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L'EGEMONIA DELLA RENDITA URBANA


Commento al libro di Barbara Pizzo



Marco Peverini


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Finalmente si torna a scrivere (bene) di rendita in Italia. Lo fa Barbara Pizzo con il suo Vivere o morire di rendita. La rendita urbana nel XXI secolo (Donzelli, 2023) che non solo usa la rendita urbana come chiave di lettura dei fenomeni urbani, ma analizza in modo approfondito la storia e i contorni di questo concetto che ha dominato il dibattito urbanistico italiano (e non solo) durante buona parte del secondo dopoguerra. Ma cos’è la rendita urbana, qualcuno potrebbe chiedere, e soprattutto, perché tanto impegno su un’idea che in fin dei conti non coinvolge (più) la classe politica e le persone? Le risposte possibili sono molte, ma quella forse più sintetica e militante la propone Edoardo Salzano in un’intervista realizzata da Elena Bertani per la rubrica Autoritratti di Città Bene Comune. Per Salzano, la città è il luogo di scontro tra due partiti dagli interessi contrapposti, quello della rendita e quello dei cittadini e delle cittadine, dal cui esito dipende la qualità stessa della città e della vita al suo interno.

Per capire l’importanza che rivestiva il tema della rendita nel dopoguerra, basti pensare al disegno riformatore della legge urbanistica elaborato dal ministro democristiano ai Lavori Pubblici Fiorentino Sullo nel 1962 che, se realizzato, avrebbe messo buona parte degli incrementi di valore economico dovuti alla concessione di edificabilità tramite gli strumenti di pianificazione in mano alle amministrazioni pubbliche. Si trattava di un’operazione di grande lucidità teorica e pratica, che avrebbe spostato il baricentro delle trasformazioni urbane dalla rendita alla cittadinanza e su cui, non a caso, si scatenò una enorme campagna stampa che lo stesso ministro definirà come una “allucinazione generale” e che porterà la direzione della Democrazia Cristiana a dissociarsi dalla proposta e a farla decadere (si veda anche un breve resoconto di Edoardo Salzano). Il clima di “scandalo” e reazione che segue la proposta di legge sancirà la vittoria politica del partito della rendita, o di quello che Valentino Parlato definirà poi il “blocco edilizio”: un blocco sociale ed economico nel quale, attorno agli “stati maggiori” della proprietà fondiaria urbana, della grande proprietà immobiliare e del capitale imprenditoriale e finanziario si aggregano le “fanterie” dei piccoli proprietari di case o aspiranti tali, dei risparmiatori, degli artigiani e dei lavoratori legati alla produzione edilizia (Parlato, 1972).

Come riporta Salzano, proprio il ministro Sullo scriveva, poco dopo essere stato sostituito nel nuovo governo Moro dal socialista Pieraccini:

“il clima del “miracolo economico” aveva (ed ha) creato aspettative in tutti i proprietari potenziali di aree, anche periferiche e suburbane, soprattutto i più piccoli. E questi hanno reagito. Ora non c’è nulla di peggio che un sogno infranto. Ho ricevuto lettere, in questi mesi, che sono rivelatrici di un diffuso stato d’animo. Dalla Romagna, un cittadino si lagnava perché la legge urbanistica gli avrebbe “confiscato” un ettaro di terreno sul quale aveva sperato di costruire la dote delle figliole! Non ci si rende conto che il moltiplicarsi di questi “sogni ad occhi aperti” dei piccoli proprietari terrieri suburbani è incompatibile con altre richieste che gli stessi proprietari fanno allo Stato democratico, in quanto cittadini che aspirano, ad esempio, al diffondersi della scuola e ad un più razionale sistema di sicurezza sociale. I “sognatori ad occhi aperti” sono tuttavia lottatori furibondi per la realizzazione del sogno, mentre i lavoratori che hanno bisogno dell’area a basso prezzo sembrano rassegnati all’attesa. E lottano debolmente per la legge urbanistica” (Sullo, 1964, p. 21).

Su questo sogno riflettevano criticamente, in quel periodo, tanti intellettuali italiani come Italo Calvino, che nel suo libro La speculazione edilizia (Einaudi, 1957) con una vena di tristezza raccontava della devastazione del bel giardino di casa per costruire una brutta palazzina per “fare una speculazione”, e Francesco Rosi, con il suo celebre film drammatico ad alta carica politica Le mani sulla città (1963) che ben descriveva alcune storture dell’urbanistica del dopoguerra. La vittoria del sogno diffuso di poter speculare sulla rendita può considerarsi tale da lì in avanti, con poche eccezioni come la stagione dei Piani di Edilizia Economica e Popolare (PEEP) – eredità parziale della riforma urbanistica abortita – e la legge Bucalossi che nel 1977 ha introdotto l’obbligo per chi costruisce di versare un contributo per le opere di urbanizzazione.

In seguito, il dibattito politico sul tema si smorza e la rendita urbana viene sostanzialmente dimenticata. A dispetto di questo importante scontro e dell’accesa polarizzazione che ne ha fatto seguito, a partire dagli anni Ottanta e per quasi trent’anni la rendita urbana è passata, secondo Barbara Pizzo, da tema dominante nel dibattito urbanistico italiano ad una fase di oblio ed è diventata argomento “tecnico”, considerato “arido” e respingente ai più – perfino a tanti intellettuali nel campo dell’urbanistica e del territorio. Paradossalmente, la scomparsa del tema della rendita urbana dal dibattito è avvenuta proprio poco prima che i valori fondiari vedessero la loro impennata più forte nella storia recente a cavallo del millennio (Cannari et al., 2016), anche a causa dei processi di finanziarizzazione immobiliare che sarebbero poi temporaneamente collassati con la crisi del 2007 e 2008. Se a cavallo del millennio la rendita è stata oggetto di relativamente pochi studi, dopo la crisi – e di fronte all’evidenza di un mercato immobiliare che era sostanzialmente impazzito – l’interesse per questo tema cruciale è aumentato di nuovo. Solo per citare un celebre libro che ha segnato il campo, Il Capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (2014) dedica molto spazio alla rendita come fattore chiave per spiegare le più recenti trasformazioni del capitalismo e nell’evoluzione delle disuguaglianze e delle sue crisi (e non a caso ha ricevuto forti critiche). Pizzo segue questo filone: “quasi mai si mettono in relazione diretta crisi e rendita” ci spiega l’autrice. “Il mio intento è quindi, direi necessariamente e inevitabilmente, provare a chiudere quel cerchio” (p. 47).

Anche il fronte degli studi urbani ha gradualmente riscoperto un interesse per la rendita come determinante, non solo economica e sociale ma anche spaziale, dei processi che determinano il dispiegarsi dei fenomeni urbani (e viceversa). A livello internazionale si moltiplicano gli studi sulla rendita, e nascono nuovi filoni come quello dell’ecologia politica della rendita (Andreucci et al., 2017). In Italia, sempre più autori e autrici si sono cimentate con il tema, sia dal punto di vista dell’urbanistica – si veda a titolo di esempio il volume che riflette sulla mancata riforma Sullo a cura di Ivan Blečić (2017) o gli scritti di Walter Tocci (2009) – che dell’economia urbana, dove l’incessante lavoro del compianto Roberto Camagni rimane un importante punto di riferimento (Camagni, 1993; 2016a; 2016b; 2019; 2020).

Con il suo libro, Barbara Pizzo consolida questo nuovo interesse nell’ambito italiano, proponendo un ragionamento articolato su: una prima parte che fa dapprima una ricostruzione della “genealogia” del concetto e del fenomeno della rendita urbana nella storia e trasformazione del capitalismo, per poi attualizzarne la rilevanza in funzione dei nuovi fenomeni urbani, includendo un capitolo a cura di Alessandra Esposito che affronta il capitalismo di piattaforma come problema di rendita; una seconda parte che applica il concetto di rendita urbana come chiave interpretativa per guardare all’evoluzione della città di Roma.

Partendo soprattutto dalle ricerche di Anne Haila – importante studiosa della rendita e propugnatrice delle idee di recupero dei valori prodotti proposte per primo dallo statunitense Henry George –, Pizzo passa in rassegna una notevole mole di letteratura nazionale e internazionale e costruisce un quadro interpretativo della storia della rendita urbana. Secondo la ricostruzione di Pizzo, la letteratura sulla rendita è passata dalla fase del “consenso” fino agli anni Settanta – in cui c’era un ampio fronte critico, come abbiamo visto – alla “rottura” degli anni Ottanta e all’ “oblio” dei due decenni successivi. Il suo principale contributo teorico è quello di applicare e aggiornare questo quadro storico in chiave internazionale e poi rispetto al nostro paese, caratterizzato da una “pervasività” della rendita, e di argomentare come questa si sia trasformata in egemonia in senso gramsciano.

L’idea che appropriarsi della rendita sia una sorta di diritto di cittadinanza è ormai così radicata nella cultura da essere considerata un assunto "naturale" o "inevitabile" nell’assetto economico e politico del paese e “diventa un obiettivo da perseguire, a volte quasi un progetto di vita, anche a causa dell’incertezza, dell’inaccessibilità, o anche solo dell’insoddisfazione rispetto al lavoro e alle prospettive occupazionali” (p. 114). Pizzo individua “un effetto da gestione quasi-monopolistica del patrimonio immobiliare anche quando la proprietà è ancora relativamente diffusa, perché la razionalità che guida i comportamenti dei proprietari, piccoli o grandi, è la stessa, e porta ad accomunare nella stessa “classe dei rentier” persone che non hanno niente in comune” (p. 50). Con un parallelo rispetto all’evoluzione del quadro politico, rifacendosi alle ricerche sull’economia politica di Sebastián Mazzuca, Pizzo mostra come alcuni fenomeni recenti – ad esempio, la trasformazione della casa in prodotto finanziario estremamente liquido e l’esplosione degli affitti brevi tramite le piattaforme – stiano alimentando una nuova forma di rentier populism. Questi fenomeni, cioè, stanno “contribuendo a trasformare una parte della popolazione in rentier, e a far credere che tale trasformazione sia possibile per tutti” mentre “la rendita è riferita e inestricabilmente connessa all’improduttività, cioè alla non-produttività, alla speculazione, al consumare senza (ri)produrre”: ciò “funziona finché la rendita di qualcuno viene pagata da qualcun altro, che continua a produrre (e lavorare) per poterla pagare” (p. 12). Inoltre, se da un lato è innegabile che la rendita svolga un ruolo di “coordinamento” degli usi del suolo, indirizzando gli usi più adeguati rispetto a ogni particella di territorio (“coordinamento produttivo” nella definizione di Anne Haila), nel contesto della finanziarizzazione il coordinamento deriva dalle aspettative di guadagno, cioè da una previsione di entrate future (“coordinamento speculativo” per Haila).

In questo contesto, Pizzo dedica ampio spazio a una critica agli urbanisti, per essersi sostanzialmente piegati a “meccanismi di produzione e riproduzione della rendita”, spinti magari dalle “migliori intenzioni, ossia con finalità pubbliche” in quanto “sperano così di ottenere benefici pubblici senza esborsi da parte di un pubblico che si vuole sempre più impoverito, i quali però sembrano non rendersi conto, o non voler ammettere, che gran parte di quei tentativi ha finito per produrre enormi vantaggi privati e altrettanto enormi costi pubblici” (p. 24). In particolare, Pizzo nota che la rendita è “profondamente radicata nei paradigmi di crescita, o pro-growth, all’interno dei quali sono state disegnate nel tempo le politiche urbane e i piani urbanistici”:

“l’urbanistica ha svolto un ruolo affatto secondario nel realizzare tali modelli di sviluppo […] Questo è piuttosto comprensibile, in particolare se si considera la pianificazione una ‘tecnica’ a disposizione di un progetto politico (Mazza, 2015): all’interno dei paradigmi di crescita non solo si ammette la rendita urbana come componente fondamentale dello sviluppo ma, proprio per questo, la si interpreta come organica e necessaria, per cui l’urbanistica mette a disposizione i propri strumenti per determinare opportunamente incrementi di valore da catturare” (p. 25).

Tra gli approcci alla rendita nella disciplina urbanistica, tuttavia, Pizzo distingue coloro che hanno contribuito attivamente alla composizione dei fattori alla sua base (proprietà e regolazione) e coloro che si sono impegnati a contrastare “la quasi-tecnocrazia dell’incremento e della cattura di valore” (p. 22). In particolare, Pizzo distingue tre “momenti” in cui è possibile intervenire sulla rendita nelle trasformazioni urbane: “a monte”, cioè considerando “i regimi di proprietà e gli approcci e le temporalità delle acquisizioni dei suoli nello spazio urbano”; “nel processo” di trasformazione attraverso la regolazione, il che implica “trattare la rendita attraverso la capacità di controllo di ciascun passaggio del processo, cioè di ciascun momento in cui può esserci potenziale rendita, cioè produzione e cattura di valore”; e “a valle”, attraverso la “ridistribuzione dell’incremento di valore e l’uso che si fa di quanto catturato” (p. 28). In Italia, l’unica proposta organica di cattura “a monte” è stata la naufragata riforma Sullo, mentre ad oggi ci si limita a recuperi di quote di rendita “nel processo” e “a valle” che però sono molto esigui, come dimostrato dalle ricerche empiriche di Camagni (2016b; 2019).

L’esempio della città di Vienna è usato dall’autrice per dimostrare che la gestione della rendita “a monte” è più efficace, e permette di liberare risorse per avere alloggi più abbordabili e una migliore qualità edilizia e urbana, tema di cui io stesso mi sono occupato estesamente (Peverini, 2023).

Rispetto a una rifondazione dello studio della rendita in urbanistica, Pizzo mette sul campo sei ipotesi di lavoro:
· “almeno in linea teorica, la rendita non è ineliminabile”;
· la rendita “contribuisce più di altri fattori all’aumento delle disuguaglianze”;
· la quota di rendita sulla ricchezza complessiva è tornata oggi “al livello che aveva tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo” (e l’autrice utilmente pesca riferimenti dalla narrativa di quel tempo);
· i rentier si sono consolidati come “classe”;
· “pochi possono vivere di rendita, molti morirne”, in quanto “un’economia che si regge in larga misura sull’estrazione di valore piuttosto che sulla produzione (…) non può che avere vita breve”;
· “gli impatti socio-spaziali dell’economia della rendita sono iniqui” e dunque “intervenire sulle rendite è necessario, anche con la finalità di non mettere a rischio le nostre democrazie” (p. 53).

 

Nella seconda parte, la città di Roma viene trattata come una città con uno specifico “regime urbano” in cui la rendita svolge un ruolo essenziale nel processo di accumulazione, che a sua volta viene orientato direttamente a produrre altra rendita: “a Roma, infatti, le ingentissime rendite prodotte dalle speculazioni immobiliari non sono state utilizzate per investimenti produttivi (quantomeno, non nello stesso territorio), neppure nei periodi di forte crescita economica, ma alla riproduzione della rendita. Nella capitale d’Italia la rendita rappresenta da sempre la principale “frazione di capitale” all’interno del suo specifico modello di accumulazione, che può essere definito come un modello di “crescita senza sviluppo” – ossia l’opposto dello “sviluppo senza crescita” di cui si discute attualmente nella riflessione sulla post growth” (p. 32). Qualcosa che - secondo l’autrice - si è poi diffuso a praticamente tutte le città del mondo, ma di cui Roma avrebbe il triste primato di essere arrivata prima: “A Roma, dove con una trasformazione quasi antropologica si è ampliata la classe dei rentier contribuendo all’imporsi della rendita come egemonia, si è diffusa prima che altrove l’idea che la rendita fosse un’occasione per tutti (p. 210).

Anche a Roma la pianificazione ha avuto un ruolo chiave: “L’appiattimento dell’urbanistica come “tecnica” a disposizione di un progetto politico (Mazza, 2015), che nel caso di Roma coincide con (o non riesce a emanciparsi e a superare) le ragioni della rendita è, per certi aspetti paradossalmente, all’origine del suo progressivo declino” (p. 203). La valutazione è impietosamente accorata: “Il territorio di Roma è pensato (pianificato) perché produca quegli incrementi di valore, senza lasciare nulla o quasi alla città e ai suoi abitanti. Gli attori della rendita a Roma sono barbari in casa propria” (p. 202).

 

In conclusione, Pizzo riprende Haila nell’interpretare la rendita come “risultato di scelte, e quindi come fatto politico prima e più che tecnico” e constata “con preoccupazione l’aumento del numero di persone che sembrano convinte che di rendita si possa vivere, contraddicendo o addirittura ignorandone la stessa natura selettiva ed esclusiva” (p. 210). “Dall’essere considerata un freno o vincolo [all’economia produttiva, nda], la rendita sembra essersi progressivamente trasformata in un mezzo di riproduzione del capitalismo e, attualmente, in particolare nei paesi ad economia avanzata, in un mezzo essenziale della sua ristrutturazione” e insieme è avvenuta “la trasformazione di soggetti pubblici o para-pubblici in attori della rendita” (p. 211).

Argutamente, Pizzo individua anche una “relazione problematica tra queste ipotesi e il così detto ‘Green Deal’ che invece, pur reclamando una sensibilità per le questioni ambientali, non altrettanto necessariamente propone una revisione del modello di sviluppo e infatti, significativamente, non tocca l’economia della rendita” (p. 55). Un’incapacità di sovvertire o quanto meno mitigare il ruolo della rendita nel nostro sistema economico che, sospetto, sta contribuendo a far fallire miseramente quella transizione che avrebbe dovuto allontanarci dalla crisi climatica. Abbiamo intrapreso una strada pericolosa, a cavallo tra iniquità e catastrofe ambientale, e abbattere l’egemonia della rendita urbana è forse la chiave più importante per uscirne.

Marco Peverini

 

 

Note
1) Il concetto di rendita è infatti fondamentale per gli studi di economia urbana. Per un’introduzione si veda: Camagni R. (1993), Principi di economia urbana e regionale, Carocci.

Riferimenti bibliografici
Andreucci, D., García-Lamarca, M., Wedekind, J., & Swyngedouw, E. (2017), “Value Grabbing”: A Political Ecology of Rent. Capitalism Nature Socialism, 28(3), 28–47. https://doi.org/10.1080/10455752.2016.1278027
Blečić I. (2017, a cura di), Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo. Sguardi e orizzonti sulla proposta di riforma di Fiorentino Sullo, FrancoAngeli, Bologna.
Camagni R. (1993), Principi di economia urbana e regionale, Carocci, Roma.
Camagni R. (2016a), “Urban development and control on urban land rents”, Annals of Regional Science, 56: 597-615.
Camagni R. (2016b), “La riforma della fiscalità urbanistica”, in Petretto A., Lattarulo P. (eds.), Contributi sulla riforma dell’imposizione locale in Italia, Carocci, Roma.
Camagni R. (2019), “Redistribuzione della rendita urbana: teoria e attualità”, in: Baioni M., G. Caudo e N. Vazzoler (eds.) (2019), Rendita urbana e redistribuzione, NU3-Note di UrbanisticaTre, Università di Roma 3, Roma.
Camagni R. (2020), “Space, Land Rent and Income Distribution”, Scienze Regionali – Italian Journal of Regional Science, n. 3, vol. 19, 343-372.
Cannari L., D’Alessio G. and Vecchi G. (2016), “I prezzi delle abitazioni in Italia, 1927-2012”, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers) 333.
Parlato V. (1972), “Il blocco edilizio”, in F. Indovina (a cura di), Lo spreco edilizio, Marsilio, Venezia.
Peverini M. (2023), Promoting rental housing affordability in European cities. Learning from the cases of Milan and Vienna, London: Springer.
Piketty T. (2014), Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano.
Sullo F. (1964), Lo scandalo urbanistico, Vallecchi Editore, Firenze.
Tocci W. (2009), “L’insostenibile ascesa della rendita urbana”, Democrazia e Diritto, n. 1, 17-59.

 

N.d.C. Marco Peverini è ricercatore (RTDa) presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Urban Planning, Design and Policy, con una borsa sostenuta dal Consorzio Cooperative Lavoratori di Milano. Si occupa della relazione tra politiche abitative e città, con particolare riferimento al tema dell’housing affordability, e dal 2022 svolge la sua ricerca nell’Osservatorio Casa Abbordabile (OCA) di Milano. È membro del Collettivo per l'Economia Fondamentale e co-coordinatore del gruppo Social housing: institutions, organisation, and governance del European Network for Housing Research (ENHR).

Tra le sue pubblicazioni: Bricocoli M., Peverini M. (2024), Milano per chi? Se la città attrattiva è sempre meno abbordabile, Siracusa: Letteraventidue; Moscarelli R., Peverini M. (2024), “Cambiare prospettiva sulla crisi abitativa: oltre i confini urbani del fabbisogno”, Territorio, n. 105, 78-85; Bricocoli M., Peverini M., Tagliaferri A. (2021), Cooperative e case popolari. Il caso delle Quattro Corti a Milano, Padova: Poligrafo.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

14 FEBBRAIO 2025

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