Montesanto è un quartiere al centro della Napoli antica. Nel suo cuore, in fondo alle discese ripide dei Quartieri Spagnoli, c’é la piazzetta omonima da cui si diramano a raggiera una serie di strade e stradine di cui una, in discesa, punta diritta su Spaccanapoli. Qui c’è il capolinea della Cumana e quello della funicolare che si arrampica fino al Vomero. Sul marciapiede antistante le stazioni una folla di bancarelle di frutta e erbe di ogni colore, pizze, taralli e paste cresciute esibiti nelle teche di vetro all’esterno delle botteghe; motorini, odori e rumori in quantità eccessiva. E la chiesa, piuttosto imponente ma non particolarmente bella, che da qualche anno è diventata il centro della vita del rione, ultrapopolare. A causa di un giovane parroco, molto amato, che è riuscito a cooptare un gran numero di abitanti, giovanissimi, adulti ed anziani di cui ricorda tutti i nomi, affidando a ognuno un compito e una funzione specifici. La chiesa è sempre piena e aperta fino a sera inoltrata. Domenica 14 febbraio, San Valentino, ci sono andata anch’io: ore 12, messa cantata, credo. Inizia -non come una volta, canti gregoriani e simili- con una lunga, allegra e ritmata canzone sudamericana di voci bianche e meno bianche, più diverse chitarre, che prepara l’ingresso solenne del prete officiante e una coda di giovani chierici. Accanto a me un anziano, malato di mente, batte le mani felice: il ritmo é coinvolgente e la partecipazione della gente anche. La chiesa è stracolma. Rimango fino alla predica, per sentire e capire. Il parroco sparge l’incenso sulla Bibbia col turibolo, poi raccomanda di non lasciare borse o altro sulle panche perché quelli che sono in piedi non le credano occupate. Dice che il nostro San Valentino é Gesù, che Gesù é il nostro amore, l’unico. Insiste sull’unicità. Insiste sull’amore, che Gesù ricambia. Dice che per noi é pronto il Paradiso ma che nel frattempo bisogna vivere con i piedi ben radicati a terra e occuparsi dell’oggi e della vita, nel bene. Condanna narcisismo e individualismo, malattie del nostro mondo smarrito. Ne dà un esempio: le coppie che si separano con troppa facilità. Poi invita tutti a passare la domenica insieme in parrocchia, come è consuetudine ormai, una volta al mese, dalla mattina alla sera, pasti compresi.
La predica è semplice, appassionata, comprensibile, non ingenua. Mi raccontano di altre prediche toccanti. Quando ha parlato alle donne dei carcerati, ad esempio. Conosce la sua gente, la sua miseria, le lacerazioni di quel tessuto sociale. Credo che di comunicazione se ne intenda.
L’operazione di evangelizzazione e socializzazione sembra riuscita, almeno per il momento e non senza qualche polemica. Un esempio: delle giovani piante di ulivo sono state sistemate nella piazza in enormi vasconi per simulare un Getsemani. Gli ambulanti non hanno apprezzato l’iniziativa e neppure, così pare, i comitati di quartiere.
Resta comunque ampio il consenso popolare per ragioni comprensibili e analizzabili con relativa facilità. Non le enumero, per ragioni di spazio, ma non posso omettere che un certo ripristino dell’ordine pubblico a Montesanto è un vero miracolo.
Tirare le conclusioni mi imbarazza : dobbiamo forse affidare alla religione il compito di riparare la miseria sociale ?
Penso al Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’Io : la forza della suggestione, l’influenzabilità delle folle e l’identificazione di ognuno con chi le conduce, con il capo, con l’Uno: con il parroco-Gesù.
Secondo Freud la religione è un delirio collettivo e condiviso che crea dipendenza come una droga. Lasciarsi suggestionare è infatti una tentazione potente e quando la religione si sposa all’estremismo può avere esiti gravi e ben diversi dal placebo somministrato nella chiesa di Montesanto. La religione trionferà oppure La religione è inaffondabile diceva Lacan, un laico che pure proveniva da un ambiente cattolico. Sia Freud che Lacan usano toni bassi e discreti anche quando allertano, non intendono convincere nè conquistare le folle. Non parlano all’immaginario e ai fantasmi, non sostengono le credenze, non confortano le illusioni, rinunciano alla suggestione, si appellano al desiderio, alla laicità e alla ragione. Non si appellano alla colpa, non brandiscono il Superio. Propongono un’opzione etica, non morale, nè moralistica. Un’etica laica insomma che non appartiene solo alla psicoanalisi ma è anche un (faticoso) patrimonio della sinistra a cui non possiamo rinunciare. Anche se non può competere in popolarità con la promessa della religione.
UN CAPODANNO
Impagabile Blob, la trasmissione di Rai Tre che va in onda quando in genere siamo a tavola o solo un attimo prima. A quell’ora, protetti dalle mura domestiche, e con le difese abbassate, ci lasciamo toccare più facilmente da ciò che non va nel mondo. Enrico Ghezzi, che Blob l’ha inventato, da qualche decennio ci costringe a guardare ciò che abbiamo già visto in TV e che abbiamo tralasciato, cancellato, dimenticato. Più esattamente: che abbiamo rimosso. L’altra sera, nella successione rapida d’immagini, proposte a più riprese e con la stessa logica di uno spot pubblicitario, è stata inserita la sequenza breve di un bambinetto di tre o quattro anni che corre affannato mentre un mondo di macerie gli crolla addosso. La macchina da presa, o forse solo un cellulare, lo segue verso la sua meta: il portabagagli di una vecchia macchina aperta e stipata di altri bambini, rannicchiati, dove un uomo, il padre probabilmente, lo aiuta a salire in fretta. Scappano dalla guerra. É il loro Capodanno “collaterale”, secondo il titolo della trasmissione: l’augurio per il nuovo anno è la speranza di trovare la salvezza in un portabagagli. Una stretta al cuore e due tratti, indelebili si fissano nel mio ricordo: l’angoscia del bambino e il gesto fermo del padre che la placa. Placare l’angoscia è una funzione centrale della paternità. Nessuno più di un padre può farlo. Quel fotogramma del padre che soccorre il suo piccolo malgrado l’inferno che gli esplode intorno, è, fra le immagini del nostro Capodanno 2016, fatto di misure di sicurezza nelle piazze e finta allegria, il più profondo e toccante.
L’ARAGOSTA E IL DESIDERIO
Da poche settimane è nelle sale The lobster, L’aragosta, del regista greco Lanthimos. All’incrocio tra la fantascienza e il fantastico, l’horror e il grottesco, il film è difficile da sintetizzare, si presta a più livelli di lettura, ha suscitato reazioni controverse. Il titolo risulta incomprensibile senza conoscere la trama, che non manca di genialità, e che sintetizzo : il protagonista, l’attore Colin Farrel, tornato ” solo ” perchè la moglie l’ha lasciato, è obbligato ad andare in un hotel dove, come tutti gli altri ospiti, ha quarantacinque giorni di tempo per trovare una donna con cui fare coppia, altrimenti sarà trasformato in un animale di sua scelta: un’ aragosta, in questo caso, a causa della sua longevità e fertilità e perché vive in mare, un elemento che il protagonista ama. Quando il tempo sta per scadere, dopo un goffo tentativo di accasarsi con la persona sbagliata, egli riesce a fuggire nel bosco dove vivono i ribelli, come lui scappati dall’hotel. Qui, ancora più feroce, vige l’obbligo di restare single e per i trasgressori sono previste punizioni e torture che realizzano i più temuti fantasmi sado-masochisti. Questi due mondi paralleli, in cui vige in un caso l’obbligo della coppia ad ogni costo e nell’altro il divieto assoluto di formarne una, sono governati dalla stessa logica : la repressione brutale dell’attrazione spontanea fra i sessi. Probabilmente il regista ha pensato a una forma di satira sociale messa in scena attraverso un racconto ironico e surreale; ha voluto stigmatizzare una società verso la quale saremmo proiettati, che impone i suoi codici anche all’amore, che funziona solo grazie alla prevedibilità di un modello di coppia oppure, al contrario, obbliga a restare soli. Il film vuole essere una metafora del nostro presente o del nostro futuro prossimo, una satira surreale e tragicomica del rischio che corriamo quando vogliamo abolire il caso, l’imprevedibilità, l’irrazionalità che ci rende umani, il misterioso trasporto che ci fa innamorare senza una ragione, come alla fine avviene nel film.
Il mondo dell’hotel e quello del bosco, invece, sono guidati dalla logica del controllo, della padronanza, della sorveglianza, della prevedibilità. Single o in coppia, l’individualità deve essere comunque repressa e le differenze cancellate, i sessi devono solo formalmente essere due, e la sessualità è ridotta a masturbazione.
In sintesi, è vietato il desiderio sessuale con tutte le sue valenze e la sua potenza scardinante e sovversiva: questo è il filo di lettura che suggerisco anche se, nel film, il regista non ne tiene saldamente il capo e sovrappone livelli diversi che distraggono lo spettatore. Ad esempio, a capo della repressione mette due donne, entrambe rigide e intransigenti nel fare rispettare le regole; donne aguzzine che rendono possibile la barbarie, figure paradossali e grottesche che attingono al fantasma sadico della donna con stivali e frustino.
Se intendiamo il film sostanzialmente come metafora di un mondo robotizzato in cui la vita, vale a dire il desiderio sessuato e sessuale, è mortificata, ne diamo una lettura politica. Una lettura politica significa al tempo stesso una lettura dei meccanismi inconsci che danno forma al mondo. Tra l’inconscio e il politico c’è una corrispondenza che ha fatto dire a Lacan: L’inconscio è il politico. Entrambi sono manipolabili: non si può governare, ad esempio, senza manipolare per ottenere il consenso. Così, anche se nel film funzionano divieti rigidi, solo sollecitando l’acquiescenza, la sottomissione, il masochismo inconscio di ognuno, è possibile la dittatura.
Ecco perché oggi il desiderio può essere abolito senza ricorrere a coercizioni particolari, basta solo indurre sottomissione e dipendenze diverse: dai media, dal gioco, dall’alcool, dai prodotti tossici., dal consumo di oggetti. Queste dipendenze ci rendono consenzienti e sottomessi come gli ospiti dell’hotel e i ribelli nel bosco, immersi in un masochismo silenzioso e acquiescente. Rinuncia al desiderio e masochismo sono sinergici perché, se non si rinuncia, il desiderio spariglia le carte, rompe le regole e produce del nuovo. Così succede al protagonista, mite antieroe che fugge da entrambe le dittature, quella delle confortevoli stanze dell’hotel, e quella dei bivacchi nella foresta. A un prezzo: deve accecarsi. In fondo l’accecamento è il prezzo che paga anche Edipo e Lanthimos è figlio della stessa terra, la Grecia. Solo che in questo caso la chiave di lettura non è tragica, solo grottesca; ma il grottesco non è forse la forma che spesso assume oggi la tragedia ?
ELOGIO DELLA RIMOZIONE
!3/04/2015
Che cosa hanno in comune il suicidio-omicidio del pilota della Lufthansa e la piccola -numericamente e solo per caso perché l’intenzione di Claudio Giardiello era di continuare ad uccidere- strage del 9 Aprile all’interno del tribunale di Milano? A una prima riflessione niente, tant’è che nessun accostamento è stato fatto, a parte nei pensieri segreti di ciascuno di noi che assiste impotente al disordine sociale che ci circonda. Niente, ragionevolmente, perché Andreas era pazzo, un pazzo lucido, certo, ma riconosciuto come ‘depresso’ o ‘malinconico’, in cura con psicofarmaci e con strane idee di grandezza, alla ricerca di un modo eclatante, e non importa a che prezzo, di scrivere il suo nome nella Storia. Nel caso di Mlano, invece, la ‘causa’ è piuttosto banale bancarotta, evasione fiscale ‘maldestra’ come la definisce Gad Lerner nel suo articolo su Repubblica del 10 Aprile, scritto a caldo, come del resto sto facendo io. Fatti del genere, stragi insensate, omicidi impulsivi o piuttosto compulsivi, accadevano, fino a poco tempo fa, in America o nelle malinconiche città del Nord Europa.
Noi abbiamo conosciuto il terrorismo e la mafia, certo, che non sono da meno quanto agli esiti. Oggi temiamo gli attacchi minacciati dall’Isis, ma la furia omicida che viene da uno qualsiasi che rifiuta la legge che regola la convivenza civile, è qualcosa che ci lascia increduli e un po’ più sgomenti del solito. Perché il signor Giardiello non è pazzo, non nel senso che diamo tradizionalmente a questa parola, è solo qualcuno che rientra perfettamente in quella che un mio maestro, Charles Melman, ha definito ‘la nuova economia psichica’, vale a dire un modo di funzionamento che ci riguarda tutti, per fortuna in gradi diversi. In questa nuova economia psichica quello che conta di più è godere, il più possibile e ognuno come gli pare, e pazienza se questo disturba il prossimo. L’importante è accaparrare: denaro, beni, donne, potere. Alla faccia di chi non ci riesce. Se poi non si può più, perché non eliminare chi ci ostacola? Meccanismo facilmente comprensibile e banale se non ci scappassero dei morti, vite piene fino a un attimo prima, in questo caso anche vite spese in modo utile, generoso, per il bene comune: un magistato che delibera in un campo minato, un avvocato che non esegue le indicazioni del suo cliente.
Non possiamo però spiegare ogni avvenimento valutando soltanto le particolarità del caso perché è una modalità d’analisi insufficiente. Episodi di matrice diversa si susseguono lasciandoci sempre più disorientati.
Riprendo allora l’interrogativo iniziale: c’è qualcosa che accomuna la strage della Lufthansa e la vendetta dell’imprenditore fallito? Forse entrambi hanno a che vedere col fatto che il meccanismo centrale che regola il nostro funzionamento psichico, e di conseguenza quello sociale, è andato in panne? Intendo parlare della rimozione, concetto inventato da Freud, meccanismo regolatore della psiche che serve a renderci un po’ meno selvaggi, meno paranoici, meno aggressivi, meno fondalmente violenti di quanto spontaneamente saremmo se la rimozione non funzionasse.
La rimozione è quindi un meccanismo civilizzatore. Non intendo fare l’elogio della rimozione totale, che ci renderebbe disumani, automi, ma della rimozione delle pulsioni più primitive e pericolose. Una rimozione temperata, che ci permetta di vivere e desiderare senza aggredire, rubare, usurpare il posto altrui, ingannare il nostro prossimo, dettata da una legge solidale con un’etica.
Anche le Tavole della Legge, i famosi Dieci Comandamenti, dettano i principi fondametali della rimozione: non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza, non volere la donna altrui etc. Non dicevano però: non desiderare o non godere. Semplicemente stabilivano dei limiti.
La loro validità resta intatta ancora oggi, anche se siamo laici. La nuova economia psichica in cui siamo immersi, tendenzialmente non tiene conto né della rimozione né della legge. In un mondo in cui tutto può sembrare possibile, se la rimozione s’inceppa, niente, invece, è più possibile. Paranoia e diffidenza aumentano, il legame sociale s’indebolisce.
L’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare la pulsione aggressiva e autodistruttrice degli uomini? Se lo chiedeva Freud, amaro e disincantato, nel concludere il suo Disagio nella civiltà (1929), scritto per ordinare le idee dopo la carneficina della prima Guerra Mondiale. Ce lo chiediamo anche noi, con un pizzico di scetticismo sul progresso dell’umanità, ma confidando in una rimozione temperata e condivisa che è, in ultima analisi, alla base di ogni democrazia.