Massimo Fortis  
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INTERNI MILANESI, UN LIBRO E UNA MOSTRA


Il libro e la mostra di Enrico Morteo e Simona Pierini



Massimo Fortis


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Foto di Barbara Verduci

IL LIBRO

1954, X triennale di Milano: nel ricordo di chi scrive resta viva l’immagine del labirinto disegnato dallo studio BBPR con i graffiti di Saul Steinberg, realizzato nelle adiacenze del palazzo progettato da Muzio. A questa prima immagine di un ragazzino decenne si associano le figure degli interni abitativi ospitati nel padiglione principale e nel parco in quell’edizione della Triennale e in quelle successive del 1957 e del 1960. Allora una sorta di epifania rispetto a un mondo abitato da mobili severi delle prozie, mordenzati di noce scuro con zampe di leone o, nel migliore dei casi, da suite di mogano con vagheggiamenti Liberty oppure da pochi inserti novecentisti in radica. La scoperta di un mondo altro, prodromo di una modernità inarrestabile che di lì a poco avrebbe mostrato le sue falle, fu accompagnata in quegli anni ’50 dalla consultazione mensile della rivista Domus che illustrava come avrebbe dovuto essere la casa del presente/futuro (alla rivista Casabella era attribuito il compito di fornire indirizzi sul versante architettonico/urbanistico).

Il merito della ricerca condotta da Enrico Morteo e Orsina Simona Pierini e abilmente condensata nel ponderoso volume pubblicato da Hoepli nel 2023 – Nelle case. Milan Interiors 1928-1978 è quello di restituire e di trasmettere l’esperienza e la storia degli interni domestici per la buona società, su progetto di architetti e designers operanti a Milano, nell’arco di un cinquantennio, dal 1928, convenzionalmente assunto quale anno di nascita del modernismo italico per la contemporanea comparsa della riviste Domus e La Casa Bella, al 1978, anno in cui si affacciano nuove esigenze o nuove clientele.

A partire da quegli interni che si collocano quali anelli di congiunzione tra una tradizione venata da contaminazioni Déco e un incipiente modernismo filtrato da oltralpe, tra cui le dimore firmate da Portaluppi, Rava, Andreani e, prima ancora da Muzio, sono documentati lungo settecento pagine duecentoventi ritratti di spazi domestici, suddivisi per decadi e filtrati secondo temi o chiavi interpretative entro un ordine non rigidamente cronologico. Tutte le case sono illustrate da 1357 immagini fotografiche risalenti all’epoca della loro realizzazione, in genere tratte dalle riviste o da archivi di fotografi di rango (solo per pochissime è stata possibile la restituzione a oggi perché accessibili e pressoché immutate) e, per una buona metà (centotrenta), accompagnate anche da accurati ridisegni delle piante in scala 1:200. Materiali in senso lato noti ma sfarinati entro le annate delle riviste, le numerose storie dell’architettura e del design o le monografie dei singoli autori. Non solo un repertorio ordinato, contributo di per sé meritorio: la rilettura delle duecentoventi case, grazie ai saggi di inquadramento e ai grimaldelli tematici, offre un quadro comparativo di un’esperienza locale ma rilevante nel panorama del Novecento e consente di focalizzare le note costanti e le dissonanze, nonché le mutazioni del gusto dagli anni ’20 alle sperimentazioni radical degli anni ’60-’70. Con un’acme nel periodo della ricostruzione tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’60; nel decennio successivo un cambio di passo diffusamente raccontato nei commenti degli autori.

Quasi impossibile condensare la varietà di spunti che traspare dagli esempi selezionati e dalle ipotesi interpretative fornite dagli autori (ben cinquantacinque!); tra le tante possibili, isolo alcune notazioni a latere suggerite dall’immersione nelle pagine del libro.

Case (e oggetti) per chi? Per un’élite di minoranza, verrebbe da dire. In un secolo che ha posto sin dal suo inizio il tema della casa per tutti – o, nella versione italiana, della casa popolare – a seguito degli imponenti fenomeni di inurbamento, la foto di gruppo degli interni milanesi ospitata nel volume si configura come un’operazione di nicchia. I destinatari, alias committenti, tra cui molti degli stessi architetti per se stessi (67 su 220), appaiono reclutati nelle file di una borghesia benestante e progressista, anche se non mancano figure di magnati alla ricerca di un lusso più discreto, fra questi i Necchi o i Borletti, oppure di imprenditori, come Olivetti, bisognosi di un pied à terre per le trasferte milanesi. In generale, l’identikit degli abitanti ritrae l’immagine di una classe di professionisti o di benestanti forniti di strumenti culturali e sensibili alle aperture proposte dalla modernità. Sullo sfondo l’attenzione alle novità in campo letterario, l’interesse per il cinema, la frequentazione assidua delle gallerie d’arte e degli spettacoli offerti dal Piccolo Teatro. A posteriori, verrebbe da dire, emerge la ricerca di un’identità attraverso la rappresentazione della propria casa, se non di uno stile personalizzato diverso da quelli codificati del passato o da quelli omologati dal successivo futuro scavolinico o ikeale. Una condizione genetica di fragilità: moltissimi di questi interni, anzi la maggior parte, come viene segnalato, sono stati trasformati o deformati, talora anche nel layout, se non completamente distrutti; resistono quegli spazi che attingono al Grande Stile (ma anche Villa Necchi Campiglio fu alterata da Buzzi), magari musealizzati o destinati ad archivio, oppure testardamente mantenuti da discendenti che hanno voluto e potuto rispettarli. Eppure, la ricerca presentata va ben al di là di una rivisitazione elegiaca: in primo luogo, emerge la qualità di un contributo in chiave propriamente storica nel ricostruire accuratamente una stagione importante della cultura dell’abitare, inoltre, va riconosciuto alla raccolta un valore didattico, una sorta di manuale d’uso cui è ancora possibile attingere a distanza di anni.

I protagonisti della stagione. Sono circa cento gli autori dei progetti: quasi tutti operanti su almeno due fronti, in genere quelli dell’architettura di interni, allestimento e design, moltissimi su tre fronti, a comprendere la scala edilizia di fabbricati pubblici o privati (in primis, Gardella, Albini, Ponti, Caccia Dominioni), altri operanti a tutto campo, anche in ambito urbanistico, è il caso di Bottoni (1) e non è il solo. Si intravede alle loro spalle una tradizione più antica nel contribuire a definire il carattere e lo stile degli spazi abitativi da parte degli autori dei manufatti edilizi (2); in termini temporali più ravvicinati sembrano agire per quelle due generazioni i precedenti della stagione Arts and crafts, del Werkbund e, soprattutto, le linee programmatiche formulate dalla Bauhaus. Linee messe in discussione, se non sotto accusa, dall’avvento di Hannes Meyer in favore di un’edilizia standardizzata e massificata (3). Resta la curiosità di capire come convivessero, almeno per una parte dei protagonisti, le pratiche progettuali riguardanti le case popolari o di livello corrente con l’elaborazione più sofisticata che emerge da questi interni. Mi piace pensare che i dispositivi spaziali e di arredo sviluppati per la committenza borghese, nonché per l’auto committenza, siano stati un campo di sperimentazione dal quale estrarre dei suggerimenti – accorgimenti distributivi, materiali, dettagli – da rieditare in forma semplificata nelle case per i più.

Una modernità addomesticata. Che il modernismo abbia attecchito in Italia in una forma più mitigata rispetto ai modelli stranieri di importazione è ormai una interpretazione universalmente accettata dalla storiografia. Anche in campo edilizio, a parte le fiammate degli anni ’30 e dei secondi anni ’40, il linguaggio architettonico si incanala nei ranghi di una contaminazione che appare più adeguata al paesaggio e alla storia delle città italiane. Milano non fa eccezione: come documentato dal libro di Orsina Simona Pierini e Alessandro Isastia, Case milanesi 1923-1973. Cinquant’anni di architettura residenziale a Milano, sempre per i tipi di Hoepli, gli esempi puri rapportabili all’International Style sono relativamente pochi(4), per il resto, tra retaggi novecentisti e mediazioni linguistico-costruttive, il panorama degli ottanta edifici schedati restituisce la ricerca di una «via di mezzo» tra cui spiccano le residenze disegnate da Gardella e, su un altro versante, da Gio Ponti. Un clima forse ancora più marcato nella messa in scena degli interni. A fronte delle figurazioni algide e programmatiche dei modelli abitativi proposti da Le Corbusier o da Mies van der Rohe, le abitazioni milanesi del periodo rivolgono lo sguardo verso una dimensione umanistica e conciliante del vivere quotidiano, con qualche guizzo sperimentale in più(5). Una visione e un programma consapevoli, espresso con parole chiare nell’editoriale di apertura di Gio Ponti nel primo numero della rivista Domus(6). In sintesi: un razionalismo temperato all’italiana o, in particolare, alla milanese.

Ambientare, recuperare, introdurre. Un corollario di quanto sopra: se la casa, lo spazio abitato, non è solo una macchina funzionale oppure un allestimento di rappresentanza ma un luogo del vivere, si aprono le porte ad altre immissioni. Alle opere d’arte innanzitutto – quadri o loro riproduzioni, sculture – entro una consuetudine ininterrotta che procede dalle dimore nobiliari alle abitazioni della media e alta borghesia. Segue il recupero di complementi di arredo e mobili del passato che trovano posto accanto ai prodotti più recenti del design ispirati alla modernità. A completare lo scenario corale la comparsa di oggetti provenienti da un artigianato ricercato, di marca nazionale o etnica. Alla perentoria iconicità degli alloggi manifesto proposti dal Razionalismo si sostituisce un paesaggio ordinato da un principio sapiente di convivenza tra l’antico e il nuovo e popolato da oggetti di affezione, nuovi Lari, abitanti della casa al pari dei viventi. In taluni esempi tale convivenza è governata secondo una regola di sobrietà e rarefazione nella ricerca di un equilibrio tra spazio e oggetti ospitati; in altre prevale una forma di affollamento festoso in un amalgama di colori e di oggetti, sofisticati o primitivi, sorvegliati da Tripoline o dalle onnipresenti Chiavarine - nella versione originale o re-interpretata - in una mescolanza rivolta alla rappresentazione del vissuto(7).

Arredamenti o installazioni? Nel percorrere le case catalogate nel libro emergono altre declinazioni progettuali segnalate dagli autori. Accanto agli allestimenti formali di alto lignaggio e a quelli improntati da una domesticità conviviale affiorano altre varianti più sperimentali. Per un verso, la casa cessa di essere il luogo della relazione bilanciata di spazio, arte e oggetti d’uso per diventare, essa stessa, opera d’arte attraverso una forte impronta figurativa(8) in altri casi sono gli oggetti a prendere il sopravvento e a diventare i protagonisti entro una formula che punta all’esibizione degli stessi. Una tendenza anticipata da Sottsass e proseguita da altri: «palcoscenici per commedie da camera sono tante le case degli anni Sessanta e Settanta, rappresentazioni individuali», sottolinea Enrico Morteo. Dall’architettura di interni all’Interior Design, potremmo dire, oppure: Design takes command.

Case grandi, medie e piccole + Case nuove, case antiche, case d’epoca. Da 17 mq. a 517 mq., questo il range dimensionale rilevato tra l’unità minore e la più estesa all’interno delle case esplorate. Se l’intonazione «stilistica» tra grande e piccolo è la medesima – pur mutando dall’inizio del periodo all’ultimo decennio – la variante dimensionale spalanca altri fronti alla ricerca progettuale sullo spazio abitativo. A partire dall’organizzazione della pianta che diventa campo di sperimentazione su temi classici dello spazio abitativo: la disposizione dei locali in rapporto alla gerarchia degli affacci e alle funzioni ospitate, la divisione più o meno netta tra zona giorno e zona notte, la segmentazione costrittiva entro una trama di ambienti fortemente identificati contrapposta a una spazialità più fluida secondo i dettami modernisti oppure trasformabile, da qui la sequenza di Modernfold e di serramenti interni a libro o a fisarmonica. Un’attenzione particolare sembra essere rivolta al disegno dei locali secondari, distributivi o di servizio, in cui le armadiature a muro assumono un carattere di rappresentatività; una memoria del plan poché, un tempo ricavato nelle nicchie delle spesse pareti portanti e ora riedito mediante la predisposizione dei tavolati interni.

Altre declinazioni delle «azioni per il progetto della casa»(9) scaturiscono, come è ovvio, dal modus operandi, a seconda che gli architetti intervengano sul nuovo, a maggior ragione se si tratta di interni concepiti insieme all’organismo edilizio, oppure se si inventino allestimenti entro strutture esistenti. Nel primo caso la spazialità e l’organizzazione dell’alloggio sono congruenti con l’idea generativa che regola l’intero manufatto, nei quali spazi dell’abitare, aperture, materiali sono assoggettati alla medesima regia formale. Lo si vede, fra i tanti altri, negli interni progettati da Ignazio Gardella, nella casa al Parco come nella casa ai Giardini d’Ercole (una delle sole tre dimore che chi scrive ha visitato), dove la quieta luminosità si stempera in una penombra che riecheggia l’atmosfera delle case giapponesi descritte da Tanizaki. Negli altri casi, l’architetto ha a che fare con un impianto primario preesistente – aperture, muri maestri – a partire dal quale reinventare uno spazio abitativo altro attraverso l’allestimento di oggetti e componenti figurative capaci di restituire lo spirito del tempo.

Una segnalazione a parte merita la riscoperta dei sottotetti, i parenti poveri degli attici, un tempo sede di soffitte o di abitazioni per la servitù o per i disagiati (prima dell’invenzione degli ascensori). Lasciando da parte il coté immobiliarista di tale pratica, comunque più innocua dell’impulso dato alle sopraelevazioni, se non altro perché incide poco sul paesaggio urbano, i progetti per i sottotetti danno luogo ad altri esercizi sullo spazio abitativo, includendo, oltre disegno della pianta, anche la variante della sezione verticale. Quasi un capitolo a parte nella trama degli esempi analizzati.

Una nota personale: da vecchio tipologo avrei adoperato delle categorie classificatorie più concise e materialistiche rispetto ai sofisticati sottotemi interpretativi (cinquantacinque) proposti dagli autori, un dispositivo raffinato per cogliere le sottigliezze spaziali / atmosferiche sottese agli interni analizzati. Un utile esercizio didattico potrebbe essere quello di ri-classificare la mole dei materiali raccolti sulla scorta di parametri altri.

Soggiorni e dintorni. Dalla sala al soggiorno: la mutazione lessicale restituisce un cambio di rotta nei modi di vivere e di usare lo spazio domestico. Una pressione indotta dai modelli modernisti e dalla tradizione anglosassone della living room. Se pure i saloni di rappresentanza e di convito erano ben presenti nelle dimore altolocate, l’atlante delle case milanesi registra il protagonismo diffuso del soggiorno quale luogo di relazione, nonché di autorappresentazione attraverso la messa in scena degli arredi, delle opere d’arte e dei libri incastonati in scaffali di pregio (la televisione si imporrà di lì a poco). Le foto dei soggiorni la fanno da padrone nelle circa millecinquecento immagini che costellano il volume; seguono, a distanza le camere da letto padronali, cucine e sale da pranzo, se separate dai soggiorni, pochi ambienti di servizio o distributivi, qualora attrezzati, e, vera new entry, le camere destinate ai bambini e a i ragazzi che, dal confinamento delle nursery della tradizione, entrano a fare parte integrante della vita domestica e alle quali i progettisti rivolgono un trattamento di riguardo. Un’attenzione che sarà oggetto di uno zoom monografico da parte degli stessi autori in occasione della mostra allestita a valle dell’uscita del libro.

Evoluzioni gerarchiche: una diceria del presente, non so quanto vera ma verosimile, sostiene che i proprietari di case nuove o rinnovate mostrino con particolare orgoglio agli ospiti la cucina e la stanza da bagno, vale a dire gli spazi dove si è profuso il maggior impegno economico, in tal senso rappresentativi. A fronte di questi il soggiorno può assumere una veste più disinvolta, magari arredato con mobili industriali di serie, acquisendo un carattere meno formale. Come dire? Un soggiorno casual accompagnato da cucine e bagni formali.

Tra il dire e il fare. Nel corso della storia le riflessioni sul tema della casa e dell’abitare non sono certo mancate. La produzione in materia del Novecento, estesa all’oggi, è cospicua: il panorama comprende speculazioni propriamente filosofiche sull’abitare e altre più aderenti al versante disciplinare, è il caso di Fernando Espuelas, così come la casa è stata oggetto di esplorazioni sul piano poetico e letterario, da Tanizaki a Tournier, da Perec a Bajani, per citare i primi nomi affiorati tra i tanti. Vi è stato un decennio, a cavallo del secolo, in cui gli studenti di Architettura ponevano in ex ergo alle loro prove d’esame un passaggio di Heidegger se il tema riguardava la residenza oppure una pagina de Le città invisibili di Italo Calvino se il tema proponeva dei risvolti urbani, il più delle volte senza un nesso apparente con il contenuto dei lavori. Il panorama degli Interni Milanesi appare invece improntato da uno spirito pratico fondato su un approccio empirico. Per quanto non manchino tra i protagonisti del cinquantennio personaggi di ampio respiro intellettuale e culturale, nonché avvezzi a frequentazioni di alto livello, oppure impegnati nel dibattito civile e politico, si fa strada la sensazione che nella progettazione degli interni, più della ratio teorica, abbia agito l’esercizio sapiente del mestiere, arricchito, talvolta, da avances sperimentali.

 

LA MOSTRA (aperta fino al 16 marzo)

Un cambio di strategia comunicativa nella mostra sugli interni milanesi – Nelle case. Interni a Milano 1928-1978, a cura degli autori del libro e con allestimento e grafica di Daniele Ledda – allestita negli spazi di Villa Necchi Campiglio: l’impianto sistematico della ricerca e della pubblicazione che ne è scaturita lascia il passo a una formula espositiva più concisa ed efficace nel trasmettere ed esplicitare le coordinate del lavoro di esegesi. Mentre nella cospicua mostra precedente, ospitata sempre a Villa Necchi nel 2018, Case Milanesi, 1923-1973. Immagini di una città, a cura di Orsina Simona Pierini e di Alessandro Isastia, i materiali esposti, piante, sezioni e alzati degli edifici, erano ordinati secondo sequenze paratattiche, ravvivate da abili astuzie allestitive e rimpolpate da pannelli aggiuntivi di inquadramento, il taglio adottato per la mostra in oggetto affida al visitatore una diversa modalità di interloquire con le immagini e i contenuti esibiti. Una mostra distillato in cui i temi portanti, esplorati nel volume, sono riavvolti in forma sintetica entro sezioni più trasversali rispetto alla periodizzazione del libro madre. Libro che può comunque essere sfogliato a video nella sua versione completa; però, la sostanza dell’evento espositivo sta nella reductio, sapiente e agile, entro due contenitori: la rassegna delle case degli architetti ideate per sé e/o per la propria famiglia e i nove album monotematici 50x70, ciascuno dei quali contiene materiali e spunti per altrettante monografie di pregio.

Le case degli architetti. Pro domo sua, potremmo aggiungere. Il core della mostra: settantuno gli interni documentati, di cui trentaquattro a parete, accompagnati dai ritratti degli autori, protagonisti dell’epoca. Quale appunto sociologico, non sfugge l’appartenenza dei progettisti alla classe dei possibili destinatari delle loro proposte. Se, in un passato più lontano, gli arredatori, e fors’anche gli architetti, erano dei prestatori d’opera al servizio di…, con l’avvento della borghesia i progettisti diventano interpreti omogenei alla loro clientela. Qui, la panoramica offerta descrive una duplice condizione: quella di realizzare, legittimamente, per sé un’abitazione conforme ai propri gusti e alle proprie aspirazioni e, allo stesso tempo, di autopromuoversi attraverso la pubblicazione dei loro spazi domestici. Si avverte un’eco dei salon privati dei pittori parigini dove l’abitazione/atelier era anche galleria espositiva per attirare potenziali acquirenti(10). Con una sfumatura leggibile negli esempi esposti: le case per sé, non tutte, sono più sperimentali e realizzate secondo criteri di maggior economia. Tuttavia, il registro figurativo degli spazi abitati collima con le oscillazioni del gusto e il diagramma dei tempi, fatta eccezione per l’ultimo decennio ove convivono ambientazioni più tradizionali con allestimenti più esaltati, tra cui quelle di Joe Colombo, Carla Venosta e Nanda Vigo.

Gli album. Il rimontaggio di una considerevole parte del patrimonio analitico in atlanti tematici descrive un felice punto di incontro tra economia di mezzi e sapienza comunicativa. Nel loro insieme, i capitoli di un Baedeker per inoltrarsi, a ritroso, nella complessità stratificata del libro. Vale la pena di elencarli e di riassumerli attraverso le parole estratte dai testi introduttivi degli autori.

1. Reinventare la storia. «Fedele all’ordine dell’architettura, la casa milanese non è l’efficiente macchina per abitare disegnata dalla funzionalità dello standard, piuttosto palcoscenico dello spirito e luogo del conforto, punto d’incontro fra famiglia e bellezza, intimità e natura».

2. La mano dell’architetto. I disegni autografi «ci restituiscono un momento felice, forse quello in cui l’architetto più si rappresenta, con pochi segni o con infiniti tratti, alle volte con la perentorietà del feltro, altre con l’indecisione della matita grassa, altre ancora con la precisione della china o la sperimentazione del collage».

3. Le camere dei ragazzi. «… negli anni del dopoguerra, quando i bambini sono l’allegria della ricostruzione: le stanze dei baby-boomer abitano a pieno titolo il centro della casa, sono allacciate alle camere dei genitori o addirittura sono sfondo colorato al salotto».

4. Abitare a colori. Un corollario a posteriori e inedito delle tavolozze che variano a seconda dei decenni: «Ogni architetto, ogni periodo ha una sua palette, dove pavimento, pareti e soffitto si compongono con le cromie dominanti nei materiali scelti».

5. La casa è un quadro. «C’è molta arte nelle case di Milano degli anni ‘50 e ‘60, non solo appesa ai muri, bensì nel disegno stesso dello spazio, in ambienti costruiti come dispositivi a reazione estetica in cui l’esperienza della visione vale quanto la praticità della funzione».

6. Variazioni sullo spazio. Una comparazione preziosa quella offerta dal ridisegno convenzionale in scala 1:50 delle piante di quarantatré case. «Ingresso, soggiorno, pranzo e cucina, oltre alla zona notte e ai servizi: questi i pochi elementi della casa. Se la vediamo dal punto di vista funzionale, poca cosa, ma se invece è il campo di battaglia dello spazio, eccolo scatenarsi in infinite variazioni».

7. Nel dettaglio. E nei materiali. «Ruvido o lucido, disteso o frammentato, a righe o a quadretti, uniforme o variegato, in diagonale o a scacchi, opaco o riflettente, ogni materiale si offre nella varietà delle sue finiture, tagli e pose, per meglio accoppiarsi con gli altri elementi».

8. Un piede in città. Una rassegna di «lussuosi pied-à-terre per momenti ad alta intensità sociale, scali per vite vissute ad alta quota, temporanei approdi per rilanciare relazioni metropolitane».

9. Il futuro è adesso. «… architetti e designer immaginano ambienti fluidi e spazi senza stanze (o quantomeno poche) […] Le cose sono poi andate diversamente, ma dobbiamo ammettere che qualche cosa è rimasto di quelle case scenografiche e un poco fantascientifiche».

Una mostra double face. L’impressione riportata, dopo essermi intrattenuto con gli Interni milanesi negli spazi accoglienti di Villa Necchi, suggerisce che la mostra funzioni su due piani complementari: uno rivolto al grande pubblico, curioso di accostare, anche con spirito voyeuristico, volti e intimità domestiche di una Milano forse un po’ mitizzata ma ancora in auge, basta pensare al valore del modernariato del design di quegli anni, e l’altro destinato agli addetti ai lavori che sembrano trovare stimoli iconografici e culturali ancora vitali nonostante il trascorso degli anni. Ho visto persone, immagino giovani professionisti, fotografare le pagine degli atlanti, quello delle palette dei colori in particolare, un autentico inedito; personalmente avrei trascorso delle ore nel consultare l’album delle piante 1:50 che, nella scrittura convenzionale e notazionale, ha il fascino di uno spartito musicale che rivela la magia delle note solo a chi le sa leggere.

Massimo Fortis

 

Note
1) Va dato merito a Giancarlo Consonni di avere rivisitato in una nuova luce il contributo antesignano di Piero Bottoni nell’ambito del design, un lavoro non ignoto ma sottovalutato, forse meno conosciuto di altri e animato da una componente «democratica», Quaderni dell’Archivio Bottoni n. 13, Il design prima del design. Piero Bottoni e la produzione di mobili in serie in anticipo sulla società dei consumi, Politecnico di Milano, DASTU, 2023.
2) Tra i nomi illustri del primo Ottocento: John Nash, John Soane, Charles Percier & Pierre-François Fontaine, Karl Friedrich Schinkel.
3) Il conflitto tra l’atteggiamento ideologico di Hannes Meyer e le ricerche sulla figurazione sviluppate nelle sezioni della Bauhaus è storia nota, trattata da una bibliografia sterminata (in Italia da Argan in poi); su un versante più frivolo, diverte la ricostruzione condotta in chiave letteraria da Jana Revedin nel suo libro, La signora Bauhaus, attribuendo a Hannes Meyer una distanza sprezzante nei confronti delle elaborazioni grafiche e formali della scuola, giudicate adatte per «damerini elitari».
4) Nel modernismo milanese anni ’30 spiccano le opere di Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri, Albini, Bottoni, la Villa Figini al Villaggio dei Giornalisti e alcune delle case temporanee realizzate nell’ambito delle Triennali negli anni ’30.
5) Una lettura critica del lavoro di mediazione, non privo di affondi sperimentali, condotto dalla cultura italiana, e milanese in particolare, nei confronti dei canoni della modernità è contenuta nel saggio introduttivo di Enrico Morteo, Un adeguato futuro, pp. 9-12.
6) L’editoriale, La casa all’italiana, riportato integralmente in facsimile nel volume, è, come viene sottolineato, emblematico nel tratteggiare una linea di pensiero e di azione per un progetto sull’abitare: … il suo disegno non discende dalle sole esigenze materiali del vivere, essa non è soltanto una 'machine à habiter'. Il cosiddetto 'comfort' non è nella casa all’italiana solo nella corrispondenza delle cose alle necessità, ai bisogni […] ed alla organizzazione dei servizi […] Codesto suo 'comfort' è in qualcosa di superiore, esso è nel darci con l’architettura una misura per i nostri stessi pensieri […] nel che consiste nel pieno senso della bella parola italiana, il CONFORTO».
7) Un’attitudine, diventata quasi una moda negli anni successivi, di rimpinzare le prime o le seconde case di cose accumulate da viaggi, rigattieri e mercatini. Soprattutto in provincia, per testimonianza diretta.
8) Tra gli esempi citati, l’interno allestito da Vittoriano Viganò per sé e la propria famiglia.
9) All’interno dell’opera, le declinazioni riguardanti l’ordinamento planimetrico e spaziale degli alloggi sono sintetizzate, in particolare, nel saggio di Orsina Simona Pierini, Spazi. Azioni per il progetto della casa, pp. 21-25.
10) Rilevanti, al proposito, le case atelier progettate da Auguste Perret negli anni ‘20 per gli artisti Cassandre, Braque e Orloff.

 

N.d.C. – Massimo Fortis, architetto, già professore ordinario di Composizione architettonica e urbana al Politecnico di Milano; ha svolto attività in campo professionale e didattico dai primi anni ’70, alternando interessi rivolti al rapporto architettura e città con l’attenzione per la sintassi della costruzione. Docente a tempo pieno dal 2002, ha ricoperto cariche istituzionali quale responsabile del Laboratorio di Modellistica e coordinatore del settore mostre della Scuola di Architettura Civile; dal 2003 al 2009 è stato direttore del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura.

Progetti e scritti di M.F. sono apparsi sulle riviste: Controspazio, Casabella, Lotus, Arquitectura, 9H, Edilizia Popolare, Costruire, AU, Abacus, T Sport, Chiesa Oggi, su cataloghi di mostre, atti di convegno e opere collettanee. Tra gli scritti, il saggio, Observaciones elementales sobre el lugar / Place (and Such Things), pubblicato sulla rivista “Zarch” n. 1, 2013.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


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21 FEBBRAIO 2025

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