forse a eccessi di pessimismo nella lettura dei fatti e soprattutto nella possibilità di cambiare. Qui vorrei richiamare solo alcuni elementi che ritengo particolarmente preziosi per sostenere la tesi di queste note circa l'assoluta necessità e anche la possibilità di intraprendere un nuovo democratico processo di pianificazione del sistema delle infrastrutture. In primo luogo il contributo di Anna Donati nel quale si fa il punto della situazione riguardo alle riforme introdotte dal Governo Gentiloni. Si richiamano norme, contraddizioni, concreti passi avanti e le promesse del Ministro Delrio quando annunciava, meritoriamente, una nuova stagione di programmazione a seguito della riforma del Codice degli appalti e dell'abolizione della Legge Obiettivo. Doveva essere una nuova stagione di profondo rinnovamento proprio del modo di decidere sui reali fabbisogni infrastrutturali del paese. Il rinnovamento comportava una revisione delle opere iscritte nella Legge Obiettivo, più solide modalità di progettazione delle nuove opere attraverso il Progetto di fattibilità tecnico economica, un apparato di valutazione preventiva degli aspetti economici (con l'analisi costi-benefici) e degli effetti ambientali (con le procedure di VAS e di VIA) ma soprattutto con una vera logica di programmazione da raggiungere attraverso un nuovo Piano generale dei trasporti e Piani triennali di attuazione per scegliere, insieme alle amministrazioni locali, le alternative migliori, le priorità e le misure di accompagnamento necessarie. Finalmente anche i problemi ambientali e la coesione sociale facevano timidamente capolino tra i problemi di cui il Piano generale dei trasporti avrebbe dovuto tener conto. L'introduzione del dibattito pubblico di modello francese apriva altri spiragli verso una nuova attenzione alla accettabilità delle opere da parte delle collettività interessate. Molti di questi spiragli si sono rapidamente richiusi: il Piano generale dei trasporti non è stato neppure avviato, il primo Piano triennale che doveva dar conto della revisione delle opere in Legge Obiettivo non è stato approvato, la Legge Obiettivo continua a governare l'iter di realizzazione per le moltissime opere che hanno avuto una qualche autorizzazione e che sono quindi state considerate "invarianti". Tutto è quindi rimasto incompiuto, sospeso, inefficace. Ma molto lavoro conoscitivo è stato davvero fatto. Perché dunque non partire proprio da qui, con nuova energia e con più coraggiosi criteri, per l'elaborazione del nuovo Piano generale dei trasporti? Aggiungendo al lavoro conoscitivo già disponibile quella carica di capacità di ascolto e di selezione degli obiettivi e delle politiche capace di farne un disegno realmente nuovo e democratico di strategia nazionale collaborativa, di equità territoriale, di equilibrato governo di interessi anche confliggenti in nome dell'interesse complessivo del paese.

Il Governo in carica non sembra esprimere, al momento, alcuna intenzione di riprendere una riflessione critica che vada oltre le singole opere e la necessaria revisione oscilla tra due posizioni solo apparentemente contrapposte, perché entrambe riducono al caso per caso il problema della scelta. Da un lato l'ossessiva rivendicazione dell'Analisi benefici-costi impropriamente caricata di responsabilità decisionali invece che considerata correttamente come fondamentale strumento conoscitivo a supporto del decisore politico e della informazione del pubblico, cui spetta comunque di comprendere (e valutare democraticamente) le motivazioni delle decisioni politiche. Dall'altro lato la riproposizione di ben orchestrate campagne di comunicazione nelle quali la grande opera si tinge di valori simbolici "per il progresso", "per l'orgoglio nazionale", "per l'esigenza di non bloccare il paese" e simili apodittiche formulazioni. Intanto, in attesa delle analisi costi-benefici sulla questione delle grandi infrastrutture è divampata più accesa che mai una conflittualità a tutti i livelli: tra Governo (o componenti del Governo) e collettività locali, tra maggioranza e minoranza, tra livelli territoriali locali e livelli nazionali, tra componenti diverse dello stesso Governo. È possibile che si tratti dell'effetto di un difficile periodo di transizione aggravato dall'imminenza elettorale, ma non è uno spettacolo rassicurante.

Proprio sulla natura, l'entità e la possibile gestione di questo genere di conflitti vale la pena di riprendere la sentenza emessa nel 2015 dal Tpp sulla questione del Tav in Val di Susa. Una sentenza giustificata dalla lunga storia di questo progetto e dai molti atti d'imperio che l'hanno accompagnata. Il contributo di Alessandra Algostino ne descrive efficacemente le modalità antidemocratiche attraverso le pratiche di anestetizzazione (l'attività dell'Osservatorio), la militarizzazione del territorio, la delegittimazione mediatica degli oppositori e l'eccesso di ricorso alla strumentazione penale. Il magistrato Franco Ippolito si sofferma invece sui punti fondamentali della sentenza, molto interessanti non solo per lo specifico caso, ma più in generale per il processo decisionale delle grandi opere. Il Tribunale non si è ritenuto competente ad entrare nel merito dell'utilità dell'opera, sancita da accordi internazionali, che pure era stata presentata dal Controsservatorio tra i motivi del ricorso al Tribunale. L'attenzione del Tpp si è appuntata invece sulla natura, le finalità, l'effettività delle procedure di consultazione delle popolazioni coinvolte e sulla loro incidenza sul processo democratico facendo così emergere la questione di fondo: il rapporto e i limiti dell'interesse generale rispetto a quello locale. Il Tribunale riconosce le molte violazioni del diritto all'informazione e alla partecipazione alle decisioni che costellano la vicenda della Tav Torino-Lione. Violazioni che ostacolando la conoscenza e la possibilità di orientare efficacemente le decisioni costituiscono lesioni gravi alla democrazia e ai diritti dei cittadini. La grande opera, riferisce Ippolito,

rischia di compromettere l'habitat di un piccola valle alpina e di incidere irrimediabilmente sulla vita dei suoi abitanti che in maggioranza si oppongono alla sua realizzazione. Ma quella maggioranza diviene minoranza se si misurano le percentuali del consenso allargando l'ambito territoriale (dal Comune alla Provincia allo Stato alla comunità internazionale). A mano a mano che si allarga il contesto territoriale si ribaltano infatti i punti di riferimento e lo spessore dei valori e degli interessi in gioco (dalla qualità dell'aria e dell'uso della terra alla comodità e alla velocità degli spostamenti ferroviari).

La considerazione, del tutto condivisibile, che l'interesse dei più debba prevalere sull'interesse dei meno vale solo se si mettono a confronto interessi qualitativamente simili. Ma nelle tensioni intorno al tema delle grandi infrastrutture l'interesse locale e quello generale fanno riferimento a parametri disomogenei e qualitativamente diversi. In realtà, si confrontano i valori di una società, sia pure di dimensioni ridotte, con i valori dell'economia e del mercato. Le tensioni sono forse inevitabili dato il sistema economico di mercato nel quale ci collochiamo, ma non è detto che le spinte provenienti dal mercato debbano sempre prevalere su quelle della società. È compito della politica agire perché le esigenze del mercato siano compatibili con il rispetto dei valori intorno ai quali è costruita la democrazia nello stato costituzionale di diritto. Ed è compito della politica la ricerca di un equilibrio tra le spinte del mercato e quelle della società, un equilibrio che può essere raggiunto solo attraverso un confronto aperto e trasparente che veda coinvolte le parti in causa e la società nelle sue diverse articolazioni.

Lo strumento principe per la ricerca di questo difficile equilibrio non può che essere, a mio avviso, l'elaborazione e l'attuazione di un piano ad alto tasso di democrazia, attrezzato con reali e ben organizzati momenti di ascolto e di partecipazione attiva, con i tempi necessari alla maturazione delle idee e delle alternative dialetticamente emergenti e con strumenti per la loro trasparente valutazione preventiva. Un processo da governare secondo il dettato costituzionale partendo dai diritti dei cittadini piuttosto che dalle logiche dell'economia, e cercando su questa base un consapevole e trasparente governo dalla inevitabile tensione tra la dimensione locale e la dimensione nazionale dei problemi. Con una buona dose di autorevolezza e di coraggio la costruzione e l'attuazione del piano potrebbe addirittura essere entusiasmante, potrebbe dare al paese una carica di coesione oggi vistosamente assente e potrebbe restituire alla politica un po' del suo fascino oggi molto appannato. A mio avviso lasciar cadere i germi di questo rinnovamento, che pure sono presenti e del tutto maturi, costituirebbe davvero una sconfitta per la democrazia.

Maria Rosa Vittadini

 

 

 

 

N.d.C. - Maria Rosa Vittadini, già professore associato di Tecnica e pianificazione urbanistica all'Università Iuav di Venezia, si occupa di metodi e tecniche di valutazione ambientale e di pianificazione dei trasporti e del territorio. Tra le altre cose, è stata Direttore generale del Servizio valutazione dell'impatto ambientale del Ministero dell'Ambiente e successivamente Coordinatore delle sottocommissione VAS del medesimo Ministero. E' stata incaricata del Piano integrato di azione ambientale della Regione Valle d'Aosta e della Valutazione ambientale strategica del Piano territoriale di coordinamento della provincia di Milano; consulente per la Valutazione ambientale strategica del Piano territoriale di coordinamento della provincia di Venezia e del Piano d'ambito ottimale per la gestione delle acque della provincia di Venezia.

Tra i suoi scritti: con Claudia Sorlini (a cura di), Tecnologia per l'ambiente (Inu, 1980); con Claudia Sorlini (a cura di) Impatto ambientale nella pianificazione territoriale (FrancoAngeli, 1983); Grandi infrastrutture: il passante (FrancoAngeli, 1984; 1985; 1987; 1989); Il conflitto nell'uso delle strade: dalla specializzazione alla convivenza, in Pierluigi Salvadeo (a cura di) Paesaggi di Architettura (Skira, 1996); Legge Obiettivo e mobilità urbana; Il nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione e La linea AV Milano-Genova e il problema del terzo valico dei Giovi, in AAVV La cattiva strada (A. Perdisa Ed., 2006); Il settore dei trasporti: riduzione delle emissioni di CO2, in P. Degli Espinosa (a cura di), Energia e ambiente dopo Kyoto (Istituto Sviluppo Sostenibile Italia, Ed. Ambiente, 2006); con Armando Barp (a cura di), Guglielmo Zambrini, Questioni di trasporti e di infrastrutture. Teorie, concetti e ragionamenti per una buona politica dei trasporti (Marsilio, 2011); Fare a meno dell'acqua. Arrivare a Venezia annullando la laguna? (Corte del Fontego, 2012); Riflessioni a proposito della VAS e del monitoraggio dei piani e dei programmi, in AAVV, Valutare i Piani (B. Mondadori, 2012); con Domenico Bolla e Armando Barp (a cura di), Spazi verdi da vivere. Il verde fa bene alla salute (Il Prato, 2015); Non solo trasporti: politiche urbane per una nuova mobilità, in A. Donati e F. Petracchini, Muoversi in città (Ed. Ambiente, 2015); con Gabriele Bollini e Eliot Laniado (a cura di), Valutare la rigenerazione urbana (Regione Emilia Romagna, 2018).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

14 MARZO 2019

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
2013: programma/present.
2014: programma/present.
2015: programma/present.
2016: programma/present.
2017: programma/present.
2018: programma/present.
2019: programma/present.
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019:

M. Balbo, "Politiche" o "pratiche" del quotidiano?, commento a E. Manzini, Politiche del quotidiano (Edizioni di Comunità, 2018)

P. Colarossi, Progettiamo e costruiamo il nostro paesaggio, commento a: V. Cappiello, Attraversare il paesaggio (LIST Lab 2017)

C. Olmo, Spazio e utopia nel progetto di architettura, commento a: A. De Magistris e A. Scotti (a cura di), Utopiae finis? (Accademia University Press, 2018)

F. Indovina, Che si torni a riflettere sulla rendita, commento a: I. Blečić (a cura di), Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo (FrancoAngeli, 2017)

I. Agostini, Spiragli di utopia. Lefebvre e lo spazio rurale, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018)

G. Borrelli, Lefebvre e l'equivoco della partecipazione, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018); La produzione dello spazio (PGreco, 2018)

M. Carta, Nuovi paradigmi per una diversa urbanistica, commento a: G. Pasqui, Urbanistica oggi (Donzelli, 2017)

G. Pasqui, I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza, commento a: L. Gaeta, La civiltà dei confini (Carocci, 2018)

 

 

 

 

 

I post