Renzo Riboldazzi  
  casa-della-cultura-milano      
   
 

GABRIELE PASQUI A CITTÀ BENE COMUNE 2019


Le ragioni di un incontro



Renzo Riboldazzi


altri contributi:



  cbc-4-pasqui.jpg




 

Martedì 28 maggio, alle 18.00, Gabriele Pasqui (1) sarà alla Casa della Cultura di Milano per discutere del suo La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018). Discussant di questo ultimo incontro di Città Bene Comune 2019 (2) saranno: Stefano Boeri - architetto, urbanista, professore ordinario di Urbanistica del Politecnico di Milano -; Laura Fregolent - professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica dell'Università IUAV di Venezia, condirettore del periodico "Archivio di Studi Urbani e Regionali" -; Arturo Lanzani - professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica del Politecnico di Milano - e Giancarlo Paba - già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica dell'Università di Firenze, presidente della Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole -.

 

Perché questo libro?

Un titolo asciutto, fatto di tre sostantivi (città, saperi, pratiche) con i relativi articoli (la, i, le). Un'immagine di copertina, l'unica del libro, ricca di pathos ma dall'effetto straniante (perché non sembra rimandare a nessuno di questi) e al tempo stesso struggente (per un tempo passato da poco che evoca senza rimpianti) (3). Centotrentaquattro pagine ben scritte, argomentate e strutturate con coerente determinazione, com'è nello stile dell'autore ovvero senza giri di parole o inutili barocchismi. Tre parti di 'enne' capitoli in cui gli argomenti trattati ricalcano solo parzialmente la sequenza proposta in copertina. "Un testo eccentrico" (p. 12), lo definisce Pasqui stesso. Eccentrico, certo, soprattutto se sulla base del titolo ci aspettassimo una tradizionale narrazione della città (o di una città), dei molteplici saperi che la riguardano (soprattutto quelli urbanistici) o delle multiformi pratiche che ogni giorno la attraversano. Eppure un testo diretto nel suo riferirsi a fatti, situazioni o cose concrete che, in forme diverse, proprio con la città, i saperi e le pratiche hanno a che fare, senza per questo scivolare nel pantano di un ottuso pragmatismo che non sa guardare oltre ciò che fa o di una inconsapevole fattualità. Un testo con cui l'autore, al contrario, prova anche a guardare dall'esterno - ecco, forse è questo un possibile senso di quell'immagine straniante - la realtà in cui è immerso. Con la massima lucidità possibile, ammesso che questa sia davvero possibile, e senza preoccuparsi di restituirci una realtà per certi versi cruda. E poi molti riferimenti, soprattutto filosofici, e due nomi che, più di altri, per ragioni diverse, ricorrono nel testo: quello di Carlo Sini e quello di Cristina Bianchetti. Un terzo, quello di Pier Luigi Crosta, è invece evocato solo nella prima parte del libro ma il suo magistero imbeve il lavoro di Pasqui fino all'ultima pagina. Un leitmotiv, quello delle pratiche, come inesorabile chiave di lettura di tutti i temi e le questioni affrontati. Infine, una parola che insegue un po' ossessivamente il lettore dalla prima alle ultimissime pagine: radicale (anche in altre sfumature). Senza avventurarci in interpretazioni freudiane spicciole, ci chiediamo se non sia proprio questa la chiave lettura più adatta per affrontare l'intelligente riflessione che Gabriele Pasqui conduce nel suo ultimo libro. Se sia questo il segno distintivo dell'interpretazione che egli stesso dà (o intende dare) delle cose di cui scrive. Se sia questa la sua prospettiva e quella che ci indica per affrontare il futuro. Lo si vedrà. Lo si vedrà leggendo il libro, lasciandolo sedimentare un po', riflettendoci su. Ma lo si vedrà anche - ci auguriamo - all'ultimo incontro di Città Bene Comune 2019 dove questo testo ci farà compiere nostro malgrado l'ennesimo scarto nel modo di vedere e intendere la città, il territorio, il paesaggio e le relative culture progettuali. Uno scarto non da poco - forse persino radicale, appunto - se ritorniamo con la mente ai tre libri di cui abbiamo già discusso (4) o se pensiamo ai molti altri di cui settimanalmente cerchiamo di dare, almeno in minima parte, conto nella rubrica online. Uno scarto che, tuttavia, consideriamo utile a suscitare quella riflessione volta alla maturazione di una coscienza critica diffusa che crediamo sempre più necessaria e che, con le nostre misere forze, proviamo a perseguire.

 

 

Un'introduzione alle tesi di Gabriele Pasqui (e qualche elemento di discussione)

1. Sul futuro della città, del territorio e dell’urbanistica

La città - esordisce Pasqui nell'introduzione al suo testo - "è sempre stata il luogo delle differenze, del plurale. Il luogo nel quale i diversi co-abitano, mettendo in comune regole di convivenza e dispositivi di controllo" (p. 3). Oggi, però, siamo di fronte a una nuova condizione caratterizzata da una sorta di divaricazione dell'individuale dal plurale. Una biforcazione che determina una forma di esasperazione della realtà urbana che l'autore chiama 'pluralismo radicale' e che considera "il tema oggi decisivo non soltanto per chi voglia leggere e interpretare la città, ma anche per chi voglia progettarla e governarla" (p. 8). Una condizione che, a suo dire, esige prima di tutto una rinnovata riflessione sul "senso, le forme e le conseguenze del vivere insieme" (p. 4) perché da un lato si configura come un problema politico - in crisi, infatti, sarebbero "la comunità, in tutte le sue varianti [e] i principi universalistici e repubblicani" (p. 6) -; dall'altro come un problema sociale - in quanto comporterebbe la necessità di re-immaginare la convivenza civile facendo i conti con quella "irriducibilità dei conflitti che tale pluralità implica e genera" (p. 7) -.

Per l'autore, la città contemporanea - ammesso che questa figura esista davvero nella sua unicità - "non è una città pacificata [perché] è attraversata da conflitti, dissidi, tensioni." (p. 17). Conflitti che i processi di globalizzazione che hanno interessato tutte le città del mondo non hanno certo attutito impedendoci, nel loro moltiplicare esponenzialmente la complessità della realtà, "di ricondurli entro un orizzonte di senso condiviso" (p. 26). E tensioni che, al contrario - secondo Pasqui - non vanno intese unicamente come i prodromi del conflitto, come qualcosa che ne anticipa l'avverarsi, ma anche come un'energia per certi versi utile "che unisce lungo una faglia di separazione, che definisce le condizioni di possibilità di connessione e di continuità lungo una fessura, un taglio, una rottura" (p. 19). Le tensioni sono cioè anche "la condizione di equilibri dinamici, instabili e parziali" (p. 19) che andranno pazientemente ma ostinatamente ricercati tanto nel progetto quanto nel governo della città e del territorio. Questo perché - secondo l'autore - la città "non è un palcoscenico (o un teatro) di conflitti che hanno il loro fondamento e il loro senso altrove […]. La città - afferma Pasqui - è le forze che l'attraversano, supporto mobile di pratiche plurali che ne riplasmano continuamente la forma e il significato" (p. 18). Per questo - sostiene - "dare forza alla riflessione sulle tensioni urbane, affrancarle dalla questione del conflitto e rimodularle a partire dalla costituzione dello spazio della città contemporanea" (p. 27) è forse la prima decisiva mossa per affrontare il tema del futuro della città, del territorio e delle forme che le culture progettuali che li riguardano potranno assumere.

Ma come? Secondo Pasqui "le categorie e gli strumenti dell'urbanistica [che], lungo il Novecento, hanno cercato di lavorare [sull']intreccio tra diritti e valori, tra Stato e mercato, tra interesse pubblico e interessi privati" (p. 5) sono oggi superati. Lo sono perché sono cambiati i temi e le questioni da affrontare. Perché sono mutate la politica e la società. E quegli strumenti con cui si sono forgiati nel secolo breve gran parte dei tessuti urbani delle città in cui viviamo appaiono all'autore inesorabilmente inadeguati ad affrontare ciò che la contemporaneità mette sul piatto, tra cui - abbiamo detto - soprattutto il 'pluralismo radicale'. Questo, proprio per i conflitti e le tensioni che inevitabilmente porta con sé, a suo dire non è neppure "trattabile facilmente attraverso le modalità proprie della negoziazione, della contrattazione, dello scambio" (p. 5) caratteristiche dell'urbanistica degli ultimi decenni. Infatti, non sarebbe più - sostiene - solo una questione di 'conflitto di interessi' perché, in realtà, sarebbero "in gioco forme di vita differenti, gruppi e individui che non abitano il mondo secondo le stesse coordinate" (p. 5) a cui, tuttavia, è necessario prestare attenzione e dare una qualche plausibile risposta sul piano del progetto e del governo della città e del territorio. Se - come afferma l'autore - la città può essere considerata "insieme metafora ed esperimento dell'essere singolare plurale, quell'essere nel quale la singolarità è indissociabile dall'essere con tanti, dell'essere plurale" (p. 25), nell'affrontare una qualsiasi riflessione sul suo futuro o su quello dell'urbanistica sarà - secondo Pasqui - fondamentale considerare "prima l'essere insieme, la relazione, poi l'individuo" (p. 8). Tra l'essere molti e il singolo, l'autore colloca infatti la relazione tra le due entità e su questa poggia il suo ragionamento che, a questo punto, precipita proprio dove questa si palesa più chiaramente: nello spazio urbano e, in particolare, in quello pubblico. Infatti - afferma - questo andrebbe "pensato in prima istanza come uno spazio di relazione, nel quale si apre la possibilità trascendentale del cum […] come disposizione e comparizione, com-presenza, in-comune senza condivisione" (p. 8). Tuttavia, pensare allo spazio urbano oggi, immaginarne i caratteri e le forme del suo progetto e del suo governo è cosa che evidentemente non può verificarsi "al di fuori di processi più ampi, di natura sociale, culturale e antropologica" (p. 31). E l'impossibilità di riproporre vecchi strumenti urbanistici, vecchie chiavi interpretative, per Pasqui è anche dovuta al fatto che ci troviamo in un contesto di "crisi di legittimazione dello Stato e del sistema politico" (p. 32), crisi della rappresentanza, crisi cioè di quelle istituzioni e di quelle figure a cui la società nel Novecento delegava il compito di affrontare il progetto e il governo del territorio.

La cultura urbanistica moderna che, secondo l'autore, aveva assunto come "compito esplicito" proprio "l'ordinamento e l'organizzazione dello spazio pubblico" (p. 33), a suo dire pensava a questo sostanzialmente da tre punti di vista. Quello del welfare materiale e dunque in termini di quantità dei diversi tipi di spazio messi a disposizione dei cittadini. Quello "della regolazione degli interessi individuali nel mercato dei suoli" (p. 30) o meglio in termini di garanzia di condizioni di equità per tutti i cittadini siano stati essi proprietari o meno di una porzione di quel suolo. E quello "del disegno urbano e del progetto di piano come progetto di suolo" (p. 31) inteso come strumento di configurazione dello spazio. Accanto a questa concezione dello spazio pubblico come esito di un proposito e di un'azione politico-amministrativa, più recentemente si sono fatte strada altre visioni che considerano lo spazio pubblico non necessariamente esito di un'azione politica predeterminata e di tipo istituzionale. Per esempio - ci ricorda Pasqui facendo riferimento a due delle figure chiave che lo hanno accompagnato in questa riflessione - Pier Luigi Crosta ha osservato che "il carattere pubblico viene conferito a un luogo se e quando tutti coloro che si trovano a interagire in una situazione di compresenza, utilizzandolo in modo diverso (e non condiviso [...]) apprendono attraverso l'esperienza concreta della diversità la compresenza in termini di convivenza" (p. 33). Mentre Cristina Bianchetti ha sostenuto che gli 'spazi che contano' sono quelli in cui "è (forse) possibile stare in bilico tra universalismo dei diritti e individualismo dei desideri" (p. 34). Da questo punto di vista - afferma Pasqui - "la prospettiva antica, che colloca lo spazio pubblico al cuore della politica (anzi: che è il fondamento d'origine e la condizione di possibilità della politica stessa), rappresenta dunque una strada che deve essere cautamente sospettata, e forse sospesa)" (p. 35). Partire dal 'pluralismo radicale' impone infatti di considerare la città "come trama dell'accadere singolare plurale della con-vivenza senza comunità, della compresenza senza condivisione, della possibilità senza senso precostituito" (p. 27). E ciò che accade oggi nelle città, il modo con cui si trasformano o cambiano i modi d'uso dello spazio, i profili che quotidianamente assumono l'individuale e il plurale nella realtà, rappresentano per Pasqui un patrimonio culturale diffuso da osservare attentamente e da cui attingere per immaginare forme possibili di progetto e governo. Secondo l'autore è cioè necessario prendere atto che "esiste un insieme di pratiche, di ruotine, di credenze sulla base delle quali noi possiamo agire nel mondo" (p. 5) e che possono rappresentare una base importante su cui costruire il futuro.

"Lo spazio della compresenza [nelle città], lo spazio singolare plurale, - afferma Pasqui - non è uno spazio di qualcuno (sia esso lo Stato o la comunità). È lo spazio nel quale si dà la compresenza come comparizione, come essere-in-comune che precede qualunque condivisione (di interessi, valori, credenze). È - prosegue l'autore - lo spazio nel quale si dà la possibilità dell'alterità radicale e insieme dell'infinita prossimità, indipendentemente dalla condivisione di un valore o di un fondamento" (p. 37). Ciò a cui pensa Pasqui è un disegno dello spazio pubblico "che si fa carico dell'intreccio tra spazio, diritti, doveri, emozioni e forme di rappresentanza" (p. 40) e che consenta "di essere aperti e permeabili all'evento, ossia di accadere in un contesto che è quello della produzione di senso-in-comune (senza che tale senso implichi necessariamente la condivisione, il consenso, l'appartenenza)" (p. 38). Dove "i paradossi del vivere insieme e del fare insieme assumono la maggiore visibilità" (p. 39). Dove "possiamo con-dividere (spazi e attività) senza condividere (senso e identità)" (p. 39). E che per tali ragioni "non può essere pensato come conformazione unitaria e stabile che assume una relazione di carattere deterministico tra luoghi e usi" (p. 9).

In altri termini, ciò che l'autore pare proporci è uno spazio di libertà. Libero negli usi ma anche indefinito nelle forme. Che superi le costrizioni di un "vivere insieme in cui i corpi si muovono, danzano, scartano, coesistono, spesso costretti in spazi angusti, vincolati dai limiti materiali della città" (p. 3). E al tempo stesso uno spazio che riflette impietosamente il "processo di inaridimento del senso e dei caratteri del politico" (p. 32) che la nostra società sta oggettivamente vivendo. Un punto di vista per certi versi intrigante, foriero di multiformi immagini di futuro e, certo, supportato da una lucida analisi delle condizioni del presente, che se da un lato sembra teso a sottrarre l'urbanistica e con essa la configurazione degli spazi urbani da quelle logiche di espressione di un qualsiasi potere o fede politica che ne hanno sempre caratterizzato l'operato, dall'altro - a nostro avviso - pare abbandonarla a un ignoto colmo di incognite. Le incognite di un progetto che pare non avere padri, figure (ideali, politiche, culturali) a cui guardare e a cui tendere liberamente com'è naturale in ogni arena democratica fondata sulla scelta consapevole. Un progetto che, nel suo evitare di proporsi come “uno stato di cose finale [immaginandosi piuttosto come] un continuo lavoro sugli effetti potenziali” (p. 99), di fatto, pare non progettare, ovvero non definire, non prefigurare, ma creare solo le condizioni perché le cose accadano (ma quali cose, tutte le cose eventuali senza discrimine, senza scelta responsabile?). Dunque, se – come l’autore – non nutriamo dubbi circa la necessità di “un progetto che sappia pensare il proprio tempo non nel chiuso di logiche autoreferenziali, ma nemmeno nel campo ristretto dei vincoli professionali e di mercato” (p. 100), l'incognita di una forma che, in omaggio al singolare/plurale tende a essere il meno possibile definita e aperta alle interferenze della vita, sembra abbandonarci in un limbo problematico. Un limbo che - lo poniamo come elemento di discussione - nel suo immaginare corpi che vagano in uno spazio senza vincoli - un po' come quelli di George Clooney e Sandra Bullock nel film Gravity di Alfonso Cuarón del 2013 - ci consegna una libertà che forse non ci rende affatto liberi ma ci costringe a reinvestire energie enormi nel re-immaginare daccapo quelle regole minime della convivenza civile che da secoli, non da oggi, fanno sì che proprio nelle città, almeno nelle città occidentali - anche quelle che in tutto o in parte sono l'esito di un pensiero politico totalitario o almeno fortemente impositivo (l'urbanistica fascista delle città italiane, la 'Vienna rossa', la Berlino di Speer ma anche la Parigi di Haussmann o la Roma di Sisto V) -, pur in presenza di quelle inevitabili tensioni e perfino di quei conflitti di cui l'autore parla e che ciclicamente nella storia di lungo e breve periodo si ripresentano, sia possibile già oggi, quasi indipendentemente e a dispetto di quelle forme, essere uno e plurale. Vivere liberamente nelle città. Accanto. Senza necessariamente condividere il tutto.

 

2. Sul futuro della scienza, della conoscenza e della cultura

La seconda parte del libro affronta gli stessi temi e le stesse questioni della prima ma, almeno nel capitolo introduttivo, attraverso il racconto di “un esercizio autoriflessivo e auto-bio-grafico” (p. 43) “sulle pratiche operative e sui saperi in azione” (p. 45) svolto dall’autore nell’ambito delle attività dell’associazione Mechrí, Laboratorio di filosofia e cultura (p. 43) presieduto da Florinda Cambria e diretto, dal punto di vista scientifico, da Carlo Sini. Obiettivo di questo esercizio è stato, tra gli altri, quello di riconoscere attraverso una riflessione sui linguaggi “alcuni spostamenti, in ragione dei quali – osserva, per esempio, Pasqui – chiamiamo città qualcosa per la quale non abbiamo ancora un nome compiuto” (p. 48). In queste così come nelle pagine successive, l’esortazione dell’autore è sempre quella a “ri-flettere la propria attenzione non [tanto] sul contenuto dei […] saperi – cosa che pure, aggiungiamo noi, andrebbe seriamente fatta –, ma sulla loro pratica in atto, sul loro concreto farsi” (p. 65). Ciò che emerge è un articolato ragionamento sulla città, il territorio e le culture progettuali che li riguardano carico di suggestioni, disvelamenti, implicazioni esplicite o implicite sul fare progettuale, sul nostro modo di intendere e abitare l’urbano svolto “a partire dalla parzialità degli idiomi e delle esperienze di verità, ma – afferma Pasqui – anche abbandonando ogni idiotismo disciplinare, ogni chiusura specialistica” (p. 56).

Questa ricerca di senso del fare attraverso una riflessione sui modi del fare – anche e soprattutto quelli dell’autore stesso – pare un interessante stratagemma per mettere a fuoco, o almeno per provare ad affrontare (nella terza parte del libro) anche altri temi e questioni che attengono, per esempio, al rapporto tra università e pubblica amministrazione; ricerca e produzione di contenuti utili per la società; formazione in tempi di crisi economica, delle istituzioni e, più in generale, in un contesto politico-economico-sociale-culturale estremamente mutevole, senza chiari indirizzi, che ha scardinato molti paradigmi del Novecento. “Per questa ragione – afferma – diventa decisivo comprendere cosa significhi oggi, nelle condizioni attuali di produzione e riproduzione della conoscenza scientifica, riconoscere e vedere all’opera in tale conoscenza il lavoro sociale, nelle sue implicazioni economiche, tecniche e politiche” (p. 91). Temi e questioni, dunque, che pur non escludendole vanno oltre l’indagine sui saperi e sulle pratiche urbanistiche per approdare a una riflessione di più ampia portata che – riteniamo – andrebbe ulteriormente sviluppata e condivisa tanto all’interno degli atenei quanto fuori. Questo, suggerisce l’autore, andando oltre un dibattito “concentrato sugli sprechi e sulle baronie” (p. 119), per coinvolgere la società civile in un processo volto a ripensare la legittimità e l’utilità dell’università e della sua azione sul fronte della ricerca e della formazione. “La scienza […] – scrive Pasqui – non sa più domandarsi né come (come funziona, come opera, come intreccia scritture e linguaggi, come accede alla potenza della tecnica o meglio come la potenza della tecnica, e con essa dell’economia, ne ridefinisce indirizzi e priorità), né perché (per quale ragione essa si spinge in una o nell’altra direzione, in virtù di quale volontà di verità essa opera e sulla base di quali criteri di valore può giudicare del suo stesso operato)” (p. 75).

L’autore, in particolare, sottolinea la “deriva (ma forse – osserva – non è una deriva, è solo un cammino di verità, una specifica ‘vita della verità’)” di un lavoro scientifico che soprattutto “nel mondo della ricerca ‘politecnica’ (ingegneria, ma anche architettura)” (p. 80) è sempre più caratterizzato da divisione, specializzazione, compartimentazione, protocolli al punto da rischiare di mutare definitivamente il senso profondo dell’università e della ricerca nella società contemporanea. I riflessi di tale situazione riguardano il progetto per il quale – afferma giustamente Pasqui – dovremmo “tornare a pensare la materialità dei processi economici, politici e sociali entro i quali si colloca […], in una condizione di radicale povertà della sfera pubblica e di chiusura di una lunga fase di pensiero e pratica” della pianificazione (p. 96). Riguardano la ricerca i cui complicati meccanismi di finanziamento, specie a livello di Unione Europea, provocano – osserva – “effetti paradossali [al punto che molti di questi] transitano verso gruppi che eccellono innanzitutto per la propria capacità di fare rete e lobbying più che per la qualità scientifica assoluta dei proponenti o per l’innovatività” dei progetti proposti (p. 109). Questo determinando – pur in un contesto di “pluralizzazione dei prodotti e delle pratiche di ricerca” (p. 107) – un forte rischio di standardizzazione e l’emarginazione di quei filoni “che non appaiono coerenti con i processi in atto [ma che, secondo l’autore, potrebbero] arricchire il dibattito intellettuale e civile, [contribuendo a] ricostruire connessioni fertili tra la ricerca, la cultura e la società” (p. 113). Potrebbero cioè essere “capaci di contrastare derive verso l’omologazione”, l’appiattimento, la subordinazione della ricerca a indirizzi preconfezionati altrove indipendentemente dal ricercatore stesso (p. 116) agendo in funzione di una ricomposizione del “deciso ‘divorzio’ tra università e cultura” (p. 114). Riguardano la didattica e implicano una profonda riflessione sulle ragioni del “discredito dell’università nell’opinione pubblica [e sulla generale sfiducia] che una laurea possa garantire di per sé una formazione robusta e spendibile per ruoli dirigenti nella società e nelle istituzioni” (p. 130).

L’autore - per concludere - ci esorta così, giustamente, a “pensare il campo delle pratiche di ricerca in architettura [ma – aggiungiamo noi – non solo questa] come un territorio vario e accidentato, nel quale – sottolinea – è indispensabile assumere la pluralità come un valore e non come un inciampo” (p. 117). Ci invita a rimettere al centro dell’attività formativa lo studente con tutto ciò che comporta in termini di rimodulazione della didattica. A mettere in campo, a più livelli, un’ampia riflessione “del senso e del destino dell’università come complesso insieme di pratiche di formazione” (p. 127). “L’università – afferma Pasqui – può resistere ai condizionamenti (del mercato, delle istituzioni, della politica) se e solo se pensa il proprio ruolo a partire da un’interrogazione radicale sulle sue stesse pratiche (formative, scientifiche, tecnologiche, manageriali)” (p. 132), solo se “si misura con i processi economici, sociali, tecnologici, culturali e simbolici che – scrive – delimitano il suo fare, che costituiscono il suo potere invisibile” (p. 133). Senza tutto ciò – conclude – “l’università diventa un posto triste. Magari più efficiente […], magari più corretta e trasparente; ma fondamentalmente insensata” (p. 134).

Renzo Riboldazzi

 

 

Note
1) Gabriele Pasqui, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica, dirige il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano.

Tra le sue pubblicazioni: Territori: progettare lo sviluppo. Teorie, strumenti, esperienze (Carocci, 2005); Progetto, governo, società: ripensare le politiche territoriali (F. Angeli, 2005); con Pier Carlo Palermo, Ripensando sviluppo e governo del territorio. Critiche e proposte (Maggioli, 2008); con Simonetta Armondi e Paola Briata, Qualità dell'abitare e nuovi spazi pubblici. Esperienze di rigenerazione urbana a Cinisello Balsamo (Maggioli, 2008); con un contributo di Marianna Giraudi e Anna Moro, Città, popolazioni, politiche (Jaca Book, 2008); con Alessandro Balducci e Valeria Fedeli (a cura di), In movimento: confini, popolazioni e politiche nel territorio milanese (F. Angeli, 2008); (a cura di), Piani strategici per le città del Mezzogiorno: interpretazioni e prospettive (Recs, 2010); con Arturo Lanzani, L'Italia al futuro: città e paesaggi, economie e società (F. Angeli, 2011); con Matteo Bolocan Goldstein e Silvia Botti (a cura di), Nord Ovest Milano. Uno studio geografico operativo (Electa, 2011); (a cura di), Piani strategici per le città del Mezzogiorno. Interpretazioni e prospettive (Nuova Grafica Fiorentina, 2011); con Alessandro Balducci e Valeria Fedeli, Strategic Planning for Contemporary Urban Regions. City of Cities: a Project for Milan (Ashgate, 2011); Urbanistica oggi. Piccolo lessico critico (Donzelli, 2017); con Paola Briata e Valeria Fedeli (a cura di), Le agende urbane delle città italiane, secondo rapporto sulle città di Urban@it (Il Mulino, 2017); La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018).
Per Città Bene Comune ha scritto: Pensare e fare urbanistica, oggi, 26 febbraio 2016, ora in R. Riboldazzi (a cura di), Città Bene Comune 2016. Per una cultura urbanistica diffusa, Edizioni Casa della Cultura, pp. 102-105.
2) L'iniziativa è prodotta dalla Casa della Cultura di Milano con il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano ed è patrocinata dall'Istituto Nazionale di Urbanistica e dalla Società Italiana degli Urbanisti. Questa edizione svolge con la collaborazione dell'Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Milano e dell'Ordine degli Ingegneri della Provincia di Milano.
3) Si tratta di una fotografia di Laura Cantarella, Terre fragili. Messina, 2009.
4) Ovvero: Ilaria Agostini e Enzo Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018); Patrizia Gabellini, Le mutazioni dell'urbanistica. Principi, tecniche, competenze (Carocci, 2018); Carlo Olmo, Città e democrazia. Per una critica delle parole e delle cose (Donzelli, 2018).

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

24 MAGGIO 2019

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019:

C. Saragosa, Aree interne: da problema a risorsa, commento a. E. Borghi, Piccole Italie (Donzelli, 2017)

R. Pavia, Questo parco s'ha da fare, oggi più che mai, commento a: A. Capuano, F. Toppetti, Roma e l'Appia (Quodlibet, 2017)

M. Talia, Salute e equità sono questioni urbanistiche, commento a: R. D'Onofrio, E. Trusiani (a cura di), Urban Planning for Healthy European Cities (Springer, 2018)

M. d'Alfonso, La fotografia come critica e progetto, commento a: M. A. Crippa e F. Zanzottera, Fotografia per l'architettura del XX secolo in Italia (Silvana Ed., 2017)

A. Villani, È etico solo ciò che viene dal basso?, commento a: R. Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città (Feltrinelli, 2018)

P. Pileri, Contrastare il fascismo con l'urbanistica, commento a: M. Murgia, Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi, 2018)

M. R. Vittadini, Grandi opere: democrazia alle corde, commento a: (a cura di) R. Cuda, Grandi opere contro democrazia (Edizioni Ambiente, 2017)

M. Balbo, "Politiche" o "pratiche" del quotidiano?, commento a E. Manzini, Politiche del quotidiano (Edizioni di Comunità, 2018)

P. Colarossi, Progettiamo e costruiamo il nostro paesaggio, commento a: V. Cappiello, Attraversare il paesaggio (LIST Lab, 2017)

C. Olmo, Spazio e utopia nel progetto di architettura, commento a: A. De Magistris e A. Scotti (a cura di), Utopiae finis? (Accademia University Press, 2018)

F. Indovina, Che si torni a riflettere sulla rendita, commento a: I. Blečić (a cura di), Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo (FrancoAngeli, 2017)

I. Agostini, Spiragli di utopia. Lefebvre e lo spazio rurale, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018)

G. Borrelli, Lefebvre e l'equivoco della partecipazione, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018); La produzione dello spazio (PGreco, 2018)

M. Carta, Nuovi paradigmi per una diversa urbanistica, commento a: G. Pasqui, Urbanistica oggi (Donzelli, 2017)

G. Pasqui, I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza, commento a: L. Gaeta, La civiltà dei confini (Carocci, 2018)

 

 

 

 

 

I post