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Le donne e gli spazi vissuti: gli spazi nella loro configurazione fisica, ma anche nell’uso; e, ancora, gli spazi per come sono interpretati dai singoli e dai gruppi sociali e culturali e per come si depositano nel loro immaginario. Un insieme di fatti in cui hanno rilevanza le relazioni tra gli esseri umani e tra questi e gli assetti spaziali e vengono via via in evidenza significati e senso.
Ma quali donne? Di quale contesto, di quale ceto, di quale cultura? Insomma: a essere implicata nel tema Gli spazi delle donne è la storia dell’umanità intera. Una bazzecola.
Il primo passo di chi affronta questo, come qualsiasi altro tema o questione, è avere ben chiari i limiti della propria ricerca (senza mai ignorare i rapporti con quanto rimane inesplorato). Ora, definire come campo di indagine il «contesto culturale occidentale, con un affondo in quello italiano» (p. 5) è certo una prima delimitazione. Ma, con questo, il campo di esplorazione rimane immenso e averne coscienza è il minimo che si può chiedere a chi dichiara di impegnarsi in una simile fatica. Questo per dire che le curatrici del volume avrebbero dovuto premettere a chiare lettere che i 14 contributi raccolti nel libro da loro curato – Gli spazi delle donne. Casa, lavoro, società, DeriveApprodi, Bologna 2024 – non sono che sonde in una materia sterminata. Questo avrebbe messo subito le carte in tavola: il libro non pretende di offrire al lettore una sintesi della sintesi (impresa quantomai ardua, raggiunta in rari capolavori della saggistica e della letteratura): chi legge è solo invitato a inoltrarsi in alcuni percorsi dove la questione del rapporto tra le donne e gli spazi, o meglio gli ambienti di vita, viene esplorata da più punti di vista nell’intento di gettare una qualche luce su una materia complessa e sconfinata.
Non resta a questo punto che seguire le autrici nelle loro esplorazioni.
Con Imma Forino, che affronta il tema degli spazi domestici, entriamo subito nel vivo di alcune questioni cruciali. È vero, come afferma l’autrice (a cui, va ricordato, si devono, tra l’altro, importanti contributi sugli spazi del lavoro impiegatizio e sulla storia della cucina (1), con una attenzione alla condizione femminile), che la casa «dalla seconda metà del XX secolo si trasforma in una configurazione più democratica […]»: una svolta, dice Forino, rispetto al passato quando la casa si presentava «quale struttura umana e architettonica via via gentrificata, genderizzata e specializzata» (p. 11)? Un’espressione come «una configurazione più democratica», tanto più se indicata come una rottura epocale, meriterebbe di essere spiegata, magari con un saggio specifico. E, poi, a quali contesti e a quali ambienti sociali fa riferimento l’autrice? Su quali prove documentali si fonda la sua affermazione? Definire le periodizzazioni (con le fasi di transizione e i momenti di svolta) – non c’è bisogno di dirlo – è tra i compiti primari del lavoro storiografico. E, in tutta evidenza, i tempi della storia sociale – per non dire di quella dell’ambiente fisico – non coincidono con quelli della storia politica intesa come azione di governo: i primi sono, in generale, più lenti dei secondi, anche se non mancano fasi della storia in cui è la società a muoversi più rapidamente della politica. Per limitarci all’Italia, se nell’ultimo dopoguerra gli assetti interni delle abitazioni e il loro uso sono cambiati, lo si deve, più che a un cambiamento del quadro politico (il ritorno alla democrazia), a complessi fattori economico-sociali e a mutamenti nei comportamenti e nelle mentalità. Dove, tra i fattori economico-sociali, un ruolo primario è svolto dall’invenzione degli elettrodomestici e dalla loro introduzione in un mercato divenuto accessibile a gran parte della popolazione. In tutta la storia dell’umanità, a dare il contributo più rilevante alla liberazione della donna da lavori massacranti sono stati il frigorifero, la cucina economica a gas e, ancor più, la lavatrice (affermazione, la mia, che, immagino, non piacerà a molte femministe). Questa rivoluzione maturata in un breve arco di tempo non basta, peraltro, a spiegare i cambiamenti nell’assetto e nell’uso degli spazi domestici: occorre porre attenzione a processi di medio lungo periodo che sono penetrati in profondità nei comportamenti e nelle mentalità.
Una prima linea di forza è, io credo, il ridursi, nel secondo dopoguerra, delle distanze tra la casa cosiddetta popolare e quella del ceto medio. Un processo che va, in primo luogo, ricondotto all’uscita dalla povertà di una parte rilevante della popolazione (per merito dell’espansione dell’industria) e all’affermarsi della società dei consumi, a suo modo una rivoluzione sociale in cui sono coinvolti anche gli strati popolari e che ha portato, in generale, a una omologazione dei modi di vita come anche della loro rappresentazione nell’immaginario individuale e collettivo. Ma, più nello specifico, hanno agito due fatti: l’onda lunga del taylorismo che dal mondo della produzione è penetrato anche nella sfera della vita privata (qui Forino, pp. 16-18, vede bene) e il drastico ridursi della possibilità del ceto medio di usufruire dell’apporto della “donna di servizio” (per via del costo crescente della vita nei contesti urbani e l’esaurirsi della riserva di mano d’opera delle campagne). E, se il lavoro di quella che veniva anche chiamata “la domestica” è stato in parte sostituito dagli elettrodomestici, per la restante parte, ha finito per essere accollato alla “regina della casa” (facendone una figura in cui la padrona convive con la serva). In un breve arco di tempo, le distanze tra la donna-moglie-madre del ceto medio e la donna-moglie-madre dei ceti meno abbienti si sono ridotte, e non di poco.
Ci sono poi mutamenti che interessano l’articolazione degli spazi dell’abitazione. Qui la taylorizzazione e l’introduzione degli elettrodomestici si sono combinati con i mutamenti profondi, di natura complessa – insieme sociali, antropologici, comportamentali e simbolici – a cui ho in parte accennato. Gli spazi che meritano più attenzione sono la cucina e la coppia salotto/soggiorno.
In età contemporanea – in campagna, ma non solo; nel mondo popolare, ma non solo – si è assistito alla progressiva perdita di centralità della cucina come fulcro dell’abitazione: uno spazio complesso (imperniato sul focolare) (2), che nel mondo rurale e in alcuni contesti urbani funzionava insieme da sala da pranzo e da luogo di lavoro (3). Ebbene: in città, nell’abitazione degli inurbati poveri che provenivano dalle campagne (e che erano per lo più destinati a incrementare le fila del proletariato industriale), in un appartamento generalmente composto da due locali, la cucina, anche se di dimensioni alquanto ridotte, è rimasta a lungo un ambiente multiuso. La rottura si è consumata con il boom economico 1956-1963, quando anche nelle case destinate ai ceti meno abbienti si è affermata la cucina come spazio specializzato (4): un cambiamento radicale in cui hanno agito i fattori già ricordati (il diffondersi degli elettrodomestici e l’onda lunga della rivoluzione taylorista). E dove, con il venire meno del fuoco del camino, si sono spenti sia la centralità della cucina nella casa sia il suo valore simbolico (come peraltro evidenziato dalla stessa Forino in un bel saggio di un paio d’anni fa) (5).
Opportunamente, nelle pagine conclusive del suo saggio nel volume di cui stiamo parlando, Imma Forino richiama l’attenzione su processi recenti in cui lo spazio riservato al cucinare – grazie a ritrovati tecnologici – torna a far parte di un ambiente più ampio che include il soggiorno, in una logica che vede una inedita fluidificazione degli spazi e il ricomparire di un uso plurimo di ambienti improntati all’open space. Sarebbe però opportuno precisare che si tratta di un fenomeno tutt’altro che generalizzato: riguarda i ceti medio alti.
Veniamo rapidamente alla coppia salotto/soggiorno. Qui siamo nell’orizzonte della casa borghese (e, anche, di quella piccolo borghese). Un mutamento di rilievo è stato la progressiva scomparsa del salotto (6) quale luogo di rappresentanza, quasi il tabernacolo della rispettabilità del nucleo familiare: un ambiente tenuto in modo impeccabile e non accessibile all’uso quotidiano, così da essere pronto per le rare occasioni in cui il locale si apriva agli ospiti. A decretare l’ascesa del soggiorno, quale spazio assai più frequentato e condiviso dai componenti della famiglia è l’affermarsi di nuovi stili di vita, a cui non poco ha contribuito la comparsa di un altro elettrodomestico: il televisore (anche qui è il miracolo economico a fare da spartiacque, con un ulteriore avvicinamento fra ceto medio e ceti popolari). Se poi nel soggiorno imperniato sulla televisione si sia verificato un accrescimento della socialità entro la sfera della famiglia è un fatto tutto da indagare.
Ma c’è dell’altro. Nella ricerca sui cambiamenti che interessano la casa in età contemporanea non si possono trascurare i rapporti tra la singola cellula abitativa e il suo intorno, ovvero l’organismo insediativo in cui la casa è inserita (villaggio, borgo, città; e, ancora prima, la contrada e, dove esiste, il quartiere o sestiere). Per limitarci alla casa popolare, nel corso del XX secolo ha grande rilevanza il ridursi dei legami dell’abitazione con gli spazi collettivi (ballatoi, cortili, androni) e con gli spazi pubblici, a cominciare dalla strada. Un fenomeno dovuto al progressivo richiudersi della vita delle donne e dei bambini – e, alla fine anche degli uomini – entro la sfera familiare: un cambiamento rilevante iscritto nella ridefinizione dei quadri relazionali indotta dall’affermarsi della società dei consumi e dal parallelo dilagare di comportamenti e mentalità individualistici. Ma, in questo cambiamento, un contributo non trascurabile, è venuto dall’apporto di varie discipline, con conclusioni prescrittive in taluni casi recepite in programmi politici. È in questo humus che si è formata la spinta alla riforma della casa popolare improntata a principi d’ordine e contrassegnata dalla pretesa di imporre modelli di comportamento propri di ceti in posizione più elevata nella scala sociale (7). Una tendenza sorretta sul piano “scientifico” da istanze igieniste ed efficientiste: imperativi che la corrente del razionalismo in architettura e in urbanistica ha fatto propri fino a farne una missione. Da qui la pretesa dei razionalisti di qualificarsi come rivoluzionari, quando invece i modelli da loro proposti avevano non pochi caratteri conservatori e di esercizio di potere sulle forme di vita (nel senso assegnato da Michel Foucault, autore che Imma Forino ha tra i suoi riferimenti cardinali). Riguardati in una prospettiva storica, che altro sono i principi passati sotto l’etichetta di «lottizzamento razionale»? Sotto l’azione combinata di queste linee di forza culturali (ma anche politiche), e dei processi strutturali a cui si è fatto cenno, si è così assistito a un progressivo prosciugarsi delle relazioni della casa (in specie di quella “popolare”) con l’intorno. Con conseguenze ampie sui modi di vivere e usare lo spazio e più in generale, sul modo di abitare dei vari soggetti che compongono gli aggregati familiari. Ma nella gran parte dei contributi raccolti nel volume l’orizzonte definito da queste relazioni è trascurato (8). Così come spicca l’assenza, in tutto il libro, di riferimenti alla lunga rivoluzione delle buone maniere (9) che ha contribuito non poco all’affermarsi dell’egemonia culturale della borghesia. Una rivoluzione che non è rimasta confinata nella sfera domestica e che, nella fase di ascesa della borghesia, ha conquistato anche «gli spazi urbani pubblici che assurgono, più che mai, a palcoscenico e a scuola di galateo»(10).
Annalisa Avon (Casa moderna e razionale, o casetta eugenetica?) offre un rapido ma efficace quadro degli interventi del fascismo volti a plasmare «costumi e comportamenti della famiglia, specie della donna» (p. 25).
Ma, mentre risponde negativamente alla domanda se il fascismo abbia avuto un suo specifico «progetto di riforma della casa» (pp. 24-25), tralascia di dire che il ventennio mussoliniano ha invece espresso un chiaro progetto urbano: una politica di ridisegno della topografia sociale delle città, volta a far coincidere la piramide sociale con una distribuzione gerarchica dei ceti nello spazio. Un progetto che rispondeva perfettamente allo slogan «città corporativa»(11), nel 1934-1935 ingenuamente esaltato anche da giovani intellettuali (12) che nel giro di pochi anni si troveranno a lottare contro il regime, quando non a sperimentarne tragicamente, e di persona, la violenza.
Carola D’Ambros (Una stanza tutta per sé. Il progetto domestico al femminile, dal dopoguerra agli anni Settanta), lamentando come nell’ambito della architettura e del design «il patrimonio culturale prodotto da donne riman[ga] per lo più sconosciuto», dopo un bilancio di quanto fin qui elaborato dalla ricerca storico-critica sul lavoro delle donne in questo campo, svolge «un’indagine bibliografica su alcune delle principali riviste di settore italiane» a partire dal secondo dopoguerra (p. 35). Obiettivo: estrarre esempi significativi di ambienti domestici destinati a donne allo scopo di confrontare gli esiti raggiunti dai progettisti distinti per sesso. Esito della “tenzone” (che il lettore intuisce fin dalle prime battute): per sensibilità e aderenza alle esigenze femminili Carla Venosta e Cini Boeri battono i colleghi maschi (anche famosi).
Silvia Bettinelli (Prendere spazio. Dinamiche domestiche nell’arte italiana contemporanea) si propone di rispondere alla domanda «Come contribuisce l’arte a una definizione degli spazi delle donne?». In un percorso dal dopoguerra a oggi l’autrice prende in considerazione manifestazioni artistiche (in senso assai ampio) che si sono interessate della condizione femminile in un’ottica di denuncia e di promozione dell’emancipazione. Una sorta di controcanto alla «resistenza delle donne […] che grazie al loro prendere spazio hanno potuto cominciare a immaginarsi». Nessun dubbio, per Bettinelli, che più di una di queste espressioni “artistiche” veda l’arte in un ruolo di servizio a una tesi: un’arte a dir poco didascalica in cui si respira aria di chiuso (propria di chi si specchia, come Narciso, nelle sue intenzioni). Il contrario del «prendere spazio» che viene dall’arte che ci porta nel vivo della humana (et feminea) conditio.
Raffaella Sarti (Angeli del focolare? Spazi domestici e lavori femminili, una prospettiva storica) affronta, in una prospettiva storica, «il tema della casa come luogo di lavoro», riportato in auge dalla «recente pandemia» (p. 69). L’autrice tende a considerare il lavoro manifatturiero a domicilio come un fenomeno più proprio dell’era preindustriale (p. 72). Ma, intanto, in buona parte dell’Europa Occidentale l’affermarsi dell’industria concentrata non corrisponde a una transizione netta: se è vero che nei settori del cotone, della lana e del lino l’opificio industriale assorbe buona parte della filatura e della tessitura esercitate dalle donne nelle case contadine, in questi settori le lavorazioni a domicilio continueranno a sopravvivere per diversi decenni. Né si può trascurare il lavoro manifatturiero per lo più femminile che resisterà a lungo nelle case popolari dei contesti urbani (sartoria, passamaneria ecc.) (13), come anche nei borghi e nei villaggi. Fra le attività manifatturiere svolte nelle mura domestiche che si spingono fino dentro il XX secolo si possono poi ricordare la tessitura della seta (con grandi telai nelle case popolari di Lione e Como) e le lavorazioni del ferro che, in alcune valli, contemplano finiture effettuate nelle case: tutte attività che vedono per lo più l’impiego di forza lavoro maschile. E maschi e femmine, fino ai primi anni cinquanta del Novecento, si dividono quella prima lavorazione industriale che è l’allevamento del baco da seta che, nel Nord-Italia della piccola affittanza contadina, faceva delle case coloniche dei «veri locali industriali» (14), «ambienti per ospitare manifatture a domicilio prima che abitazioni»(15). Questo per ricordare che il lavoro manifatturiero svolto nelle abitazioni non è una prerogativa esclusivamente femminile.
Diverso è il discorso sul ruolo della donna nei lavori domestici (spesso massacranti – basti pensare al bucato – e mai remunerati): un aspetto ben rimarcato da Sarti che, oltre a portare in luce i rapporti di forza e di potere registrati nelle mura domestiche, dà conto del ruolo prezioso svolto dal legislatore e dalla giurisprudenza sul piano delle conquiste civili e del miglioramento delle condizioni delle donne. E questo sulla spinta dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, con le donne in prima linea.
Alessandra Pescarolo (Lavorare, stare in casa. La stratificazione storica e sociale delle norme di genere) si addentra in una materia complessa con la sicurezza fornitele da categorie interpretative solide e fondate su riscontri documentali.
Può così tracciare a grandi linee un quadro dei cambiamenti e delle continuità sul lungo periodo sul ruolo della donna nella famiglia nei diversi ceti sociali e mettere in luce alcuni passaggi storici e in particolare la «svolta illuministica e borghese». Notevole la conclusione: «Impegnata in una sistematica opera di smantellamento dei pregiudizi, la cultura illuminista non rimosse quello dell’inferiorità femminile: nel quadro di un pensiero che sosteneva l’uguaglianza e i diritti universali, la specificità femminile continuò ad apparire inquietante» (p. 82).
E, ancora, di grande interesse è lo sguardo che abbraccia l’età contemporanea con attenzione al mondo popolare. Centrale per l’autrice è il formarsi di una «forte etica femminile del lavoro» (pp. 83-84) come modo con cui le donne hanno affermato il diritto al rispetto nell’ambito della famiglia. Da cui anche «un attaccamento al lavoro» (non domestico) (p. 84), come rimarcato in questo passaggio, esemplare per concisione e incisività: «La dura cultura femminile del lavoro, oltre a riprodursi nelle campagne e a trasferirsi negli opifici accentrati, mantenne una forte continuità nel lavoro a domicilio, pilastro occulto dello sviluppo della Terza Italia, dagli anni Trenta agli anni Ottanta del Novecento» (p. 87).
Matilde Cassani (Quasi nessuno. La crisi idrica, le mondine e la conquista delle otto ore) richiama l’attenzione sul ruolo delle mondine – «lavoratrici stagionali che compaiono nelle risaie verso la seconda metà dell’Ottocento» (p. 93) – alle cui lotte nel secondo dopoguerra si devono molte delle conquiste sindacali in tema di diritto del lavoro: «Contadine sfruttate nei campi di riso divennero figure-manifesto della libertà, dando avvio alla stipulazione di leggi che ancora oggi tutelano i diritti dei lavoratori» (p. 91). Nel 1906 la conquista delle 8 ore (contro le 12 in auge) da parte delle mondine impiegate nel Vercellese, ricorda Cassani, «fu il punto di partenza sia della stipulazione della Legge statale del 1919 per la regolamentazione del tempo di lavoro su tutto il territorio nazionale […], sia per la Legge n. 741 del 22 maggio 1956, sulla parità salariale tra uomini e donne, che avrà la sua piena efficacia nel luglio del 1963 […]» (p. 95).
L’autrice dà infine conto dell’installazione Quasi nessuno, curata da Paola Nicolin (con il supporto della stessa Cassani, con Leonardo Gatti e Cecilia da Pozzo), che «nei campi attorno all’abbazia di Lucedio» ha dato vita a «un universo popolato da figure visibili, echi di ricordi, con la costruzione di spaventapasseri, dispositivi segnaletici posti» (p. 99).
Sandra Burchi (Storie di case e di lavoro) offre una visione viva e stimolante della condizione delle donne che lavorano da remoto nella loro abitazione, sia come dipendenti che come libero-professioniste. Lo fa dando conto, sinteticamente, delle testimonianze da lei raccolte in specifici contesti con un obbiettivo: «costruire a partire da uno sguardo “in soggettiva” una sorta di “fenomenologia del lavoro da casa” che includesse descrizioni attente e dettagliate, ma anche pensieri, riflessioni, atteggiamenti critici, adattamenti» (p. 105). Tra le questioni al centro della ricerca ci sono le operazioni che consentono di «assicurare alla casa la sua vivibilità quotidiana [disfacendo] l’organizzazione invisibile della vita d’ufficio per ripristinare quella della famiglia e del sé» (p. 106).
Emerge nell’insieme una tendenza all’«ibridazione» sia degli spazi in cui avviene il lavoro da casa sia delle «condizioni di lavoro»: «condizioni eterogenee, difficili da descrivere, ma riconducibili agli scarsi livelli di protezione sociale e di rappresentanza collettiva» (p. 108). Un processo che costringe la donna a un continuo «aggiustamento» (p. 110) dei rapporti con lo spazio della casa come anche delle relazioni con gli altri familiari (da cui in generale viene una richiesta di prestazioni casalinghe aggiuntive). Un aggiustamento che vede anche la costruzione, attraverso un autoapprendimento sul campo, di una nuova consapevolezza e di una capacità “progettuale” in fatto di articolazione e uso degli spazi.
Circa le conseguenze del trasferimento del lavoro entro mura domestiche, Burchi, sempre equilibrata, conclude: «Per le donne, almeno alle nostre latitudini, ma non solo, la sfida di una buona organizzazione include la capacità di mantenere la regia, quando non negoziare, una accettabile condivisione di tutti quei lavori necessari alla vita quotidiana, evitando contraccolpi e regressioni» (p. 115).
Alessandra Migliore e Cristina Rossi-Lamastra (Spazio di lavoro e genere. Verso una prospettiva interdisciplinare), muovendo dall’assunto che «lo spazio di lavoro è […] profondamente connesso non solo a una dimensione puramente fisica ma anche a una dimensione sociale e simbolica che incide sull’identità di lavoratori e lavoratrici e sui loro ruoli nella società» (p. 119), danno conto, in una sintesi stringata, di una ricerca condotta su un vastissima bibliografia: un insieme di «contributi scientifici afferenti a diverse discipline (architettura, design, ingegneria, organizzazione, management, economia, sociologia e psicologia) […]» (ivi). L’indagine ha investito tre ambiti: gli ufficio, «gli spazi della vita quotidiana, incluso l’ambiente domestico» e «gli spazi terzi» (p. 120).
In tema di uffici, viene rilevata la tendenza a un «efficientamento dello spazio» che, mentre manda in soffitta vecchie articolazioni per lo più penalizzanti per le donne, risponde a criteri di fluidità che comportano un uso meno preordinato degli spazi (nel prevalere dell’open space). Tra le conseguenze, si registra una maggiore esposizione della componente femminile che sembrerebbe spingere le donne a compiere «atti performativi nello spazio di lavoro in base a ciò che gli altri (per esempio i colleghi, la leadership e la società in generale) considerano appropriato» (p. 121).
Circa la casa come luogo di lavoro (oltre le prestazioni per la cura domestica) viene posto l’accento sulla pratica che vede «le donne, più degli uomini» cercare «tramite l’ambiente costruito una separazione fisica»: un’autodifesa conquistata attraverso una «demarcazione degli spazi domestici tra vita privata e vita lavorativa» (pp. 122 e 123).
Infine, in merito agli «spazi terzi» (luoghi come «bar, librerie e parchi» in cui vengono ospitate temporaneamente attività lavorative), l’attenzione va soprattutto agli spazi di coworking e ai nuovi spazi di lavoro che rispondono alla denominazione di maker space. Oltre a mettere in luce pericoli di discriminazione di genere, le autrici intravedono, con le dovute cautele, alcune potenzialità per le donne, come quella di «adattare meglio la loro routine lavorativa alle esigenze familiari»; e anche di poter usufruire di «una diversa atmosfera e l’opportunità di interagire con altre persone e professionisti» (p. 124).
Le autrici concludono il loro scritto con alcune linee guida: suggerimenti indirizzati a tutti coloro da cui dipende l’organizzazione degli spazi (progettisti committenti, responsabili a vari livelli ecc.), nella convinzione che «Esaminare come gli elementi dello spazio architettonico interagiscono con una combinazione a più dimensioni della diversità (orientamento sessuale, disabilità, cultura, origini socioeconomiche) può aprire a strade di ricerca e pratica ancora troppo poco percorse» (p. 125).
Carlotta Cossutta (Disegnare gli spazi, disciplinare le sessualità), sulle orme di Carole Paterman e di altre studiose, vede un intreccio intimo e profondo fra la regolazione della sessualità e il definirsi dei rapporti tra la sfera privata e quella pubblica. Rapporti che sono ratificati negli assetti spaziali e che si evidenziano nei modi diversificati di frequentare e usare gli ambienti di vita da parte delle donne e degli uomini. La tesi di fondo è che in Occidente, in ragione del «contratto sessuale» nelle città l’esercizio della politica è – ma forse sarebbe meglio dire “è stata a lungo” – una prerogativa della componente maschile, con la donna per lo più confinata entro la sfera domestica. L’autrice mette quindi in luce i processi di articolazione, caratterizzazione e assegnazione degli spazi al fine di disciplinare la vita delle donne.
Circa la sfera pubblica, sulla scorta di Esther Da Costa Meyer, l’autrice arriva a una affermazione forte – e francamente discutibile – laddove fa rilevare «quanto gli spazi pubblici siano disegnati per escludere le donne» (p. 138). Allo stesso tempo, più avanti, Cossutta si dichiara convinta come «attraverso l’idea che lo spazio pubblico possa essere abitato da pratiche collettive che rivendicano di costruire sicurezza e intimità – pensiamo allo slogan “le strade libere le fanno le donne che l’attraversano” –“le pratiche femministe rovesciano il piano, e mettono al centro un rapporto alla città fondato non più sul semplice uso funzionale, sul consumo, né su passioni tristi come la paura, il disagio, l’estraneità [Castelli 2019 (16)] , ma fondato sul desiderio e sulla relazione» (pp. 139-140).
Lo scritto di Massimiliano Savorra (Architettura e razza durante gli anni del fascismo. Le Case della madre e del bambino), come si evince dal titolo, affronta un tema decisamente circoscritto rispetto all’insieme dei contributi raccolti nel volume. Ma questo consente di focalizzare l’attenzione sulle politiche del fascismo a sostegno alla crescita demografica e in “difesa della razza” ed anche di portare in evidenza principi e linee di azione di rilievo più generale, con ricadute sulle politiche della casa e degli assetti insediativi. Opportunamente Savorra richiama il respiro lungo delle «idee salutiste» e delle «teorie scientifiche igieniste diffuse in Europa e nei paesi del Nord America sin dalla seconda metà del XIX secolo» [un insieme di apporti che] confluirono nella corrente di studi che si occupava di eutenica e che enfatizzava l’importanza primaria dell’igiene e dell’ambiente, intesi come elementi prioritari per la protezione della “razza” e per il miglioramento e la cura degli esseri umani» (p. 145). Con una specificità: «Nell’Italia fascista – rimarca l’autore – il tema della salute fisica emerse con i miti dell’eroe virile e del giovane sportivo e coraggioso, ma soprattutto con quello di “stirpe nazionale”» (p. 140). Oltre a documentare nel dettaglio gli orientamenti che si sono via via affermati nella concezione e nella concreta realizzazione delle Case della madre e del bambino promosse con impegno dal regime, Savorra non manca di rammentare come il razionalismo in architettura e in urbanistica si sia trovato in sintonia con la politica della «bonifica umana» che ha contraddistinto il ventennio.
Michela Bassanelli (Corpi e domesticità in mostra. Le riviste specialistiche, i settimanali femminili, 1958-1972) mette subito le carte in tavola: «Obiettivo del saggio è dimostrare come l’evoluzione dell’immagine del corpo femminile sottolinei un cambiamento in Italia del progetto dello spazio domestico e dei suoi arredi nel periodo compreso tra la metà degli anni Cinquanta, quando si avvia la stagione del boom economico […] fino ai primi anni Settanta, segnati dalla crisi energetica e dal terrorismo, ma anche da lotte e nuove conquiste, soprattutto femminili» (p. 157). L’indagine è basata su un criterio interpretativo che «intende il corpo nella “dimensione antropologica” […] ed esperienziale e non solo antropometrica» (p. 158). La co-curatrice del volume adotta un punto di vista originale: segue l’evoluzione della concezione della casa attraverso la rappresentazione che, su riviste specializzate, la pubblicità offre delle creazioni dei progettisti (architetture di interni e oggetti di design). Emerge, nell’insieme l’immagine di una produzione a tratti fortemente innovativa, capace di cogliere tendenze che affiorano nel corpo sociale (con, fatto non meno rilevante, la risposta attenta del mondo industriale, tutt’uno con l’affermarsi di un importante settore del made in Italy). Il saggio prende in considerazione esempi che possono documentare, in modo convincente, i cambiamenti che interessano uno spazio della casa come il soggiorno, le cui trasformazioni sono interpretate dall’autrice come «l’emblema delle lotte e delle rivendicazioni che caratterizzano la fine degli anni Sessanta» (p. 162). Tra i casi presi in esame, spicca la presentazione pubblicitaria di un paio di ambienti (17) in cui «il corpo della donna si impossessa dello spazio, ne integra le attività, lo percepisce fisicamente e lo ridefinisce in relazione ai propri gesti» (p. 164). Ma, anche in questo caso, non sarebbe stato opportuno un richiamo al fatto che si tratta di oggetti e ambienti pensati per lo più per una fascia sociale media, quando non medio alta.
Roberta Sassatelli (Per lei, per lui. Generi, oggetti, spazi e consumi) affronta le differenze di genere a partire dai consumi. Mette subito in evidenza come, fin dall’infanzia, «le bambine e i bambini tendono a negoziare la propria identità di genere utilizzando giocattoli che spesso incorporano visioni dominanti della femminilità, della maschilità e dei rapporti tra i sessi» (p. 171). Ma, precisa l’autrice, «Genere, oggetti, spazi e consumi si intrecciano strettamente nell’intero arco della vita» (ivi) e da qui intraprende un percorso nella storia contemporanea volto a mettere in luce aspetti significativi per la storia della donna nella società, oltre che nella sfera domestica. Ecco un primo passaggio notevole: «I negozi eleganti prima, le gallerie commerciali e i grandi magazzini poi, si configurano come luoghi importanti per lo sviluppo del capitalismo moderno, non solo perché segnano la trasformazione degli spazi pubblici in senso prettamente commerciale e la diffusione di un nuovo atteggiamento edonistico-estetico nei confronti dell’andare per compere, ma anche perché sono tra i pochi luoghi pubblici nel cuore delle grandi città ottocentesche in cui le donne sono accette e anzi, in qualche modo “sovrane”» (p. 172). Osservato in un tempo più disteso, per l’autrice lo shopping si presenta come «un vero campo di battaglia dei generi» che «corrisponde peraltro a una differenziazione di fondo: le donne descrivono lo shopping usando quadri di riferimento presi in prestito dai discorsi sul tempo libero (socievolezza, fantasia), gli uomini invece più spesso si servono delle cornici discorsive che si applicano al lavoro (efficienza, razionalità) arrivando a sostenere che il loro non è propriamente shopping» (p. 173).
Sassatelli traccia quindi un quadro dei comportamenti di genere dall’interno delle mura domestiche, con una attenzione particolare alla preparazione dei cibi. Notevole l’osservazione secondo cui le fatiche delle donne, anche in un passato non troppo lontano (ma forse in parte ancora oggi), dovevano «essere occultate» (p. 174). Detto altrimenti: la casa doveva brillare ma non si doveva percepire il grande lavoro (non retribuito) che gravava sulle spalle della casalinga.
Con l’avvicinarsi alle dinamiche più recenti, l’autrice vede un relativo avvicinamento tra i generi, ma anche il persistere di distinzioni, non sempre frutto di scelte obbligate. Per questa strada la studiosa arriva a questa affermazione: «quella della cucina rimane anche una sfera in cui le donne possono avere accesso e mostrare spunti di creatività nel quotidiano» (p. 177).
Il saggio non manca di esplorare rapidamente ambiti come quello dello sport e della moda. A questo proposito afferma: «È tuttavia evidente che la moda oggi consente sempre più di mischiare codici tradizionalmente maschili e femminili» (p. 180).
Gisella Bassanini (Abitare nelle famiglie a geometria variabile), infine, prende le mosse da questi interrogativi: «Sentirsi a casa. Sì, ma dove, con chi e in che modo? Come cambiano gli spazi, i tempi, i modi di abitare, e di progettare quando cambia il modo di essere della famiglia?» (p. 185). Il quadro di riferimento assunto è che le «forme di convivenza sono profondamente cambiate» in una tendenza che vede «Le famiglie italiane [che] aumentano di numero, ma si fanno sempre più piccole e isolate e le loro reti progressivamente più corte e fragili» (ivi). Per non dire della crisi demografica e della senilizzazione crescente. E della conseguente frammentazione dei nuclei, fino al loro ridursi a una persona sola («Nelle grandi città, come nel caso di Milano, una persona su due vive sola», p. 186). Da cui l’affermarsi di un mondo composto da «Famiglie anagrafiche, famiglie legali, famiglie sociali, famiglie degli affetti, come annota Chiara Saraceno […]» (p. 187).
Dal momento che «il paradigma “casa-famiglia-lavoro per sempre” è andato in crisi» (p. 188), Bassanini pone l’accento sulla «mancata corrispondenza […] tra l’edilizia esistente, anche di nuova costruzione, e i nuovi bisogni abitativi» (ivi).
Le cause di questo ritardo consistono, a suo modo di vedere, «nella rigidità dell’apparato normativo, nei regolamenti edilizi e d’igiene obsoleti, nelle difficoltà anche economiche del fare sperimentazione», ma soprattutto in «resistenze di tipo culturale, che si traducono in una scarsa propensione alla comprensione dei mutamenti in atto e dei bisogni conseguenti […]» (p. 189).
Circa il che fare, dopo aver richiamato un paio di iniziative messe in campo da «due realtà milanesi [che] hanno deciso di fare da sé» promuovendo le indagini Le smallfamilies e la pandemia e Vivere da soli a Milano nel tempo del Covid, l’autrice conclude con l’illustrazione di due realizzazioni esemplari: le Mommunes, sorte negli Stati Uniti e in Canada per l’«iniziativa di alcune madri single», e la Maison des Babayagas realizzata a Montreuil, a pochi chilometri da Parigi, per merito di Thérèse Clerc e consistente in «una residenza autogestita e collettiva per donne over 60» (p. 192). Modelli che, per l’autrice, indicano la strada da seguire.
Graziella Tonon
Note 1) Mi limito qui a richiamare I. Forino, Uffici. Interni arredi oggetti, Einaudi, Torino 2011; Id., La cucina. Storia culturale di un luogo domestico, Einaudi, Torino 2019. 2) È significativo che, nell’Antico Regime, in molti censimenti della popolazione le famiglie fossero chiamate «fuochi». 3) Mentre, quanto al soggiornare, nel mondo della piccola azienda contadina la funzione era divisa con la stalla che faceva da salotto nei mesi invernali. 4) Ma i prodromi, come Forino non manca di indicare (evidenziandone la portata nell’orizzonte della società imperniata sulla produzione industriale), sono già nelle soluzioni d’avanguardia proposte da Grete Schütte-Lihotzky nel 1926-27 per le Siedlungen realizzate a Francoforte sotto la guida dell’assessore all’urbanistica Ernst May. 5) I. Forino, Intorno al fuoco, in «Machina», 8 aprile 2022. https://www.machina-deriveapprodi.com/post/intorno-al-fuoco 6) Cfr. M. Salvati, L'inutile salotto. L'abitazione piccolo-borghese nell'Italia fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1993. 7) Cfr. G. Tonon, La donna e l’organizzazione materiale dello spazio, in A. Gigli Marchetti e N. Torcellan (a cura di), Donna lombarda. 1860-1945, Angeli, Milano 1992, pp. 571-594. 8) Fanno in parte eccezione il saggio di Alessandra Migliore e Cristina Rossi-Lamastra e quello di Carlotta Cossutta. 9) N. Elias, Über den Prozess der Zivilisation. Soziogenetische und psychogenetische Untersuchungen, Frankfurt a/M 1939, trad. it.: vol. I. La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna 1982; vol. II; Potere e civiltà, Il Mulino, Bologna 1983. 10) G. Consonni, La difficile arte. Fare città nell’era della metropoli, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2008, p. 24. 11) Cfr. G. Consonni, G. Tonon, Milano: classe e metropoli tra due economie di guerra, «Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli», Anno Ventesimo, 1979-1980, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 405-510; G. Consonni, Milano 1923-1963. Tre guerre contro la misura dialogica, «ACME. Annali della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Milano», LXXIII, 2, 2020, pp. 173-198; G. Tonon, Architetti e progetto urbano a Milano negli anni del fascismo, in «Territorio», n. 105, luglio 2024, pp. 153-161. 12) Si veda: G. Dorfles, Per una città corporativa, in «L’Italia Letteraria», 15 aprile 1934, p. 4; G. L. Banfi, L. Barbiano di Belgioioso, Urbanistica Anno XII - La città corporativa, in «Quadrante», n. 13, maggio 1934, pp. 1-2; Id., Urbanistica corporativa, ivi, nn. 16-17, agosto-settembre 1934, p. 40; G.L. Banfi, L. Belgioioso, E. Peressutti, E. N. Rogers, Urbanistica corporativa, ivi, n. 29, settembre 1935, pp. 20 e 23. 13) Si veda, in questo stesso volume, il contributo di Alessandra Pascarolo (pp. 79-90) a proposito del lavoro delle trecciaiole fiorentine e delle fiascaie. 14) A. Serpieri, Il contratto agrario e le condizioni dei contadini nell’Alto Milanese, Ufficio agrario [dell’Umanitaria], Milano 1910, p. 88. 15) G. Consonni, G. Tonon, La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in Aa. Vv., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di Duccio Bigazzi e Marco Meriggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 51-187. 16) F. Castelli, Violenza e spazio urbano. Oltre la sicurezza, verso l’autodeterminazione, in C. Belingardi, F. Castelli, S. Alcuire, a cura di, La libertà è una Passeggiata. Donne e spazi urbani tra violenza strutturale e autodeterminazione, Iaph Italia, Roma 2019, p. 71. 17) Uno firmato da Ernesto Griffini e Dario Montagni, l’altro da Roberto Brambilla.
N.d.C. - Graziella Tonon, già professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano, è membro della direzione scientifica dell'Archivio Piero Bottoni che ha contribuito a fondare.
Tra le sue pubblicazioni: con G. Consonni: Milano: classe e metropoli tra due economie di guerra, nell'Annale su La classe operaia durante il Fascismo della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (1981); Alle origini della metropoli contemporanea, in: Aa. Vv., Lombardia. Il territorio, l'ambiente, il paesaggio (Electa, 1984); Trasporti e strategie di sviluppo nel secolo XIX, in: Aa. Vv., Venezia Milano (Electa, 1984); La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in: Duccio Bigazzi e Marco Meriggi (a cura di), Lombardia (Einaudi, 2001); con G. Consonni e L. Meneghetti (a cura di), Piero Bottoni. Opera completa (Fabbri, 1990); La donna e l'organizzazione materiale dello spazio, in: Aa. Vv., Donna lombarda 1860-1945 (FrancoAngeli, 1992); (a cura di), Piero Bottoni, Una nuova antichissima bellezza. Scritti editi e inediti 1927-1973 (Laterza, 1995); con G. L. Ciagà (a cura di), Le case nella Triennale: dal Parco al QT8 (Electa-Triennale, 2005); con G. Consonni, Terragni inedito (Ronca, 2006); Il paesaggio umiliato. Insostenibile bruttezza della metropoli (Ogni uomo è tutti gli uomini, 2007); Piero Bottoni: il valore costruttivo del colore, in: Giacinta Jean (a cura di), La conservazione delle policromie nell'architettura del XX secolo (Nardini, 2013); con G. Consonni, Piero Bottoni (Electa, 2010); La città necessaria (Mimesis, 2013); Architetture per la città. Il Moderno a Milano nell'Antologia di Piero Bottoni (La Vita Felice, 2014); con G. Consonni, Milano, la questione metropolitana, in «Archivio Storico Lombardo. Giornale della Società Storica Lombarda», dicembre 2020, pp. 41-65; Architetti e progetto urbano a Milano negli anni del fascismo, in «Territorio», n. 105, 2023, pp.162-170.
Ha pubblicato, inoltre, sei raccolte di poesia: Irma (All'insegna del pesce d'oro, 1996); Diva (Manni, 2000); Traslochi (Manni, 2008); Nino e gli altri (La Vita Felice, 2016); La casa col tiglio (La Vita Felice, 2021); Storia di Margherita (La Vita Felice, 2023).
Per Città Bene Comune ha scritto: Città e urbanistica: un grande fallimento (24 marzo 2016); Città: il disinteresse dell’urbanistica (11 ottobre 2019).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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