Franco Mancuso  
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IL DIRITTO ALLA BELLEZZA


Forma e valore degli spazi urbani nella città contemporanea



Franco Mancuso


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I commenti di Andrea Villani (9 dicembre 2016) e Lodovico Meneghetti (26 gennaio 2017) al libro di Marco Romano - La piazza europea (Marsilio, 2015) -, che io stesso  avevo commentato in questa rubrica (2 settembre 2016)  così come aveva fatto Paolo Colarossi (10 marzo 2016), insistono in particolare sul tema della bellezza della città e sulle difficoltà di darne oggi una definizione accettabile e una prospettiva rassicurante. È un tema che mi sembra utile riprendere, sul quale non è superfluo tornare, soprattutto se lo si inquadra - come mi propongo di fare - nella più generale problematica dei diritti urbani dei cittadini. So bene che questo passaggio rischia di essere ambiguo, scivoloso e deviante se non si stabiliscono prioritariamente i significati che intendiamo attribuire ai temi che tratteremo. Dunque occorre sgombrare anticipatamente il campo dai molti equivoci che il tema della bellezza può generare e contrapporre valide argomentazioni alle obiezioni che possono essere mosse a chi crede, come io credo, che il diritto alla bellezza della città sia uno dei diritti fondamentali dei cittadini. Questo è ciò che cercherò di fare in questa mia riflessione. 

Vorrei partire considerando che alla base dei molti equivoci che il tema della bellezza solitamente suscita vi è anzitutto il fatto che, a ben guardare, si è trasferita alla città e al paesaggio una concezione della bellezza mutuata da altri campi disciplinari: da quando cioè si è assunto che anche per la città - e per il paesaggio - la bellezza fosse in definitiva "la capacità di appagare l'animo attraverso i sensi, divenendo oggetto di meritata e degna contemplazione" (traggo questa definizione dal più accreditato fra i dizionari della lingua italiana), ritenendo di conseguenza che il diritto a goderne fosse limitato alla garanzia di poter "contemplare" quelle parti di città, o di paesaggio, per le quali taluni avevano affermato che possedessero valori fondamentalmente "estetici". Nell'operatività delle leggi, e conseguentemente degli strumenti di governo della città, la garanzia che tale diritto fosse assicurato è stata riposta nello strumento del vincolo: di modo che quelle parti di città, o di paesaggi, ritenute degne di essere contemplate venissero rese intoccabili e degne solo di quegli interventi che quegli stessi che le avevano designate avrebbero ritenuto compatibili. Tutto ciò sta ancora oggi nelle leggi - vecchie ormai di quasi 80 anni - che regolano questa materia; e analogamente, salvo che per sporadici approfondimenti di campo, negli strumenti per il governo del territorio approntati da comuni, province e regioni. Credo che si possa convenire sulle infauste conseguenze di questa concezione: l'isolamento di porzioni più o meno estese di città e di territori ha contribuito a far si che in tutto il resto si potesse operare senza discernimento e attenzione circa il tema della qualità, producendo le bruttissime città che tutti conosciamo, non impedendo, peraltro, che in quelle pur limitate situazioni ritenute degne di vincolo l'abusivismo producesse disastri incolmabili, poi legittimati con gli strumenti del condono (e dell'urbanistica compiacente, occorre dire). Questa concezione della bellezza va dunque fermamente respinta, se si parla di città, così come vanno rigettati i criteri con cui la si è esercitata

Diritto alla bellezza è tutt'altra cosa: è il diritto, per tutti gli individui e per tutti i gruppi sociali, di vivere in un luogo che essi riconoscano piacevole, attraente, stimolante; un luogo dove non sia opprimente trascorrere gli anni della propria vita: nella casa in cui si abita, negli spazi in cui ci si incontra, in quelli in cui si lavora, nei tragitti che si compiono spostandosi dagli uni agli altri. Il diritto ad avere tutto ciò nei paesi in cui si è nati, o dove si sia approdati giungendo da lontano: da bambini, da giovani, da adulti o da anziani. Sia che si parli la stessa lingua, sia che ci si confronti con espressioni ed idiomi d'altrove; sia che ci si vesta allo stesso modo, sia che si conservino i costumi dei luoghi di origine; che si mangi o meno lo stesso cibo; che si abiti o si frequentino gli spazi della vita sociale in un modo o in un altro.  Diritto alla bellezza è diritto a un luogo fisico in cui ciascuno possa manifestare liberamente i segni della propria cultura, con la consapevolezza che questo contribuirà ad accrescerne nel tempo la qualità e, per l'appunto, la bellezza. È il diritto a vivere in un luogo pulito, nei manufatti, negli spazi e nell'aria; un luogo che non sia dominato dal traffico, oppresso dal rumore; dove ci si possa sentire sicuri, nello stare e nel camminare, di giorno e di notte. Dove la natura non sia stata espulsa ma, al contrario, possa essere ancora protagonista. E infine è il diritto di godere di un luogo del quale si possa anche "contemplare" la bellezza legittimata, ma con la consapevolezza che le stratificazioni storiche che hanno contribuito a generare quella bellezza, le testimonianze della successione di generazioni che si sono materializzate in città, piazze, monumenti, paesaggi, sono patrimonio comune, valori condivisi

Questa concezione del diritto alla bellezza può dar luogo ovviamente a molte obiezioni; richiede dunque altrettante valide argomentazioni per contrapporvisi con forza e convinzione. La prima obiezione è che il diritto alla bellezza così concepito sia una cosa per ricchi: che per i miliardi di persone per le quali le condizioni di vita sono miserabili, per i "dannati della terra", per gli abitanti di suburbi, favelas e bidonvilles, per i senza terra, i senz'acqua, i senza cibo, i senza medicine, vi siano altre priorità e altre emergenze. È un'obiezione che va decisamente respinta: perché questi stessi individui, queste stesse comunità, avevano goduto per secoli di questo diritto, nel modo in cui abbiamo convenuto di intenderlo: nei paesi oggi martoriati dalle guerre, dalla miseria e dal degrado. Paesi e città nei quali i segni di ben radicate culture, ancor oggi percepibili, si erano manifestati negli edifici e negli spazi abitati con forme e significati che altro non sono che ricerca ed espressione della bellezza. Quando si era tutti più uguali - noi assai meno ricchi, e loro assai meno poveri - la deprivazione di questo fondamentale diritto non si era ancora esercitata. Sicché, quando finalmente si porrà mano al riscatto delle loro condizioni di vita non ce ne dimenticheremo, noi e loro: faremo case e luoghi nei quali la spinta all'espressione delle culture di chi ci vive, fino a oggi forzatamente sopita dall'imposizione delle disuguaglianze, possa di nuovo affiorare e man mano rinvigorirsi. Non è impossibile, non è un'utopia: ci hanno provato con inaspettato successo in quelle scuole, quel centro sanitario, quelle abitazioni d'emergenza, quel centro per le donne che abbiamo intravisti di recente a Venezia nell'inaspettata fessura aperta dall'ultima Biennale di Architettura nel rutilante paesaggio di grattacieli e mastodonti urbani, rivelandoci come città e paesi considerati marginali possano avere un futuro e, pur travolti dalle carenze materiali, trabocchino di vitalità e umanità. 

La seconda obiezione è che non si sia più capaci di farlo: che il diritto alla bellezza si sia potuto esprimere solo nella storia - città, piazze e monumenti antichi ne sarebbero il retaggio - e che oggi, anche avendone i mezzi, non si è più capaci di ricreare le condizioni perché ciò possa avvenire. Anche questa obiezione va respinta con forza e decisione: è vero che le nostre città e i nostri territori sembrano aver espulso il valore della bellezza, e che ciò che sembra valere, nel panorama di squallore urbano che pervasivamente ci avvolge, sia quello stratificarsi di eventi che nel tempo si è materializzato nella città storica. Ma è altrettanto vero che la cultura architettonica e urbanistica del nostro tempo ha saputo incorporare, in certi luoghi e nei suoi momenti più felici, il valore della bellezza in modo eloquente, percepibile e riconosciuto, offrendola in dono ai cittadini che hanno avuto la fortuna di usarli: nell'espansione urbana dell'Amsterdam di Berlage, nei luoghi centrali della Lubiana di Plecnik, alla Hufeisensiedlung berlinese di Bruno Taut, nei nuovi quartieri della Francoforte di Ernst May; e poi in quelli di Stoccolma, nelle strade e nelle piazze di Barcellona, nei nuovi parchi urbani di Parigi. E in alcune recenti espansioni urbane realizzate attraverso il recupero di aree urbane dismesse: a Friburgo, per esempio, nei trentotto ettari di un ex campo militare francese e nei settantotto degli ex impianti di depurazione delle acque di scarico della città, dismessi entrambi alla fine degli anni '80, dove sono sorti Vauban e Riesenfeld: veri "quartieri sostenibili" concepiti sulla base di autentici processi di partecipazione dei cittadini; dove più di quindicimila abitanti risiedono felicemente, in belle case ecologiche che si affacciano su belle strade e accoglienti giardini, servizi pubblici efficienti, niente inquinamento, accessibilità integrale, ottimi trasporti pubblici e pochissimo traffico privato. O a Malmö - nel sud della Svezia ma dirimpettaia di Copenaghen - dove un'area di cantieri e fabbriche abbandonate ha generato Vastra Hanmen, quella bella "city of tomorrow" che incorpora, come a Friburgo, i principi della sostenibilità nel quadro della trasformazione ecologica dell'intera compagine urbana.  Se lo si è fatto, dunque, e se ancora lo si continua a fare, più altrove che da noi e con rinnovate energie, non c'è ragione perché non si possa sperare di farlo di nuovo, magari con più incisività e maggior partecipazione

La terza obiezione è che non ci sia più niente da fare: che il diritto alla bellezza sia per sempre perduto, a causa del grado di compromissione delle nostre città e dei nostri territori, così diffuso da non consentire più di enuclearvi spazi di intervento sufficienti a garantire ai cittadini questa fondamentale esigenza; che le buone occasioni siano state tutte perse; che oggi ogni contesto sia ormai bloccato, ossificato, inamovibile; che gli spazi di manovra si siano venuti man mano restringendo, fino ad esaurirsi del tutto. Anche questa obiezione va decisamente respinta perché, invece, il quadro urbanistico delle nostre città sembra mostrare proprio il contrario: città grandi, medie, piccole, al nord e al sud, stanno vivendo intensamente la fase della dismissione di molte delle originarie aree produttive e di molti degli impianti urbani di origine otto-novecentesca divenuti obsoleti - gli scali ferroviari a Milano, Porto Marghera a Venezia… - e vi si impostano progetti tesi a rimetterne in discussione l'assetto funzionale e l'identità morfologica di interi settori urbani se non della città nel suo insieme. È un'opportunità storica eccezionale per le nostre città, unica e irripetibile: la si può cogliere nella prospettiva di colmare il fabbisogno di spazi e servizi, di collegare fra loro ambiti urbani fino ad oggi separati e distinti, di rendere nuovamente accessibili luoghi interclusi che avevano impedito agli spazi pubblici - strade, piazze e giardini - l'indispensabile continuità; e, perché no, di rendere utilizzabile e fisicamente percepibile il ricco patrimonio archeologico-industriale e tecnologico non di rado esistente al loro interno. C'è il rischio che tutto ciò non accada e che l'occasione storica venga bruciata sull'altare della mera valorizzazione immobiliare. Ma ci si può ancora indirizzare verso la prospettiva opposta, quella di utilizzare questo immenso patrimonio ora disponibile per migliorare la qualità - la bellezza - delle nostre città. Cosi come si può agire - come altrove si sta facendo - ponendo mano alla riqualificazione dei quartieri residenziali concepiti nella fase della più acuta emergenza abitativa secondo i principi dell'edilizia di massa: fino all'abbattimento e al loro completo rifacimento, quando non vi siano proprio le condizioni per recuperare le strutture edilizie esistenti. Lo spazio di manovra nelle nostre città esiste, talvolta è immenso, al centro e nelle loro immediate propaggini; così come nelle periferie, dove il verde può ancora essere ramificato e introdursi fra le maglie del costruito, dove i bordi verso la campagna possono essere ridisegnati e i mille cuori storici delle distese metropolitane riproposti e rinvigoriti. 

L'ultima obiezione, la più insidiosa, è che sia venuta meno la rivendicazione del diritto alla bellezza della città perché è venuto meno il bisogno di città; che l'intorpidimento individuale e collettivo generato dalla presenza sempre più invasiva dei mezzi di comunicazione di massa attutisca la rivendicazione di bellezza, confinando i comportamenti sociali in un dialogo quotidiano con gli schermi dei computer e della televisione; con l'avvilupparsi sempre più esasperato e diffuso delle reti telematiche, trasferendo nel privato le occasioni di relazione interpersonale che un tempo erano l'essenza vera della città. In tutto ciò vi è certamente del vero, anche perché appare chiaro che i due fenomeni non sono in contraddizione: i modelli di comportamenti indotti dai media, basati sui principi del consumismo e sull'acquisizione acritica dei valori espressi da chi li gestisce, sono infatti favoriti per l'appunto dalla presenza e dall'efficienza delle reti, attraverso cui tutto ormai sembra si possa fare. Ma anche a questa obiezione bisogna fermamente contrapporsi. Anzitutto perché tutto ciò non accadrà inevitabilmente, così come non è accaduto ciò che al profilarsi di questi epocali mutamenti sociali si era previsto che accadesse: che nessuno più si sarebbe mosso perché sarebbe stato più facile far muovere le informazioni; mentre al contrario la mobilità è aumentata in modo esponenziale, nelle città e nei territori, con tutto ciò che ne è conseguito. O che la trasmissione delle informazioni attraverso le reti avrebbe sostituito integralmente quella cartacea; mentre è avvenuto esattamente il contrario e cioè che il consumo della carta, dall'avvento delle reti, sia aumentato del doppio. Dunque non sparirà il bisogno di città né, di conseguenza, la rivendicazione del diritto alla sua bellezza: lo dimostra il fatto che gli spazi delle città, le piazze, i giardini, quando siano ben collocati e ben disegnati, se sono nuovi o quando li si riqualifichi con interventi appropriati, generano straordinari fenomeni di riappropriazione collettiva; diventano presto i luoghi - gli unici in un mondo le cui forme costruite tendono all'omologazione dei modelli su poche e banali tipologie ripetute - nei quali i gruppi e le comunità possano ritrovare radici e identità. Io credo fermamente, anche alla luce di quanto abbiamo sin qui affermato, che sia lecito e doveroso insistere sul diritto alla bellezza per i luoghi e gli spazi della città contemporanea; cosi come credo sia importante richiamare alle loro responsabilità quanti operano in tali contesti, direttamente o indirettamente - urbanisti, architetti, amministratori pubblici, politici - perché diano spazio a questa fondamentale rivendicazione

Gli urbanisti dovranno finalmente chiedersi se non ritengano che sia venuto il momento di superare quella concezione del piano basata sull'idea che le quantità, con le quali confezionano i loro strumenti, generano automaticamente qualità; di assumere la consapevolezza che gli standard non sono altro che precondizioni, che non producono miracolosamente giardini, piazze, luoghi significativi (al contrario, spesso sono luoghi derelitti, sono solo "ciò che resta" dopo il riempimento delle aree edificabili). Che il dialogo con i cittadini per i quali confezionano i loro piani, alimentato da una appropriata informazione su ciò che di buono accade nel mondo, debba essere posto alla base del loro lavoro. Se hanno compreso che non deve essere assolutamente sprecata questa straordinaria occasione, che non esiterei a definire epocale, di riproporre con i loro strumenti la qualità delle nostre città attraverso il ridisegno delle parti divenute obsolete e la ricucitura intelligente delle loro innumerevoli smagliature; invitandoli a non infierire ulteriormente sull'affastellato groviglio delle normative e invece di contribuire a dipanarlo, di modo che possa essere ricondotto, da ostacolo, ad ausilio per il progetto; e a dedicare uguale attenzione, se non addirittura maggiore, agli spazi delle città e agli elementi naturalistici e del paesaggio rispetto ai manufatti e alle aree. A convincersi che il loro lavoro può dare un contributo fondamentale alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio esistente. 

Allo stesso tempo è giusto che gli architetti, soprattutto quando siano personalità eminenti del mondo professionale, si chiedano se non sia arrivato il momento di cessare di considerare i loro progetti solo come esternazioni autoreferenziali; se non sia venuto il momento di tornare a pensare che i destinatari dei loro lavori non sono le pagine delle riviste di architettura o i pannelli delle mostre internazionali, ma i cittadini e le comunità per i quali i progetti vengono predisposti; che le tematiche su cui occorre impegnarsi non sono solo quelle episodiche ed eccezionali su cui oggi sembra concentrarsi ossessivamente la loro attenzione - musei, per esermpio, sembra non esservi altro di cui valga la pena di occuparsi - ma al contrario i luoghi e gli spazi della vita quotidiana, le case, i giardini, le strade, le piazze, le scuole; che occorre prodigarsi perché l'architettura diventi nuovamente quella "sostanza di cose sperate" che all'inizio della nostra formazione ci aveva folgorato.

E i docenti universitari? Spetta a loro la responsabilità della formazione di architetti e urbanisti, soprattutto quando siano impegnati nella gestione delle scuole di architettura: come pensano di reagire di fronte al fatto che il profilo culturale e professionale dei giovani che escono dai loro istituti tende vistosamente ad appiattirsi su livelli sempre più bassi; cosa pensano del fatto che la disseminazione delle scuole di architettura ha inevitabilmente abbassato il livello dell'insegnamento (si sono fatte tante scuole, d'accordo: ma dove/come si sono trovati i docenti?), che la contrazione degli anni di studio non garantisce competenze adeguate alle sempre più complesse domande della società civile, che i nuovi modelli didattici basati sulla separazione delle competenze e sulla segmentazione delle discipline in tante entità distinte e poco comunicanti rischiano di distruggere quella integrazione dei saperi - quella stessa integrazione che oggi rivendicano filosofi, scienziati, medici, letterati, musicisti, sociologi, ecc. - su cui si fonda la capacità di un buon architetto, o di un buon urbanista, di tener testa autorevolmente alle seducenti tentazioni del mercato edilizio. 

Gli amministratori pubblici infine, di comuni, province o regioni: quali ipotesi culturali ritengono di poter formulare oggi per le città e i territori da loro amministrati, tali da alimentare la rivendicazione del diritto alla bellezza da parte dei cittadini che vi abitano, o che vi abiteranno? Devono essere consapevoli che, in questa prospettiva, iniziative e programmi complementari a quelli propriamente urbanistici - come l'animazione degli spazi pubblici o la messa a disposizione di spazi ed edifici alle comunità che intendano utilizzarli - possono essere concretamente sviluppati e contribuire a far crescere la domanda di qualità. Non appare, nel nostro paese, che siano sufficientemente equipaggiati, in fatto di idee, strumenti e competenze, per contrastare i modelli della privatizzazione e del degrado incombente sulle nostre città, soprattutto dei centri storici. Dovrebbero garantirci di sapersi impegnare, soprattutto nel campo degli interventi pubblici, sviluppando azioni di riqualificazione urbana alimentati da progetti nei quali la qualità - la bellezza, nel senso in cui l'abbiamo descritta sin qui - venga considerata come un requisito prioritario, ricorrendo ove possibile a procedimenti concorsuali appropriati e incentivando i privati ad utilizzare efficaci meccanismi di selezione dei progettisti. Ma anche aprendo le porte ai più giovani, contrastando l'ottenimento degli incarichi attraverso opportunistiche alleanze fra gruppi improvvisati e esponenti dello "star system", consapevoli della scelleratezza di una norma che privilegia non chi è più bravo ma chi ha accumulato maggior ricchezza. 

Concludo con due questioni per i politici, fra le tante possibili, chiedendo loro se non ritengano che sia questo il momento per lanciare un programma paese chiaro ed efficace a favore delle città e del territorio, a partire dal fatto che il diritto alla bellezza è oggi minacciato proprio negli spazi in cui può ancora manifestarsi da nefasti fenomeni in atto, come l'alienazione indiscriminata del patrimonio immobiliare pubblico; e se non condividano il fatto che il dirottamento di enormi capitali pubblici su poche "grandi opere" - oltre a configurarsi spesso come un ulteriore elemento di lacerazione di ambiti e paesaggi di grande valore - sia fattore di sottrazione di mezzi e incentivi per quegli interventi di scala minore - si pensi soltanto alla messa in sicurezza dei centri storici, depositari indiscussi e condivisi della bellezza urbana - che potrebbero innescare la diffusione di processi di riqualificazione degli spazi urbani. Specie adesso, che stiamo scoprendo di essere diventati più poveri. 

Franco Mancuso

 

 

N.d.C. - Franco Mancuso, architetto, ha insegnato come professore ordinario di Urbanistica all'Università Iuav di Venezia. Tra i suoi libri: Le vicende dello zoning (Il Saggiatore, 1978); con A. Mioni (a cura di), I centri storici del Veneto (Silvana Ed., 1979); (a cura di) L'urbanistica del territorio (Marsilio, 1991); (a cura di) Edoardo Gellner. Il mestiere di architetto (Electa, 1996); (a cura di) con Krzysztof Kowalski, Squares of Europe, Squares for Europe (Jagiellonian University press, 2007); Venezia è una città. Come è stata costruita e come vive (Corte del Fontego, 2009); (a cura di) La piazza nella città europea. Luoghi, paradigmi, buone pratiche di progettazione (Il poligrafo, 2012).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

24 MARZO 2017

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di dibattito sulla città, il territorio e la cultura del progetto urbano e territoriale

a cura di Renzo Riboldazzi

con la collaborazione di Elena Bertani e Oriana Codispoti

 cittabenecomune@casadellacultura.it

 

 

Gli incontri 

2013: programma/present.

2014: programma/present.

2015: programma/present.

2016: programma/present.

 

 

Interventi, commenti, letture

2015: online/pubblicazione

2016: online/pubblicazione

2017:

F.Oliva, "Roma disfatta": può darsi, ma da prima del 2008, commento a: V. De Lucia, F. Erbani, Roma disfatta (Castelvecchi, 2016)

S.Brenna, Roma, ennesimo caso di fallimento urbanistico, commento a V. De Lucia e F. Erbani, Roma disfatta (Castelvecchi 2016)

A. Calcagno Maniglio, Bellezza ed economia dei paesaggi costieri, contributo critico sul libro curato da R. Bobbio (Donzelli, 2016)

M. Ponti, Brebemi: soldi pubblici (forse) non dovuti, ma, commento a: R. Cuda, D. Di Simine e A. Di Stefano, Anatomia di una grande opera (Ed. Ambiente, 2015)

F. Ventura, Più che l'etica è la tecnica a dominare le città, commento a: D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città (Ombre corte, 2016)

P. Pileri, Se la bellezza delle città ci interpella, commento a: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)

F. Indovina, Quale urbanistica in epoca neo-liberale, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)

L. Meneghetti, Discorsi di piazza e di bellezza, riflessione a partire da M. Romano e A. Villani

P. C. Palermo, Non è solo questione di principi, ma di pratiche, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

G. Consonni, Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare, commento a: A. Emiliani, Il paesaggio italiano (Minerva, 2016)