L’Intrusa

intrusa

Quando, per una ragione o per l’altra – film, mostra, teatro, un amico appena arrivato- un pezzo di Napoli sbarca a Milano, osservo curiosa e intenerita il suo impatto sulla gente. Anche se ormai Totò, Eduardo, la nuova cinematografia, la tv hanno reso familiare la cantilena dolce e a tratti aspra e aggressiva del napoletano, quel dialetto fa buco perchè racconta un mondo che resta diverso, malgrado sia immerso nel mondo universale delle merci. Napoli ci sorprende come un paese straniero, se è ben raccontata.

Così è successo per il film di Leonardo Di Costanzo, L’intrusa, presentato di recente dallo stesso regista e dal critico Paolo Mereghetti al cinema Anteo. Un regista schivo e avaro di parole per lasciare, come ha detto, agli spettatori la sorpresa contenuta in quello scampolo di periferia di Napoli che fa da scenario al film.

L’intrusa è la giovane moglie di un camorrista assassino che si rifugia – e il marito con lei ma resta ambiguo se ci sia o meno un patto fra di loro – in una ex masseria diventata un luogo di accoglienza, di gioco e creatività per i bambini del quartiere e gestito con l’obiettivo di creare legami civili, gentili, rispettosi, umani insomma, fra i bambini, tutti i bambini della zona, senza esclusioni. Questo nobile progetto, -che procede come in una corsa a ostacoli, precario come Mister Jones, il surreale montaggio in ferraglia che si muove su ruote di vecchie biciclette, costruito dalla combriccola di operatori e bambini per la festa finale- si interrompe con l’arrivo dell’intrusa e dei suoi due bambini, un neonato e una bimba di circa nove anni dotata del piglio, della sfrontatezza e dei saperi adulti che tanti bambini dei « quartieri » o delle periferie hanno a Napoli ; al tempo stesso però intrisa di ingenuità e di voglia di gioco, come qualsiasi bambina.

La comunità respinge questo piccolo nucleo familiare, arrogante e fragile, che pure in un primo momento era stato accolto, dopo che la polizia fa irruzione per arrestare l’assassino che essa nascondeva, all’insaputa di tutti. Le mamme portano via i loro bambini, la scuola non invia più i propri alunni, la struttura si svuota.

Il finale sarà agro-dolce ma lo taccio per non guastare la visione a chi mi legge.

Tutti i dialoghi sono sottotitolati perché gli attori parlano in napoletano: non il napoletano scandito della tv o quello un po’ italianizzato alla Troisi, per intenderci, ma il dialetto (la lingua?) che usano correntemente nella realtà: affrettato, precipitoso, urgente, ricco di sonorità. E incomprensibile per i più. I sottotitoli in italiano, come nei film in lingua straniera, creano un effetto di distanza e di simpatia al tempo stesso per quel piccolo universo, per i protagonisti, straordinari attori presi dalla strada e plasmati egregiamente dal regista.

La responsabile della struttura, la sola che parli sempre in italiano, è un personaggio integro, mosso da un’istanza civilizzatrice e morale, in contrasto con le contraddizioni, la varietà, l’imprevedibilità di tutti gli altri, sopratutto della giovane intrusa e della sua bambina. Loro sono la Napoli dei quartieri, un’altalena di rabbia e voglia di integrazione, arroganza e dignità, prepotenza e auto-esclusione, sincerità e inganno.

Durante la presentazione è stato detto che il film, neorelista, ricordava la poetica dei fratelli Dardenne. Infatti è stato premiato al festival di Cannes: a giudicare dal numero dei turisti che affollano la città in ogni stagione, i francesi amano Napoli e la sua fantasiosa creatività.

Il film contiene momenti di pura poesia come la scena, girata di notte, in cui la bambina accompagna la madre, cingendole la vita con aria protettiva, a scaldare di nascosto il latte per il suo piccolo piangente e affamato. Un rapporto capovolto tra madre e figlia condito a tratti da una specie di pietas precoce e consapevole.

E’ il racconto di un frammento di Napoli oggi, una poesia senza fronzoli che racconta come stanno le cose: la malavita mescolata alla vita comune, la fame che non rispetta la proprietà privata, la dignità di chi non ha niente da perdere, la menzogna di chi crede di non avere scelta. E la generosità, la cordialità, il gusto del vivere. C’è anche il mondo perbene e razzista, la ( piccola) borghesia che non vuole farsi contaminare dalla parentela mafiosa, foss’anche di un bambino.

Paradossalmente questa presa di distanza dalla delinquenza (della scuola, delle famiglie degli alunni, di qualche operatore) mostra un altro volto di Napoli: non più straniera, nè generosa, nè aperta ma ottusa e paranoica come ogni metropoli. Questo è il punto di torsione che il registra ci mostra: Napoli non può reggere a lungo il cartellone dell’ umanità se il mondo intorno è cosi mutato. Resta però l’estraneità della lingua, viva e vitale, parlata dalla gente, a differenza di altri dialetti. Basterà a preservere l’esistenza di questo angolo di umanità? Nel film, intanto, la sua musicalità fa da sfondo e da colonna sonora.

 

SAN VALENTINO AI QUARTIERI

Montesanto è un quartiere al centro della Napoli antica. Nel suo cuore, in fondo alle discese ripide dei Quartieri Spagnoli, c’é la piazzetta omonima da cui si diramano a raggiera una serie di strade e stradine di cui una, in discesa, punta diritta su Spaccanapoli. Qui c’è il capolinea della Cumana e quello della funicolare che si arrampica fino al Vomero. Sul marciapiede antistante le stazioni una folla di bancarelle di frutta e erbe di ogni colore, pizze, taralli e paste cresciute esibiti nelle teche di vetro all’esterno delle botteghe; motorini, odori e rumori in quantità eccessiva. E la chiesa, piuttosto imponente ma non particolarmente bella, che da qualche anno è diventata il centro della vita del rione, ultrapopolare. A causa di un giovane parroco, molto amato, che è riuscito a cooptare un gran numero di abitanti, giovanissimi, adulti ed anziani di cui ricorda tutti i nomi, affidando a ognuno un compito e una funzione specifici. La chiesa è sempre piena e aperta fino a sera inoltrata. Domenica 14 febbraio, San Valentino, ci sono andata anch’io: ore 12, messa cantata, credo. Inizia -non come una volta, canti gregoriani e simili- con una lunga, allegra e ritmata canzone sudamericana di voci bianche e meno bianche, più diverse chitarre, che prepara l’ingresso solenne del prete officiante e una coda di giovani chierici. Accanto a me un anziano, malato di mente, batte le mani felice: il ritmo é coinvolgente e la partecipazione della gente anche. La chiesa è stracolma. Rimango fino alla predica, per sentire e capire. Il parroco sparge l’incenso sulla Bibbia col turibolo, poi raccomanda di non lasciare borse o altro sulle panche perché quelli che sono in piedi non le credano occupate. Dice che il nostro San Valentino é Gesù, che Gesù é il nostro amore, l’unico. Insiste sull’unicità. Insiste sull’amore, che Gesù ricambia. Dice che per noi é pronto il Paradiso ma che nel frattempo bisogna vivere con i piedi ben radicati a terra e occuparsi dell’oggi e della vita, nel bene. Condanna narcisismo e individualismo, malattie del nostro mondo smarrito. Ne dà un esempio: le coppie che si separano con troppa facilità. Poi invita tutti a passare la domenica insieme in parrocchia, come è consuetudine ormai, una volta al mese, dalla mattina alla sera, pasti compresi.
La predica è semplice, appassionata, comprensibile, non ingenua. Mi raccontano di altre prediche toccanti. Quando ha parlato alle donne dei carcerati, ad esempio. Conosce la sua gente, la sua miseria, le lacerazioni di quel tessuto sociale. Credo che di comunicazione se ne intenda.
L’operazione di evangelizzazione e socializzazione sembra riuscita, almeno per il momento e non senza qualche polemica. Un esempio: delle giovani piante di ulivo sono state sistemate nella piazza in enormi vasconi per simulare un Getsemani. Gli ambulanti non hanno apprezzato l’iniziativa e neppure, così pare, i comitati di quartiere.
Resta comunque ampio il consenso popolare per ragioni comprensibili e analizzabili con relativa facilità. Non le enumero, per ragioni di spazio, ma non posso omettere che un certo ripristino dell’ordine pubblico a Montesanto è un vero miracolo.
Tirare le conclusioni mi imbarazza : dobbiamo forse affidare alla religione il compito di riparare la miseria sociale ?
Penso al Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’Io : la forza della suggestione, l’influenzabilità delle folle e l’identificazione di ognuno con chi le conduce, con il capo, con l’Uno: con il parroco-Gesù.
Secondo Freud la religione è un delirio collettivo e condiviso che crea dipendenza come una droga. Lasciarsi suggestionare è infatti una tentazione potente e quando la religione si sposa all’estremismo può avere esiti gravi e ben diversi dal placebo somministrato nella chiesa di Montesanto. La religione trionferà oppure La religione è inaffondabile diceva Lacan, un laico che pure proveniva da un ambiente cattolico. Sia Freud che Lacan usano toni bassi e discreti anche quando allertano, non intendono convincere nè conquistare le folle. Non parlano all’immaginario e ai fantasmi, non sostengono le credenze, non confortano le illusioni, rinunciano alla suggestione, si appellano al desiderio, alla laicità e alla ragione. Non si appellano alla colpa, non brandiscono il Superio. Propongono un’opzione etica, non morale, nè moralistica. Un’etica laica insomma che non appartiene solo alla psicoanalisi ma è anche un (faticoso) patrimonio della sinistra a cui non possiamo rinunciare. Anche se non può competere in popolarità con la promessa della religione.