Antonio Calafati  
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UN VIAGGIO NELL'ITALIA DI MEZZO


Commento al libro curato da Arturo Lanzani



Antonio Calafati


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Prenderò treni, corriere, battelli, taxi; andrò a piedi.
L’Italia non la troverò più, ma so viaggiare nell’invisibile, dove la ritroverò
(Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, 1983)

 

La popolazione residente di Milano cresce di circa 300.000 unità tra il 1951 e il 1961 e di 200.000 unità nel decennio successivo – poi inizierà a declinare fino al 2011. La popolazione del suo hinterland cresce di circa 200.000 unità tra il 1951 e il 1961 e di 400.000 unità nel decennio successivo – e continuerà a crescere a lungo. Nel 1961 Milano era la più grande città manifatturiera, ma già nel decennio 1961-71 gli addetti in questo settore diminuiscono, mentre aumentano – e aumenteranno – nell’hinterland. La terziarizzazione dell’economia di Milano inizia negli anni Sessanta, mentre la città si predispone a diventare il centroide di un sistema territoriale trans-comunale molto vasto che si integra e prende la forma di un’area metropolitana di 4,2 milioni di abitanti, con un core (‘città di fatto’) di 3,1 milioni di abitanti – come l’Oecd certificherà nella sua rappresentazione del territorio europeo.

All’inizio degli anni Sessanta, Giancarlo De Carlo e i suoi collaboratori posano lo sguardo sulle trasformazioni dell’organizzazione spaziale a Milano e dintorni. Cities in Evolution di Patrick Geddes è un loro punto di riferimento, e nel caos morfologico della travolgente urbanizzazione che osservano intravedono una forma – da plasmare e consolidare, rendendola coerente con le aspirazioni della democrazia. Il loro sguardo si fa progetto, e il progetto diventa piano: il Piano intercomunale milanese.

L’area metropolitana è una figura territoriale che in Italia compare all’inizio degli anni Sessanta. Necessaria, alla luce dell’evidenza empirica che palesa il fenomeno della coalescenza spaziale e relazionale intercomunale, e che lo sguardo dell’urbanista sa cogliere. Coalescenza che, negli stessi anni e nelle stesse forme, si manifesta non solo a Milano ma anche in molte altre città: a Torino, a Napoli, così come a Bologna, Bari, Padova, Verona. Si manifesta anche in città con meno di 100.000 abitanti. Pur comparendo subito nella riflessione intellettuale, non entra nell’agenda politica. Negli stessi anni ne esce la riforma del regime dei suoli (“Legge Sullo”), proposta e accantonata tra il 1962 e il 1963. Il progetto di regolazione intercomunale dello sviluppo spaziale nasce e muore nei primi anni Sessanta.

 

Negli anni Ottanta, il fenomeno della coalescenza spaziale e relazionale sarà riportato al centro dell’attenzione dagli economisti. Lo incontrano mentre erano alla ricerca delle cause delle disparità economiche e territoriali all’interno dei confini nazionali, disparità che, nell’Italia del Secondo dopoguerra, si esprimevano nella storica contrapposizione tra due macroregioni: Settentrione versus Meridione. Poi, nel 1977, Arnaldo Bagnasco propone una tripartizione del territorio italiano, per fare spazio alla Terza Italia. Prospettiva condivisa da Giorgio Fuà, che nel 1983 accomuna le forme del processo di industrializzazione del Centro e del Nord-Est.

Il paradigma macroregionale ha avuto una grande importanza teorica: ha ampliato la costellazione di fattori istituzionali che spiegano lo sviluppo economico. Si è però subito scontrato con l’evidenza empirica di forti disparità territoriali all’interno delle macroregioni stesse. Era necessario scendere di scala, e i dati mostravano che la scala rilevante alla quale si manifestavano le disparità e si esprimevano le forze che generavano le traiettorie di sviluppo locale era quella trans-comunale.

Già nel 1978 l’Irpet aveva proposto una mappa della Toscana per sistemi trans-comunali. Ma è nel 1987 che questa figura territoriale assume un rilievo nel dibattito scientifico (e politico), quando l’Istat pubblica la prima mappa del territorio italiano in termini di ‘sistemi locali (del lavoro)’, approntata in collaborazione con l’Irpet. Cosa ha spinto gli economisti verso la nuova figura territoriale dei sistemi trans-comunali? Il fatto che in molti casi la produzione manifatturiera avveniva attraverso reti di imprese verticalmente integrate. E che le reti di imprese si spazializzavano per insiemi di comuni contigui, per sistemi trans-comunali. Sul piano della logica economica era già stato dimostrato che la rete di imprese, sotto certe condizioni – contingenti, presenti qui-ora –, era una scelta efficiente. E queste condizioni sembravano sussistere nei territori del Centro e del Nord-Est.

Alla stessa scala si spazializzavano i flussi di pendolarismo casa-lavoro, e si gerarchizzava il territorio facendo emergere un comune come ‘centroide’, punto focale nel quale si concentravano i processi tipicamente urbani. I sistemi trans-comunali evolvono in comunità, in polis che attendono di diventare civitas.

Il sistema trans-comunale per eccellenza è il distretto industriale (neo-marshalliano), che attrae l’attenzione per la sua rapida crescita economica ed elevata coesione sociale. È del 1987 la raccolta di contributi curata da Giacomo Becattini – Mercato e forze locali: i distretti industriali –, che segnerà una cesura nel discorso scientifico sullo sviluppo economico italiano, assegnando ai ‘luoghi’ e ai loro caratteri un rilievo mai avuto prima. Ad osservarla con attenzione, tuttavia, la mappa del territorio italiano per sistemi trans-comunali non raccontava solo la storia dei distretti industriali; ne raccontava anche altre.

Nel 1990 Dino Martellato e Fabio Sforzi curano una raccolta di saggi che introduce un’altra figura territoriale, chiudendo il cerchio aperto da De Carlo all’inizio degli anni Sessanta. Esaminano quella mappa e concentrano l’attenzione sui sistemi trans-comunali che avevano come centroidi le maggiori città italiane, e li chiamano sistemi urbani. Con gli algoritmi che gerarchizzavano i flussi di pendolarismo per motivi di lavoro si riscopriva ciò che camminando e osservando gli urbanisti avevano scoperto all’inizio degli anni Sessanta. Del resto, i flussi di persone e risorse nello spazio sono l’altra faccia della disposizione nello spazio degli elementi del sistema insediativo.

A riflettere sulla dimensione metropolitana che si manifestava nel territorio italiano stavano entrando in scena anche i sociologi. Nel 1993 Guido Martinotti pubblica Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, aggiungendo una voce disciplinare nel dibattito italiano che, nel corso del Novecento, ha segnato la riflessione sulla città in evoluzione tanto profondamente quanto quella degli urbanisti.

All’inizio degli anni Novanta, in primo piano nel dibattito scientifico non vi era soltanto la figura del distretto industriale – che, poi, altro non era che una ‘città di fatto’ con una base economica spiccatamente manifatturiera e settorialmente specializzata. Vi era – di nuovo – anche quella dell’area metropolitana. E questa lettura del territorio italiano diventa progetto istituzionale con la legge n. 142/1990: città metropolitane da istituzionalizzare per trasformarle in unità di regolazione, ‘città di fatto’ da riconoscere nei loro confini incorporando territori comunali in altri territori comunali, unioni di comuni da formare. Ma, come già accaduto all’inizio degli anni Sessanta con il Piano intercomunale milanese coordinato da De Carlo, il progetto istituzionale finisce nel nulla. Il Parlamento tornerà a legiferare sullo stesso tema nei decenni successivi, finché il sipario si chiude con l’inutile legge n. 56/2014.

 

All’inizio degli anni Novanta, gli urbanisti erano di nuovo in viaggio, alla ricerca delle forme in divenire dell’organizzazione spaziale, nel caos della ‘rivoluzione territoriale’ italiana. D’altro canto, “l’urbanistica si fa camminando”: lo sguardo istruito ed empatico è il suo principale dispositivo conoscitivo, ciò che genera parte dell’evidenza empirica necessaria al progetto. Tornare a viaggiare attraverso il paesaggio italiano era necessario, a quel punto della storia territoriale italiana, per riportare al centro dell’attenzione la morfologia fisica e la sua relazione con la distribuzione del reddito, della ricchezza e dei costi sociali. Come nel suo ultimo libro, La città dei ricchi e la città dei poveri (2013), Bernardo Secchi avrebbe poi ricordato – in particolare, agli economisti, in genere distratti rispetto a un tema così decisivo nella storia della città europea.

Sono stati viaggi, quelli condotti in Italia dagli urbanisti, dai quali si è tornati raccontando di estreme dispersioni insediative e di lacerazioni territoriali, ma anche di ‘tracce di città’, di prove di urbanità ed esercizi collettivi di rigenerazione del capitale pubblico. E nuove figure territoriali sono estate proposte: città diffusa, città orizzontale, area vasta, megalopoli (padana). Figure che hanno permesso di riconoscere il carattere dell’urbanità in nuce in territori che non avevano certo il carattere della compattezza – quel “muro a muro” che Max Weber aveva eletto ad archetipo della morfologia fisica della città ma che non corrispondeva più alla forma urbana che si osservava.

Questi viaggi, queste esplorazioni del territorio italiano si compiono mentre l’economia italiana entra in una fase di profonda crisi strutturale. Che inizia negli anni Novanta e continua fino a oggi. L’internazionalizzazione radicale dell’economia europea, il cambiamento del ruolo dello Stato nell’economia – l’affermarsi del paradigma neoliberale– e i vincoli alla spesa pubblica della irrisolta ‘crisi fiscale’ lentamente de-costruiscono la società e i dispositivi economici che generavano e distribuivano il benessere sociale in Italia.

La crisi strutturale dell’economia italiana significa una profonda e continua riconfigurazione dell’organizzazione produttiva – del sistema relazionale tra imprese e tra imprese e individui – nell’agricoltura, nell’industria, nel terziario. E ciò genera un’estesa obsolescenza di ‘uomini e cose’, territori che diventano inutili. Lo sviluppo spaziale non segue una traiettoria lineare dettata dal ritmo della crescita economica ma, piuttosto, una traiettoria caotica, fatta di sottrazioni, aggiunte, dislocazioni, abbandono degli elementi del capitale edilizio – abitazioni, fabbriche, infrastrutture – e del capitale naturale. (Un paesaggio al quale si può dare il nome di ‘drosspace’, per tenere viva la speranza che entrerà di nuovo nel processo economico e sociale.)

Il paradigma neoliberale – che dagli anni Novanta permea e configura lo sguardo sulla società delle maggiori culture politiche italiane e del discorso pubblico – si sofferma sulle grandi città. E di esse mette a fuoco il ‘centro’, che poi interpreta come Festung, il luogo ‘protetto’ nel quale la densità relazionale e la promessa di distinzione per chi ci vivrà che la ‘città verticale’ garantisce – creano enormi valori finanziari. I grandi progetti di trasformazione urbana diventano la nuova frontiera dello sviluppo urbano, e le vistose architetture nelle quali si esprimono sono segnali lanciati sull’orizzonte della globalizzazione: strumenti da usare per una finanziarizzazione ed eventificazione perpetua della città. Per il paradigma neoliberale “the world is spiky”, e tale deve restare per garantire la crescita economica. Lo sguardo neoliberale non raggiunge i luoghi in cui si manifestano gli effetti territoriali della crisi economica: le periferie, gli hinterland – il territorio.

Non resta, allora, che viaggiare e raccontare – il reportage come antidoto allo sguardo sfocato sulla società del paradigma neoliberale. Viaggi necessari a far uscire la narrazione del territorio italiano dal metaverso nel quale è finita, a riportare la realtà e le cause delle trasformazioni territoriali nel discorso pubblico. A rendersi conto degli effetti dell’instabilità microeconomica del neocapitalismo sulla morfologia fisica.

 

A viaggiare nel territorio italiano fortunatamente si continua, e il diario del più recente viaggio ha preso ora la forma di un libro curato da Arturo Lanzani: Italia di mezzo. Prospettive per la provincia in transizione (Roma, Donzelli editore, 2024). Un progetto collettivo: 28 ricercatori si sono messi in viaggio, da soli o a piccoli gruppi, e si sono poi nuovamente incontrati per raccontarsi – e raccontarci nelle oltre 400 pagine del libro – ciò che hanno visto e capito dei luoghi visitati e osservati con il loro sguardo disciplinato. È un viaggio – come spiegato nel capitolo I (Parte prima) – attraverso un territorio de-limitato dai confini delle aree interne, come definite nella Strategia nazionale per le aree interne (Snai), e da quelli delle aree metropolitane, come definite dall’Oecd.

Quando si viaggia è difficile resistere alla tentazione di inviare cartoline: un’immagine e un breve testo che a quell’immagine si richiama. Il collettivo di ricerca che ha costruito il libro ne invia molte, da luoghi emblematici rispetto agli obiettivi della spedizione. Sono inserite nel libro con la stessa scansione dei capitoli, e un modo di leggerlo è iniziare proprio da esse seguendone la sequenza, dalla prima (Mondolfo, storie di scuole e di territori) all’ultima (Salento, paesaggi pionieri nel post-Xylella). Le cartoline anticipano il racconto. Chi le guarda e ne legge i testi comprende che sono ‘frammenti territoriali’ ciò da cui si dipana la ricerca. Li si descrive come se non fossero – e in molti casi non lo sono – tessere di un mosaico. Di ogni frammento si richiama la storia, si osservano i segni del suo essere in transizione, si prova a immaginarne l’evoluzione futura.

Come tutti i resoconti di viaggio, l’intero libro – non solo le cartoline – descrive ‘il qui-ora’, l’esito di una traiettoria evolutiva: le ‘condizioni iniziali’ della traiettoria evolutiva futura, nelle quali cercare le ragioni che alimentano la “speranza progettuale”. Espressione che trovo nel libro e che, nella doppia dimensione metodologica e disciplinare, esprime il sentimento del viaggio che gli Autori compiono.

In cosa consiste la speranza progettuale, il centro di gravità del libro? Fare urbanistica (o economia) senza ancorarsi alla speranza progettuale non ha senso, ovviamente. Ma cosa si può sperare di intervenire nei frammenti territoriali visitati? Ad esempio, nella Pianura padana, terra di mezzo per eccellenza, alla quale è dedicato il capitolo II (Parte prima) del libro?

Gli Autori di questo capitolo mettono in evidenza un carattere della Pianura padana che ritorna in gran parte dei casi-di-studio: non è un territorio auto-centrato. La Pianura padana “… è una grande opportunità geografica, che le economie e le comunità urbane disposte al suo intorno hanno colto per insediarvi le funzioni necessarie al loro stesso sviluppo.” E nel farlo “non hanno avuto scrupoli nell’intensificare lo sfruttamento delle risorse naturali”. Un territorio sul quale gli attori privati e pubblici – dopo l’Unificazione dell’Italia, e soprattutto dagli anni del Decollo industriale – hanno avuto mano libera. La Pianura padana come ‘frontiera interna’ da assoggettare alle esigenze contraddittorie e in continua evoluzione delle ‘nuove economie’: logistica, in primo luogo, agricoltura e zootecnica intensive e, naturalmente, manifattura. La Pianura padana come una (grande) configurazione di frammenti territoriali generati da una continua riconfigurazione dell’uso dello spazio.

Chi ha governato lo sviluppo spaziale della Pianura padana, questo vasto, fragile, affascinante territorio de-costruito come esito della spazializzazione dell’accumulazione di capitale, della crescita economica? Ricordano gli Autori che già nel 1965 Giuseppe Campos Venuti aveva proposto uno schema di sviluppo spaziale della Pianura padana. Uno schema rimasto un ‘fatto intellettuale’, e a trasformare il territorio saranno le scelte, disconnesse l’una dall’altra, delle imprese che operano nei settori della logistica, dell’agro-industria e della grande distribuzione commerciale – e della manifattura –, in una interazione squilibrata rispetto alle vecchie e nuove infrastrutture della mobilità automobilistica e ferroviaria.

Sono gli Autori stessi a chiedersi, alla fine del viaggio, se manifestare una qualche forma di speranza progettuale per la Pianura padana non sia altro che un esercizio retorico. Un dubbio che l’affermazione secondo la quale lo sguardo attento potrebbe “rilevare qualcosa di profondamente nuovo attingendo a un passato profondo” non riesce a dissipare. E troppo lontana nel tempo appare al lettore la Ferrara tra Quattrocento e Cinquecento, esempio che gli Autori propongono per trovare ispirazione nel coraggio progettuale che si è manifestato allora.

La speranza progettuale sembra restare viva scendendo alla micro-scala, alla quale si manifestano episodi di rigenerazione del capitale fisico e relazionale. Sembra restare viva nei dispositivi territoriali ereditati, da ripristinare, a volte già ripristinati, che generano il welfare spaziale – tema al quale Stefano Munarin e Maria Chiara Tosi hanno dedicato studi che certo hanno influenzato gli Autori di molti dei viaggi raccontati in questo libro.

 

Con lo stesso smarrimento con cui si torna da un viaggio nella Pianura padana si torna anche dalle coste dell’Italia di mezzo – viaggio raccontato nel capitolo III (Parte prima). Gli Autori percorrono un tratto della costa sud-orientale (Polignano a Mare-Otranto) e un tratto della costa nord-occidentale (Arenzano-Ventimiglia). Scoprono che “… l’Italia di mezzo costiera può essere considerata, nel suo insieme, un paesaggio (…) che è spesso funzionale alla crescita di altri ambiti dell’urbanizzazione concentrata, anche molto lontani …”. Come nella Pianura padana, all’origine dell’organizzazione spaziale di questi territori non ci sono soltanto dinamiche economiche locali. Le ‘dismissioni’ che gli Autori osservano, che suggeriscono loro l’espressione “spazio della sottrazione” per cogliere un carattere generale delle coste dell’Italia di mezzo, sono episodi che nascono da luoghi e sfere molto diversi. Sono dismissioni di fabbriche, di territorio rurale, di patrimonio edilizio legati “… a fenomeni di obsolescenza, di illegalità e di rischio …”. Le coste sono spazi della sottrazione, come gli Autori sottolineano, anche per gli interventi di ripristino ambientale e rinaturalizzazione, e di rifunzionalizzazione (“… per la riconversione di ex linee ferroviarie in vie ciclopedonali ...”) ed altro ancora. In varie forme, le coste sono territori estesamente e profondamente in transizione.

Sono soprattutto le ragioni che suggeriscono agli Autori di definire la costa uno “spazio conteso” ad alimentare lo smarrimento. A contendersi la costa è una configurazione caotica di azioni private e pubbliche, di istanze locali, regionali, nazionali ed europee, di obiettivi che confliggono. Se un qualche ordine potrà emergere rimane una domanda senza risposta, rimandata a quando, si spera, nasceranno “patti di collaborazione” tra territori costieri e città metropolitane.

 

Ho suggerito che si potrebbe utilmente iniziare a leggere il libro dalle “Cartoline”, ma io l’ho iniziato dal capitolo VIII (Parte seconda): “I territori dell’agricoltura: le trasformazioni dei paesaggi rurali contemporanei”. Come ricordano gli Autori: “L’Italia di mezzo [è] ancora in larga misura l’Italia rurale nelle sue forme nuove, esito dei processi di trasformazione dell’ultimo secolo …”. Naturalmente, bisogna intendersi: gran parte dell’Italia rurale, così come approssimata nella mappa che il lettore trova nelle prime pagine del capitolo, è poi diventata manifatturiera. (Le Marche – dove vivo – sono una regione classificata come ‘rurale’ o ‘industriale’ a seconda degli algoritmi che si usano per compararla con altre regioni italiane ed europee – ma anche a seconda delle mutevoli esigenze della retorica politica.)

Che cosa accade all’agricoltura in una regione che si industrializza rapidamente e intensamente, nella quale il valore aggiunto per addetto dell’agricoltura inizia a competere con quello, in rapida crescita, della manifattura o dei servizi pubblici e privati? Cosa accade all’agricoltura di collina se deve competere nello spazio europeo e poi globale con l’agricoltura di pianura? Se il grano delle Marche deve competere con il grano del Canada?

Anche questo racconto dell’Italia rurale stravolta dai cambiamenti dell’organizzazione e della tecnologia della produzione agricola e zootecnica che si fanno intensi negli anni Sessanta, e che gli Autori sintetizzano con il termine “semplificazione”, corre sul confine tra sconforto e speranza. Scrivono gli Autori che la semplificazione dell’attività agricola è “… all’origine di problemi idraulici, idrologici, ecologici, di qualità delle acque e climatica, di esposizione a fattori inquinanti, di identità e riconoscibilità paesaggistica, pone limiti di accessibilità ai servizi fondamentali che si estendono all’intero territorio dell’Italia di mezzo.” Senza garantire qualità e salubrità dei prodotti agricoli. Ciò che questo viaggio nell’Italia di mezzo restituisce è una “agricoltura vulnerabile e che produce vulnerabilità”. A chiamarla con il suo nome, è la descrizione di disastri che sono economici, ecologici, culturali. Che si sono progressivamente manifestati su un territorio molto vasto – e su gran parte dell’Italia di mezzo.

Gli Autori sono via via più precisi nella descrizione delle forze che plasmano l’evoluzione dell’agricoltura italiana e dei crescenti costi sociali che essa genera. Sono anche attenti a richiamare l’incoerenza della Politica Agricola Comunitaria (PAC) e le interferenze delle lobby che sostengono l’agro-industria. E non omettono di ricordare come l’Italia non sia riuscita a declinare le politiche dell’Unione europea tenendo conto delle specificità dei propri ecosistemi agrari.

Anche al termine di questo viaggio gli Autori nutrono una speranza progettuale. Raccontano di “tracce” di un’agricoltura diversa, che protegge il paesaggio e la biodiversità, il lavoro e la qualità della produzione. E concludono affermando che “(è) forse da queste tracce che possiamo ripartire”, per iniziare un cammino verso la conversione ecologica dell’Italia di mezzo, e dell’Italia intera.

 

Tutti i resoconti di viaggio contenuti in questo libro e le cartoline che gli Autori hanno via via inviato andrebbero letti con attenzione. E dopo averlo fatto, ci si dovrebbe soffermare sulle riflessioni metodologiche e storico-critiche di Arturo Lanzani e Cristina Renzoni, che aprono il libro, e di Cristina Bianchetti, che lo chiudono. Vi si troveranno le ragioni – e anche le difficoltà – di questo intenso e avvincente viaggio nell’Italia di mezzo. E si avrà la conferma di quanto anticipato in (quasi) tutti i capitoli: è stato un viaggio attraverso territori “senza un’idea di futuro”, senza che in essi si sia riusciti a intravedere un progetto. Territori, però, per i quali un progetto appare agli Autori necessario.

Nel libro ritorna continuamente l’azione pubblica – o all’azione collettiva sostenuta dall’azione pubblica – come necessaria affinché si possa esprimere il potenziale di ‘ordine urbanistico’ e di ‘sviluppo’ che sempre nei territori studiati è stato percepito. Ma, il progetto che diventa azione pubblica ha bisogno di un soggetto istituzionale che lo concepisca e lo attui. E sul progetto il cerchio si chiude. Nel punto in cui ritroviamo De Carlo e i suoi collaboratori, che nel caotico territorio milanese avevano intravisto non solo una forma da consolidare ma anche un nuovo soggetto istituzionale che avrebbe potuto farlo, attraverso un piano di sviluppo spaziale intercomunale. L’area metropolitana non era soltanto una figura territoriale suggerita dall’evidenza empirica; era anche una figura istituzionale – un soggetto, una mente – che si assumeva il compito di regolare lo sviluppo spaziale. De Carlo e i suoi collaboratori conoscono la storia della città europea, iniziata con l’industrializzazione e l’urbanizzazione nel XIX secolo. Ricordano come fossero nate le metropoli, come la coalescenza territoriale avesse imposto in Europa nuovi livelli di regolazione dello sviluppo spaziale alla scala ‘locale’. Non hanno dimenticato che Milano aveva esteso la propria giurisdizione inglobando alcuni comuni limitrofi già prima della Seconda guerra mondiale. E che nel 1920 Berlino diventa la Grande Berlino, la città che conosciamo, perché quella era ormai la scala alla quale si esprimeva l’urbanità.

Il Piano intercomunale milanese che De Carlo promuove nasceva negli anni in cui la regolazione del capitalismo italiano iniziava a consolidarsi come progetto politico – alimentata da un’intensa riflessione intellettuale. I primi anni Sessanta erano gli anni del decollo economico, degli elevati tassi di crescita della produzione nazionale, dei crescenti sovrappiù nei bilanci delle imprese e delle famiglie. Ed erano gli anni in cui la mano dello Stato veniva accettata come necessaria per guidare il capitalismo italiano. Erano gli anni della Nota aggiuntiva alla Relazione generale sulla situazione economica del Paese che Ugo La Malfa presenta nel 1962, con riflessioni e proposte politiche che saranno riprese e approfondite l’anno successivo da Giorgio Fuà e Paolo Sylos-Labini in Idee per la programmazione economica. Testi che hanno segnato il cammino verso un modello di regolazione del capitalismo italiano. Un modello, tuttavia, nel quale il tema della regolazione dello sviluppo spaziale non è riuscito a entrare. Abbandonata la prospettiva dei piani intercomunali, dimenticata la riforma sulla formazione e distribuzione della rendita fondiaria, disattese le norme sulla coalescenza istituzionale, la regolazione dello sviluppo spaziale – con i suoi costi sociali e le distorsioni nella distribuzione del reddito e della ricchezza – è scivolata in un cono d’ombra. Fino a diventare una sfera della società italiana nella quale si manifestano profonde distorsioni nei processi decisionali pubblici e privati – nella quale l’illegalità è diventata un carattere connaturato.

Qual è la scala territoriale alla quale si dovrebbe manifestare un soggetto istituzionale con l’intenzione e gli strumenti per delineare un futuro per l’Italia di mezzo? Per trasformare la speranza in progetto? Una domanda, questa, che non è la why question che ha ispirato la ricerca. Ma, se ad essere evocato è un progetto per l’Italia di mezzo, è necessario allora indicare i soggetti istituzionali che lo dovranno formulare e attuare. Tra gli anni Ottanta e Novanta – l’ho già ricordato – la riflessione sulle nuove scale territoriali che coglievano le densità relazionali era diventata progetto istituzionale. Ma quel progetto si è disfatto. Riformularlo non sembra essere nell’agenda politica – e neppure in quella scientifica.

Immaginare un futuro per l’Italia di mezzo deve superare un altro ostacolo: tutti i territori – anche le aree interne e le aree metropolitane – sembrano aver bisogno e chiedono risorse aggiuntive per contrastare i loro dis-equilibri. Risorse finanziarie che lo Stato italiano, vincolato da una ‘crisi fiscale’ che non sa risolvere, non ha. E non avrà, se la democrazia italiana resta fedele al modello di capitalismo sovrano che ha scelto, nel quale in misura sempre maggiore il sovrappiù viene generato in sfere economiche e a scale territoriali difficili da sottomettere all’azione regolativa dello Stato. E, soprattutto, nel quale l’idea di orientare l’uso del sovrappiù è ideologicamente rifiutata. Da alcuni decenni, l’Italia non sta seguendo, e non potrà seguire mai più, una traiettoria di crescita economica. Come distribuire un sovrappiù limitato, che non aumenterà, è già oggi il principale tema politico della democrazia italiana.

Cosa accadrà nell’Italia di mezzo? Per capirlo, saranno necessari altri viaggi, sperando che i resoconti che si scriveranno, le immagini che si raccoglieranno aprano la strada a un radicale ripensamento del modello di regolazione del capitalismo italiano e della sua organizzazione spaziale.

Antonio Calafati

 

 

N.d.C. Antonio Calafati ha recentemente pubblicato L’uso dell’economia. La Sinistra italiana e il capitalismo 1989-2022 (in-corso-d’opera, 2023). Ha scritto Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia (Donzelli, 2009) e curato la raccolta di saggi Città tra sviluppo e declino. Un’agenda urbana per l’Italia (Donzelli, 2015). Il suo sito web è: www.antonio-calafati.it

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

10 GENNAIO 2025

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