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Il terzo incontro di Città Bene Comune 2019 (1) previsto per martedì 21 maggio, alle 18, è stato annullato. Per motivi imprevedibili e inderogabili, Carlo Olmo - con cui avremmo dovuto discutere del suo Città e democrazia. Per una critica delle parole e delle cose (Donzelli, 2018) - purtroppo non potrà essere alla Casa della Cultura di Milano. Con i tre discussant della serata - Cristina Bianchetti - professore ordinario di Urbanistica del Politecnico di Torino, coordinatore dell'area dell'architettura per la VQR 2011-2014 -; Marco Biraghi - professore ordinario di Storia dell'Architettura al Politecnico di Milano e presidente di GIZMO, collettivo di ricerca e rivista di architettura -; Giampaolo Nuvolati - professore ordinario di Sociologia dell'Università degli Studi di Milano Bicocca e direttore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dello stesso ateneo - abbiamo così deciso, nostro malgrado, di rimandare l'appuntamento a data da destinarsi. Di seguito pubblichiamo comunque il testo introduttivo al dibattito preparato per l'occasione.
La Redazione
Perché questo libro?
Se siete tra quanti pensano che democrazia e cittadinanza possano risolversi con un click, potreste provare a leggere questo libro. Certo, forse non è una lettura di quelle da portare sotto l'ombrellone per rilassarvi dopo un anno di fatiche, tuttavia - anche se a tratti avrete l'impressione di essere come la pallina di un flipper sospinta in men che non si dica da una teoria filosofica a un problema storiografico, da un'opera architettonica o urbanistica a un testo letterario di ogni epoca e luogo, da un quesito politico a uno epistemologico - di sicuro vi aprirà la mente su temi e questioni che vi/ci riguardano tutti. Forse smonterà, pezzo per pezzo, molte delle vostre convinzioni sul senso delle trasformazioni della città e del territorio e sul loro impatto sulla nostra condizione vera, presunta o anche solo auspicabile di cittadini, ma al contempo vi rafforzerà nel vostro sforzo di ricostruirne altre. E - pur non mancando di insinuare in voi, come in me, il dubbio di qualche deficit culturale - paleserà chiaramente il nesso che c'è, ma che andrebbe continuamente rinfocolato, tra città e democrazia. Un rapporto complesso "che lega spazio e democrazia urbana, geografia e forme di relazioni sociali" e che "i problemi sociali e culturali della società dell'informazione [contribuiscono] a porre, non certo a sciogliere" (p. 31). Una relazione che ha radici profonde e ramificate che Carlo Olmo insegue attraverso un'articolata riflessione su alcune "parole" - tanto quelle che quotidianamente utilizziamo, leggiamo o ascoltiamo in tutte le forme e le occasioni in cui la città è narrata, quanto quelle dei linguaggi tecnici, burocratici o accademici - e sulle "cose" - ovvero una poliedrica varietà di situazioni, avvenimenti, tendenze, piani progetti, esperienze che fanno la città così com'è, oggi, nella sua evidenza concreta -. Ecco perché anche questo libro - assai diverso dai due precedenti di cui abbiamo discusso quest'anno a Città Bene Comune (3) per impostazione, tesi, linguaggio, background così come assai diversi lo erano essi stessi tra loro - pare anch'esso un buon supporto alla riflessione che stiamo conducendo alla Casa della Cultura di Milano. Una riflessione - forse è bene ricordarlo - tesa non tanto a sostenere o divulgare una particolare tesi politica o culturale in campo urbanistico quanto a favorire, tramite il dibattito pubblico e il confronto tra posizioni culturali differenti, la formazione di una coscienza critica su temi e questioni - quelli relativi al futuro della città e del territorio e delle loro culture progettuali - circa i quali, per una ragione o per l'altra, nessuno - di fronte alle immani questioni che la nostra società si trova a dover affrontare, in primis quella ambientale e quella sociale - sembra avere il bandolo della matassa in mano e ogni contributo, anche quello a prima vista più lontano dalle nostre più radicate convinzioni, può rivelarsi utile alla costruzione di un pensiero libero e consapevole: l'unico che possa farci veri cittadini.
Un'introduzione alle tesi di Carlo Olmo (e qualche elemento di discussione)
1. Una riflessione sulle parole
Una riflessione sulle parole che utilizziamo per identificare le cose è sempre importante perché ci aiuta a comprendere le cose stesse, a non snaturarne il senso vero e profondo. L'obiettivo di Carlo Olmo di lavorare - così leggiamo nel sottotitolo del libro - per una critica delle parole e delle cose e di farlo - precisa - in senso foucaultiano - ovvero alla ricerca di una "verità come sapere costruito storicamente" (p. 19) - è dunque condivisibile anche se oggettivamente assai arduo. La parola - osserva l'autore stesso - "vive del suo essere permeata di credenze, valori, misure che la comunità condivide o rinnega nel tempo e che sono l'oggetto dell'interpretazione e delle sue regole" (p. 144). Non è qualcosa di costante nel tempo, nello spazio e per tutte le società. Questo al punto da poter affermare - come fa Olmo - che le parole "rispecchiano i tempi in cui si nominano le cose, più che le cose stesse" (p. 88) generando slittamenti di senso che mettono a rischio la vera comprensione e la nostra possibilità di comunicare. Un fatto assai più grave specie se le due parole chiave della riflessione - quelle contenute nel titolo del libro di Olmo - sono città e democrazia, due dei pilastri della convivenza civile e della società occidentale. "La città verde, la città intelligente, la città creativa" oppure smart city, sostenibilità, rigenerazione - per fare qualche esempio - sono parole che l'autore per molti versi riconduce al dilagante populismo dei nostri tempi. Parole ed espressioni "che - osserva - sembrano affermare valori condivisi, che poi, però, per tradursi in pratiche e politiche - sostiene -, sono affidati a 'saperi e interessi' che […] generano una città neocorporativa, dove le corporazioni sono sempre più piccole e autonome" (p. 37). Dove cioè la difesa di interessi particolari prevale su quella del bene comune. In altri termini, un linguaggio solo apparentemente condiviso (e non condiviso veramente) rischia, nel lungo periodo, di generare una città esclusiva ed escludente dove il diritto alla cittadinanza è minato alla base. E "il venir meno di un'etica linguistica o di una consolidata forma narrativa" (p. 7) sui temi della città, del territorio, dell'ambiente o del paesaggio non può che riproporre con forza "il linguaggio come problema certo non secondario della democrazia" (p. 5).
Dunque, proprio in un periodo in cui - come afferma Carlo Olmo - "per processi sociali complessi, le parole sono state abbandonate a usi sempre più discosti non solo dall'etimo, ma anche dalla loro storia, finendo con il produrre una parte non marginale del disagio" (p. 94) che viviamo quando affrontiamo i temi della città e del territorio, appare sempre più urgente non solo, come molti intellettuali stanno facendo, una discussione/riflessione nel merito delle questioni urbanistiche che si pongono di fronte a noi, ma "un confronto aperto [e di carattere più generale] sulle parole chiave dei saperi [che le riguardano], anche [quelli] politici" (p. 32). Solo così - questa sembra essere una delle tesi chiave dell'autore che facciamo volentieri nostra - pare possibile ricondurre nell'alveo della credibilità un dibattito sempre più variegato che a tutti i livelli avviene sui contesti urbani e territoriali in cui viviamo specie quando per questi si prevede una qualsiasi trasformazione che suscita l'attenzione dell'opinione pubblica. Questo, evidentemente, ricorrendo a "parole che non abbiano perso la loro necessità, il loro essere investite di un potere di connettere fatti e processi e di sfidare [quella che l'autore definisce] l'odierna povertà di teoria" (p. 20). Una povertà che traspare bene dal dibattito pubblico su temi di cui dovremmo essere tutti più o meno consapevoli - perché riguardano tutti noi. Come l'ambiente in cui viviamo, quello in cui vivranno i nostri figli - spesso ridotto a simulacro del confronto come certa comunicazione giornalistica o alcuni processi cosiddetti 'partecipativi' sono lì a testimoniare. E che emerge ancor più chiaramente nella preoccupante "trasformazione della democrazia da rappresentativa a procedurale [che] - sostiene Olmo - arriva ai paradossi di una garanzia della cittadinanza cercata in una produzione normativa ipertrofica [che] - osserva - finisce per mettere in discussione lo stesso governo della legge a favore di una revisione continua delle norme che dovrebbero garantire la congruità delle pratiche. [È anche qui che - secondo Olmo -] la città si dissolve in una stratificazione di norme e procedure che riescono a farne perdere persino la materialità, i confini" (p. 150). Col risultato che la nostra cittadinanza, il nostro diritto alla città e alla cittadinanza e quello a decidere del nostro futuro, svanisce pian piano.
Un caso esemplare riportato dall'autore riguarda l'espressione "bene comune" e l'idea - da noi e, prima di noi, da molti altri sostenuta - che la città sia appunto, seppur in senso lato, un bene comune. Secondo Carlo Olmo, "la città è forse l'espressione più complessa […] di 'bene comune', un bene che - afferma - non è cioè solo pubblico o tanto meno esercitabile solo in alcuni luoghi deputati. [Ma soprattutto - scrive -] è un bene che esiste (e allora esiste anche la città) se viene riconosciuto come tale in primo luogo da chi esercita (cittadino o amministratore) diritti su di esso" (p. 35). Tuttavia - osserva - "di 'comune' in realtà si è persa persino la radice. Comune è termine latino composto dal prefisso com- e munus. Cum è insieme. Munus è dono. Ripercorrendo il diritto latino, i codici giustinianei, esiste bene comune dove c'è reciprocità, e l'aspetto fondamentale del dono rimane la gratuità e le sue espressioni moderne della volontarietà" (p. 32). In altri termini, "bene comune significa che alcuni beni costituiscono quei legami [volontari e gratuiti] tra cittadini che fanno sì che una città esista" (p. 35), ma se questi beni non sono riconosciuti, se perfino dall'espressione che li identifica evapora il loro significato più profondo, si corre il rischio che questo svanisca anche nella realtà della vita quotidiana.
2. Democrazia e spazio pubblico
Che legame c'è tra democrazia e città? Perché queste due cose, nella società contemporanea apparentemente indipendenti, sono in realtà strettamente connesse? E dove questa connessione si palesa più chiaramente?
"La distanza tra città e democrazia - afferma Carlo Olmo - non sta solo nella storia delle due parole, ma in un comune destino che le riguarda: essere oggi parole […] che soffrono la crisi del sintagma più importante che ha segnato la storia non solo europea almeno dal pieno Ottocento: spazio pubblico" (p. 3) Negare il ruolo civile dello spazio pubblico nei suoi rapporti con la società, negare lo spazio pubblico stesso nella città contemporanea riducendolo ad altro come si è fatto spessissimo nel secondo dopoguerra e come, per molti versi, si fa tutt'oggi "indebolisce in maniera radicale - secondo l'autore - le basi costituzionali del droit à la ville come fondamento di ogni costituzione democratica" (p. 74). Questo, non per un anacronistico romanticismo, ma perché è come negare uno dei caratteri pregnanti della cultura occidentale, del modo con cui da secoli la società europea vive la città, che - sappiamo - ha radici antiche che risalgono fino all'antica Grecia dove l'agorà era, al tempo stesso, "spazio sociale, quello del confronto, del conflitto e della mediazione, spazio della rappresentazione dell'essere cives, ma - ci ricorda Olmo - anche di una sociabilité informale che resterà la quintessenza della democrazia urbana" (p. 63). Di questi tempi, al contrario, "la città contemporanea è sempre meno [quella] degli spazi dove si esercita la democrazia" (p. 3) al punto che - secondo l'autore - "le forme rappresentative della 'maggioranza' e, di conseguenza della stessa legittimità delle minoranze, sono oggi in discussione" (p. 34). Non lo è negli spazi preposti: le aule assembleari, anche quelle dove si riunisce la rappresentanza politica (dal Parlamento al consiglio comunale del piccolo comune) sono spesso deserte o almeno assai poco frequentate dai cittadini. Non lo è nei suoi spazi pubblici che - salvo in quei casi, significativi ma sporadici, in cui deflagra la protesta popolare - sono il più delle volte piegati ad altre funzioni e identità. In tal modo - osserva Olmo - "sono i fondamenti della convivenza tra uomini su cui nacque l'idea della polis a essere messi in discussione quasi in ogni luogo del pianeta" (p. 25).
Solo apparentemente - fa notare l'autore - il dibattito pubblico si è trasferito in un'arena virtuale, prima quella dei mass media poi quella di Internet e dei 'social'. Infatti - osserva - "senza un'agorà fisica e un luogo dove ogni volta modi di conoscere distinti si possano riportare alle condizioni storiche in cui sono espressi o ai modi di definire gerarchie differenti tra parole e cose, ci si consegna a una tecnocrazia figlia solo di memorie (storiche o informatiche) comandate a un impero di parole che dialogano con simulacri di cose" (p. 20). Il mito della democrazia diretta, della partecipazione attraverso la rete, nel suo escludere lo spazio fisico ma anche la fisicità dei corpi "colloca all'esterno delle istituzioni le forme di rappresentanza, atomizzandole. E qui - osserva Olmo - si determina forse la radice più profonda della crisi delle politiche urbane" (p. 35), quella del progetto e del governo della città e del territorio e, più in generale, quella della democrazia. Una crisi che, dunque, ha anche una sua ragione nelle forme di rappresentanza in rapporto ai suoi spazi fisici e non riguarda solo gli strumenti, le competenze pratiche o le tecniche messe in campo. L'arena informatica è - per Olmo - "un universo di relazioni sociali a-spaziali, che confligge sulla costruzione delle differenze che è uno dei fondamenti della democrazia" (p. 74). Questa - afferma - "non solo incrina l'idea stessa di [spazio pubblico per come si è consolidato nei secoli nelle città del vecchio continente], ma ancora più mette in discussione il legame tra esercizio della cittadinanza e forme del suo esprimersi" (p. 74).
3. La piazza, ancora lei
Nella varietà di spazi pubblici che caratterizzano i tessuti urbani della città italiana ed europea, quello della piazza - per Carlo Olmo - ha un ruolo centrale perché è "il luogo per eccellenza dove - scrive - possono esprimersi le regole informali che [già] le società pre-moderne non solo consentono ma favoriscono" (p. 66). Nei secoli che scandiscono la storia del vecchio continente, infatti, "la piazza costituisce [- in generale -] l'eccezione e l'enfasi di un disegno urbano che esprimeva assieme una eguale distribuzione delle opportunità per tutti i cittadini e una forma di controllo sociale attraverso lo spazio" (p. 62). Nel secolo breve, però, le cose si complicano. "La piazza, non ciò che vi accade, - specifica Olmo - diventerà lungo il Novecento nesso spesso inestricabile di forme di resistenza e di formazione e conservazione di memorie collettive" (p. 64) e, allo stesso tempo, il luogo dove più evidenti saranno le distorsioni d'uso che in generale caratterizzano lo spazio pubblico moderno e contemporaneo, mutandone il senso più intimo e alterando profondamente proprio quel legame tra spazio e società che aveva caratterizzato per secoli la vita delle piazze italiane ed europee. Si pensi allo spropositato lievitare dei flussi turistici verso alcune specialissime piazze delle nostre città con il conseguente riadattarsi a questi delle attività commerciali avvenuto negli ultimi decenni. O, fin dagli anni del boom economico, al pervasivo dilagare del traffico veicolare, che è stato di una tale entità da rendere, in molti casi, l'idea stessa di piazza "desemantizzata dalla forma più individuale di un diritto privato: quello alla mobilità individuale e automobilistica" (p. 73).
Eppure, nonostante ciò, la piazza continua a essere "molto più di una scena, fisica o metaforica: [secondo Olmo] può essere una memoria contesa, garantire modi di socialità informali, esprimere un'idea di dominio o al contrario di partecipazione, essere figlia dello stratificarsi di orme giuridiche di proprietà o nascere da una volontà di forma, ospitare gli edifici del potere o di forme molto diverse di Urban democracy, costruire una o più comunità dentro una società, raccontare, meglio di qualsiasi altro spazio urbano, il passaggio mai compiuto da spazio collettivo a spazio pubblico e il suo possibile tornare indietro negli usi" (p. 73). Continua cioè a essere un luogo cruciale della nostra possibilità di consolidare o ristabilire uno stretto legame tra città e democrazia perché ancor oggi molte piazze, in Italia e in Europa, in città piccole e grandi ma anche in quei borghi che hanno avuto la fortuna di non subire il fenomeno dell'abbandono, "declinano e scandiscono un nesso che sembra diretto, quasi scontato: quello [con] la scena della rappresentazione politica, della festa e del conflitto, dell'espressione e della negazione dei diritti" (p. 61).
4. Anche la forma ha la sua importanza
In tutto ciò la forma c'entra qualcosa? Diciamolo meglio: la forma dello spazio pubblico - in particolare quella della piazza - gioca qualche ruolo nella partita tra città e democrazia?
Secondo Olmo sì, anzi - afferma - quando si parla di piazza è proprio "la sua morfologia a divenire centrale, non solo la sua collocazione nella città o la sua accessibilità" (p. 65). Questo perché - spiega l'autore - "la morfologia è un deposito, forse unico, di figure e rappresentazioni collettive e di incerti patti che nel tempo gli usi hanno costruito tra attori sociali: è cioè anche uno straordinario deposito di modelli e situazioni" (p. 20) che in qualche modo andrebbero ripresi, riconsiderati tanto nelle pratiche progettuali quanto nelle politiche urbane così come nella ricerca e nella didattica universitaria. Il portato della forma dei luoghi urbani non andrebbe ignorato come invece è avvenuto spesso nel Novecento e avviene tuttora, per l'importanza che questo aspetto potrebbe avere nella possibilità di ricucire saldamente città e democrazia. "La morfologia - ci spiega Olmo - non è una progettazione solo attenta al contesto, ma una preliminare mise en intrigue che prima ipotizza, poi definisce, infine rappresenta le relazioni tra architetture, tra architetture e spazi (siano essi pubblici o privati), tra architetture e narrazioni" (p. 56). È cioè la ricerca di una forma possibile che riannoda molti dei fili con cui di fatto prende corpo la città. L'esito di un pensiero sofisticato che, al tempo stesso, deve saper parlare il linguaggio dello spazio fisico - ciò che le architetture e i luoghi urbani sanno dirci - e quello dei suoi significati storici, simbolici, civili condivisi. Per l'urbanistica degli ultimi decenni intesa in senso lato, l'aver spostato l'accento del suo operare sulle politiche urbane anziché sul progetto - una pratica abbandonata spesso anche nelle aule universitarie - ha comportato, da questo specifico punto di vista, una caduta verticale tanto che - sostiene Olmo - la morfologia, "quasi per forza, si è ridotta a condivisione di norme e procedure e ha aperto la porta a una costruzione della città per architetture-simbolo, per monumenti da conservare: [ha cioè] aperto anche la strada all'enfasi sull'accadimento e sul soggetto in grado di interpretarlo" (p. 21) più che a un modo di procedere attento al senso recondito dei luoghi nel loro insieme. Come in tutte le cose, è rarissimo che una forma equivalga a un'altra, da qualsiasi punto di vista la si consideri (estetico, funzionale, semantico). Non lo è nell'arte, nell'architettura, nel design. E non lo è neppure negli spazi urbani pubblici dove un sentire sociale tende a coagularsi. Anche per questo - afferma Olmo - "forse la morfologia può costituire un piano dove l'interesse pubblico prende forma, può essere trasparente e attuato e offrire un primo attrezzo non usurato a chi voglia operare riconoscendo - scrive - che per essere efficaci bisogna modellizzare, ma che le strategie (soprattutto quelle urbane) hanno a che fare con l'indiretto e il discreto delle situazioni" (p. 21). Senza contare le ricadute sulla qualità urbana che - sostiene Olmo - "può essere raggiunta o per lenta stratificazione di segni, tracce, azioni e usi o accompagnando il processo che porta i progetti a divenire opere, lungo un iter dove le sole cose non negoziabili sono l'inclusione degli attori e la natura contestuale dell'opera" (p. 60).
È su questo tipo di presupposti che, tra il 2005 e il 2014, ha operato l'Urban Center Metropolitano di Torino. Qui, accanto a un tentativo di riequilibrare il ruolo degli attori coinvolti nella definizione del futuro urbanistico della città e del suo territorio, si è provato - spiega Olmo - a "riaprire la discussione sulla responsabilità pubblica nei confronti della forma urbis e spostare dal piano regolatore (diventato sempre più un complesso apparato giurisdizionale produttore di norme e di continue varianti alle stesse) alla morfologia urbana il focus del lavoro e dell'attenzione pubblica" (p. 152). La forma dei luoghi in questa esperienza è cioè tornata elemento centrale del progetto urbano come, per altro, era sempre stato nella pianificazione che precede il secondo conflitto mondiale. Si è cioè operato affinché si intendesse "la morfologia come riconoscimento di un interesse pubblico non abbandonato a spazi distinti e separati [dalla pianificazione urbanistica], ma come relazione necessaria, discussa, trasparente tra l'insieme di valori (da quelli volumetrici a quelli funzionali) che un'architettura comunque mette in moto" (p. 155). Non è tanto sugli esiti di questa esperienza ormai conclusa che si sofferma Olmo quanto, piuttosto, sul senso e il possibile portato di questa iniziativa. Per l'autore si è trattato di "un'idea anti-monopolistica di ogni sapere e dei suoi portatori, che metteva al centro la costruzione di strumenti riflessivi e rappresentativi, che metteva in discussione forme di negoziazione che non si misurassero pubblicamente con gli esiti morfologici di scelte architettoniche, con tutti i rischi che si sono evidenziati, di quelle scelte" (p. 160). Un'idea che - sostiene - ha costituito, "e forse dovrebbe costituire [anche per il futuro], il nodo insieme teorico e operativo di politiche urbane non solo procedurali" (p. 155).
5. Tutto è patrimonio?
Secondo Carlo Olmo, "lo spazio patrimonializzato rappresenta un autentico coacervo di legami tra spazio e società" (p. 28) ed è dunque un buon campo di indagine del rapporto tra città e democrazia. Quando parla di 'patrimonializzazione', Olmo fa riferimento essenzialmente a due cose: all'idea di patrimonio economico - e a tutto ciò che ne consegue in termini urbani e urbanistici - e all'idea di patrimonio culturale - ovvero al rapporto tra società e memoria, al contesto di senso in cui conservazione, tutela e restauro di ciò che il passato ci ha lasciato si inquadra, qualunque significato si voglia attribuire a questi vaghi quanto complessi concetti. Le due cose in molti casi si intrecciano nel senso che - osserva - la patrimonializzazione "ha rapporti stretti con un mercato che sempre più enfatizza i valori simbolici, radicalizza le differenze tra parti di città sia come economia urbana che come percezione sociale" (p. 16). Cosa evidentissima se pensiamo, per esempio, alla straordinaria coincidenza che in genere esiste tra una qualsiasi mappa dei valori immobiliari di cui periodicamente i giornali danno notizia con quella ipotetica dei valori simbolici, storici, culturali delle nostre città. D'altra parte - prosegue - "veniamo da decenni in cui l'interpretazione - che si potrebbe un po' ironicamente chiamare 'seduttiva' della patrimonializzazione - ci aveva restituito il patrimonio insieme come la forma identitaria e la garanzia della ricchezza dei cittadini" (p. 26). Tutto ciò - secondo l'autore - ha fatto sì che, in definitiva, "quel che modifica [più evidentemente] le forme della cittadinanza nella città di fine millennio [e probabilmente anche quella dei primi lustri del nuovo secolo, sia proprio] la fabrique du patrimoine" (p. 14).
"Oggi il patrimonio viene raccontato come la ricchezza delle famiglie [ma - secondo l'autore - bisognerebbe ammettere che] forse è allora anche una delle ragioni della povertà delle nazioni" (pp. 26-27). Non solo "se è vero - come afferma Olmo - che la merce reifica i rapporti sociali, la ricchezza patrimoniale li congela" (p. 27). Tra i problemi da considerare, quindi, non c'è solo la "quantità di risorse (e il relativo indebitamento) che il trasformare una convenzione sociale in un diritto (la proprietà privata) ha indotto, [ma anche la rottura di quelle] solidarietà che avevano reso la città democratica unica nelle piazze e nelle strade" (p. 26). Secondo Olmo, dunque, "l'intreccio tra valorizzazione dei suoli e degli immobili e politiche urbane mette in gioco un piano ben più sostanziale […]: in gioco c'è la possibile alienazione dei diritti" (p. 39). Quello alla cittadinanza, per esempio, che dovrebbe comportare anche la possibilità di avere voce in capitolo in quelle trasformazioni di parti significative di città, come lo sono le aree dismesse dalla produzione industriale, il cui destino al contrario è in genere monopolizzato o almeno pesantemente condizionato dal potere imprenditoriale e, ancor più, economico-finanziario. Oppure il diritto all'abitare urbano decisamente a rischio a causa di un aumento dei valori immobiliari non proporzionato ai redditi degli abitanti, come emerge chiaramente, per citare un caso eclatante, nei processi di gentrification che interessano alcuni quartieri delle grandi città. La patrimonializzazione economica di un bene primario come lo è quello della casa e il massiccio investimento nel settore immobiliare avvenuto in questi ultimi decenni fa sì che "il rischio [di tale investimento] - e il suo possibile valore etico - [sia] oggi del tutto sconnesso dall'innovazione, dal lavoro, dalla produzione di beni che possano migliorare le condizioni di vita dei cittadini e delle città. Il rischio [immobiliare - afferma Olmo -] è oggi un intreccio, quasi drammatico, di paure e azzardi che genera la de-coïncidence tra mots et choses, ma soprattutto tra città e cittadinanza: una de-coïncidence che non è mai stata così radicale" (p. 28).
Il processo di patrimonializzazione che ha interessato le città italiane nel Novecento e in questi primi anni del nuovo millennio, tuttavia, non ha riguardato - come dicevamo prima - solo il valore economico degli immobili ma anche quello culturale. Questo tipo di patrimonializzazione - sottolinea l'autore - "porta con sé una forma di vita sociale - il consumo culturale - e un attore - la folla - che sono davvero difficili da ricondurre a qualsiasi rapporto tra città e democrazia" (p. 18). Il caso dei centri storici della città più belle d'Italia invasi da inverosimili masse di turisti provenienti da ogni dove che di fatto sottraggono significative (per molti versi) parti di città ai loro cittadini è un problema che non è più solo denunciato dagli intellettuali più attenti ma è ormai sulle pagine dei giornali e all'ordine del giorno delle amministrazioni comunali interessate dal fenomeno. Si tratta di uno spettacolo che - secondo Olmo - è "la messa in scena della trascrizione volgare del diritto a un consumo che si vuole democratico perché all'apparenza aperto a tutti. [Ma - si chiede -] se vince il dehors sulla reminiscenza, di quale heritage si può parlare? (p. 116). È altresì vero, tuttavia, che - come afferma lo stesso Olmo - "un'opinione pubblica sempre più attenta fa oggi delle discordanti vicende dell'eredità materiale e immateriale non solo un nodo centrale delle politiche urbane della città contemporanea, ma una chiave di lettura imprescindibile della democrazia urbana" (p. 99). Ma - osserva - questa sorta di "ossessione del passato" ha dato vita a "una memoria che diviene sempre meno territorializzata, continuamente alla ricerca di valori universali" (p. 100), una forma di 'patrimonializzazione' che "smaterializza gli oggetti, rende apparentemente percorribili e a portata di appropriazione gli spazi, banalizza ma popolarizza le narrazioni" (p. 55).
Un'atra cosa che - ci fa notare l'autore - colpisce di questo fenomeno è "l'allargamento di ciò che è considerato patrimonio" (p. 123) che Olmo non esita a definire 'scioccante'. "Un principio di precauzione patrimoniale [vorrebbe infatti] che nessuna architettura sia di principio da escludere dal poter diventare patrimonio. [Una] posizione - scrive - che è propria oggi di molte culture e burocrazie, […] che ha radici storiche facilmente databili" (p. 125) e che pone una serie di problemi non solo di tipo quantitativo perché riguarda le relazioni della società con la memoria e la cultura, quella delle comunità locali con la loro storia. E - fa notare l'autore - non è privo di malintesi, travisamenti involontari o, forse, strumentali. Il caso dell'archeologia industriale è assunto da Olmo per condurre una riflessione che si sofferma sul rapporto con la modernità, con l'idea di restauro di un moderno che paradossalmente aveva tra i suoi principi fondanti la negazione del passato, con il ruolo del folklore nell'archeologia e nella storia dell'arte come elemento di cementificazione di comunità smarrite nei propri orizzonti culturali, con la ricerca di legittimità di certe categorie professionali "che dalla patrimonializzazione non possono che trarre vantaggi" (p. 128), con il senso di certe operazioni di restauro o l'acritica e tranquillizzante cultura dell'heritage e del suo "realismo mondano e iperrealista" (p. 107). Olmo critica senza mezzi termini "i paradossi di una ciminiera che dovrebbe 'testimoniare' un'intera officina [e ciò che questa ha rappresentato per una comunità] o di una facciata di una fabbrica, magari in perfetto stile eclettico, conservata a testimoniare l'intera organizzazione spaziale dello spazio industriale rigidamente taylorista retrostante" (p. 141). Ironizza anche su quegli interventi che fanno "di spazi del lavoro di massa (operaio o mercantile) improbabili ristoranti, luoghi di esposizioni, centri commerciali: luoghi dove si itera una società del consumo che davvero riduce a contenitori le architetture" (p. 136). Questa forma di attualizzazione di un passato che non c'è più neppure nella memoria sociale "si vuota persino di una coscienza critica e politica" (p. 125) che imporrebbe alla nostra società una profonda riflessione sul significato della testimonianza e, ancora, su quale possa essere il nesso tra architettura/città e democrazia. "La testimonianza - sostiene - [non può che essere intesa] come atto che vincola e impegna moralmente la libertà dell'individuo [e] ce la può restituire forse il continuo lavoro che consente di rielaborare e restituire a comunità sempre meno legate alla città industriale una misura e un palinsesto attraverso cui anche i cittadini che quella storia non hanno vissuto possano riconoscere le differenze e costruirsi un'idea del tempo e non di un eterno presente, elemento essenziale - conclude - di una vita democratica che non può che essere diacronica" (p. 145).
Conclusioni
La riflessione di Carlo Olmo in questo testo è assai più ampia di quanto non si possa anche solo sfiorare qui con un minimo di argomentazione e di corpo a corpo con le sue tesi. Quelli individuati in questa introduzione all'incontro alla Casa della Cultura sono quindi temi e questioni frutto di una scelta personale e perfino tendenziosa (4). Nel rapporto tra città e democrazia, infatti, l'autore considera anche - per fare qualche altro esempio - limiti e confini (concreti e astratti); differenze e diversità "non sono solo di genere, di razza, ma anche di professioni e delle realtà che essi reificano" (p. 43) -; un multiculturalismo che "si confonde sempre più con un relativismo delle culture, con una globalizzazione che - scrive - è in realtà una profonda omologazione culturale" (p. 33); quello dell'identità, considerata abbastanza sorprendentemente un "nemico della città democratica" (p. 17); quello della professione e della "egemonia della tecnica e dei suoi nuovi sacerdoti" (p. 12); così come gli strumenti per ideare e governare le trasformazioni urbane e territoriali, anche nei loro rapporti con la società o il mercato: il piano urbanistico, le pratiche, gli scenari, le narrazioni, le scale del progetto, la partecipazione, le norme e il loro proliferare; il ruolo degli storici e quello della storia, talvolta politico o strumentale; quello della memoria collettiva, del restauro e delle sue contraddizioni o la tendenza della nostra società "a rimuovere l'oblio, la rovina, l'abbandono" (p. 113).
In generale, ciò che emerge potentemente dall'ampia e profonda riflessione di Olmo è lo stretto rapporto tra "una democrazia sostanziale e non formale" e lo spazio urbano che, anche nella contemporaneità dovrebbe saper esprimere "non tanto la rappresentanza quanto la garanzia di una cittadinanza praticata" e attiva (p. 23).
Renzo Riboldazzi
Note 1) Città Bene Comune è un ciclo di incontri - curato da chi scrive e prodotto dalla Casa della Cultura con il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano - sui temi della città, del territorio, del paesaggio e delle relative culture progettuali. L'iniziativa ha l'obiettivo di promuovere una cultura urbanistica diffusa attenta ai valori sociali, culturali e ambientali della città e del territorio, oltre che quello di favorire la formazione di una coscienza critica volta all'interpretazione delle trasformazioni urbane e territoriali in atto. L'edizione 2019 è patrocinata dall'Istituto Nazionale di Urbanistica e dalla Società Italiana degli Urbanisti e si svolge con la collaborazione dell'Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Milano e dell'Ordine degli Ingegneri della Provincia di Milano. 2) Carlo Olmo, professore emerito di Storia dell'Architettura del Politecnico di Torino, è stato preside della Facoltà di Architettura e ha coordinato il dottorato di ricerca in Storia dell'Architettura e dell'Urbanistica. Ha insegnato all'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in numerose università straniere. Ha inoltre curato mostre di architettura a Torino, Venezia, Roma, Parigi, Bruxelles e New York. Tra i suoi libri: Politica e forma (Vallecchi, 1971); Architettura edilizia. Ipotesi di una storia (Torino, 1975), con Roberto Gabetti, Le Corbusier e L'Esprit Nouveau (Einaudi, 1975); con Riccardo Roscelli, Produzione edilizia e gestione del territorio (Stampatori, 1979); La città industriale. Protagonisti e scenari (Einaudi, 1980); Aldo Rossi attraverso i testi (Mazzotta 1986): tr. ing. in "Assemblage", 5, 1988: Turin et des Miroirs feles, in "Annales", 3, 1989; con Roberto Gabetti, Alle radici dell'architettura contemporanea. Il cantiere e la parola (Einaudi, 1989); con Linda Aimone, Le esposizioni universali, 1851-1900. Il progresso in scena (Allemandi, 1990; ed. fr. Belin 1993); con Luigi Mazza (a cura di), Architettura e urbanistica a Torino, 1945-1990 (Allemandi, 1991); (a cura di), Cantieri e disegni. Architetture e piani per Torino, 1945-1990 (Allemandi, 1992); Urbanistica e società civile. Esperienza e conoscenza, 1945-1960 (Bollati Boringhieri, 1992); Gabetti e Isola. Architetture (Allemandi, 1993); (a cura di), La ricostruzione in Europa nel secondo dopoguerra (Cipia, 1993); (a cura di), Il Lingotto: 1915-1939. L'architettura, l'immagine, il lavoro (Allemandi, 1994); (a cura di) con Bernard Lepetit, La città e le sue storie (Einaudi, 1995); (a cura di), con Alessandro De Magistris, Jakov Cernihov: documenti e riproduzioni dall'archivio di Aleksej e Dimitri Cernihov (Allemandi, 1995; ed. fr. Somogy editions d'art, 1995; ed. ted. Arnoldsche, 1995); Le nuvole di Patte. Quattro lezioni di storia urbana (FrancoAngeli, 1995); (a cura di), Mirafiori (Allemandi, 1997); (a cura di) con Lorenzo Capellini e Vera Comoli, Torino (Allemandi, 1999); (a cura di), Dizionario dell'architettura del XX secolo (Allemandi, 2000-2001, 5 vol.; ed. Enciclopedia Treccani, 2002); Costruire la città dell'uomo. Adriano Olivetti e l'urbanistica (Edizioni di Comunità, 2001); (a cura di) con Walter Santagata, Sergio Scamuzzi, Tre modelli per produrre e diffondere cultura a Torino (Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci, 2001); con Michela Comba, Marcella Beraudo di Pralormo, Le metafore e il cantiere. Lingotto 1982-2003 (Allemandi, 2003); (a cura di) con Michela Comba e Manfredo di Robilant, Un grattacielo per la Spina. Torino, 6 progetti su una centralità urbana, catalogo della mostra (Allemandi, 2007); Morfologie urbane (il Mulino, 2007); (a cura di), Giedion, Sigfried, Breviario di architettura (Bollati Boringhieri, 2008); (a cura di) con Arnaldo Bagnasco, Torino 011: biografia di una città. Saggi (Mondadori Electa, 2008); Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori (Donzelli, 2010); (a cura di), con Cristiana Chiorino, Pier Luigi Nervi. Architettura come sfida (Silvana ed., 2010, 2012); Architecture and the 20. Century: Rights, conflicts, values (List Lab, 2013); Architettura e storia. Paradigmi della discontinuità (Donzelli, 2013); con Susanna Caccia Gherardini, Le Corbusier e il fantasma patrimoniale (Il Mulino 2015) e Metamorfosi americane. Destruction throught neglect: Villa Savoye tra mito e patrimonio (Quodlibet, 2016); con Susanna Caccia, La villa Savoye. Icona, rovina e restauro (1948-1968) (Donzelli, 2016); con Patrizia Bonifazio e Luca Lazzarini, Le Case Olivetti a Ivrea (Il Mulino, 2018); con postfazione con Antonio De Rossi, Urbanistica e società civile (Edizioni di Comunità, 2018); Città e democrazia. Per una critica delle parole e delle cose (Donzelli, 2018). Per Città Bene Comune ha scritto: Spazio e utopia nel progetto di architettura (15 febbraio 2019). 3) Si tratta di: Ilaria Agostini, Enzo Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018); Patrizia Gabellini, Le mutazioni dell'urbanistica. Principi, tecniche, competenze (Carocci, 2018). 4) Per un altro punto di vista su questo libro rimando al commento di Cristina Bianchetti pubblicato in questa rubrica: Lo spazio in cui ci si rende visibili e la cerbiatta di Cuarón (5 ottobre 2018).
© RIPRODUZIONE RISERVATA 17 MAGGIO 2019 |