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PALERMO: ABITARE L'INCOMPIUTEZZA
Commento all'ultimo numero "Architettura civile"
Leonardo Samonà
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Vedersi restituita l’incompiutezza come possibile tratto distintivo della propria città produce a primo impatto un effetto di paralisi. Compimento significa infatti approdo (e Palermo si è promessa già in epoca greca come Panormos, tutta porto), e quindi anche orientamento, accesso al lontano, familiarizzazione con l’estraneo, insomma possibilità di “abitare su questa terra”. Con questa resistenza iniziale leggiamo con piacevole sorpresa le riflessioni di alcuni architetti nell’ultimo numero del periodico diretto da Angelo Torricelli “Architettura Civile” – Incompiute città di Palermo, curato da Marcella Aprile e Giuseppe Di Benedetto (1) – che ci indicano un cammino possibile di ritrovamento della città abitabile, perfino facendo tesoro dell’immagine dell’incompiutezza.
1. Il punto di partenza è, forse inevitabilmente, il messaggio urtante che proviene dalla città nata dallo sviluppo urbano, particolarmente violento, del secondo dopoguerra: messaggio che comunica un rifiuto “di coesistere e di integrarsi con i modelli incompiuti di città precedenti”(2). In questa forma negativa, viene però anche evocato il processo vitale di integrazione millenaria, attraverso il quale le molte, “incompiute città di Palermo” si sono di volta in volta raccolte in una percepibile, ben individuata compagine unitaria. Il “sacco di Palermo” trasmette, dapprima, la sensazione di una distruzione irreparabile non solo del territorio extraurbano, ma della stessa possibilità di edificare una città, la cui esistenza viene ridotta a mera successione di tentativi falliti di abitare il mondo, di volta in volta cancellati dall’insorgere del nuovo ed estraneo. Nelle “figure retoriche smaliziate” (3) in cui si rifugia oggi la crisi del progetto urbano, Palermo rischia così di rispecchiarsi in un modo tutto suo, come in una prigione destinatale da sempre. Fino al punto che persino la città ritrovata, come oggi ci appare il centro storico – una città di nuovo “accessibile”, nella quale cioè di nuovo riconoscersi – sembra confinata fatalmente entro il progetto antitetico dell’“imbalsamazione” (4). Ma appunto è possibile, anzi esiste nella stessa città un fermento di pensiero progettuale, che persevera ostinatamente nel suo tentativo di rendere ancora una volta abitabile il luogo in cui ci troviamo a vivere, mentre è sottoposto dall’ambiente a una disciplina non comune di vigilanza sulle difficoltà non solo epocali della progettazione architettonica. Andrea Sciascia riassume in modo raffinato ed estremamente suggestivo questo pensiero progettuale nel restauro, che diventa esemplare, di Palazzo Abatellis. Nel progetto di Carlo Scarpa, Sciascia fa vedere il “raccogliersi” di spazi diversi in un percorso unitario, che immette il tempo dell’uomo nel succedersi dei vari ambienti, e fa del manufatto una lunga preparazione all’incontro con l’Annunciata, rendendolo, così, familiare e abitabile a chi lo visita. Ne risulta un paradigma prezioso per la ripresa di un progetto urbano adatto a ricomporre le molte città senza negarle (5).
2. Comprendiamo, leggendo l’articolo, che per “abitare” c’è bisogno del tempo. C’è bisogno di portarsi nelle cose, di “abituarsi” a esse, di “continuare ad avere”, in esse, se stessi. C’è bisogno dunque della connessione degli stati d’essere, del raccogliersi del “prima” con il “poi”. E, nella successione, è il tempo stesso a “fare spazio” a ciò che precede. Nel rovinio del mutamento lascia aperto un percorso a ritroso, al quale Aristotele (6) ha legato in modo folgorante un tratto essenziale della vita: quel “mutamento verso il possesso stabile (hexeis, abiti)”, che consiste nella “salvezza dell’ente in potenza”, ossia nella conservazione del “prima” nel “poi”. La vita, come tendenza al compimento contro il rovinio del mutamento, chiama in causa la memoria. Non è strano, allora, che da chi per vocazione si prende cura dell’abitare, da chi per questo motivo è gettato incessantemente nell’anticipazione del compimento (nella progettazione), venga una lezione profonda sulle risorse progettuali della memoria.
L’architetto, quando progetta, cerca “varchi ancora aperti nella stratificazione, possibilità ancora praticabili”(7) in un passato serbato nella memoria. Percepisce così nel modo più concreto l’intimo contrasto che accompagna la forma umana della vita sulla terra, cioè quello che appunto chiamiamo “abitare”. Palermo sembra però esposta al lato più minaccioso di un tale conflitto, fino a mettere sotto una tensione insostenibile il contrasto hölderliniano, caro a Heidegger, tra due sensi che tuttavia nel poeta tedesco concorrono a definire l’abitare: “pieno di merito e però poeticamente abita l’uomo su questa terra” (8). Palermo lancia una sfida particolarmente dura alla stessa possibilità di una progettazione urbana. Raccoglierla significa coniugare la consapevolezza del carattere distruttivo di una rifondazione ex novo con quella dei limiti di una rappresentazione troppo semplicemente vitalistica di nozioni come “metamorfosi” (Aprile) e “innesto” (Di Benedetto). La recente forma estrema di rottura della continuità, di rigetto della memoria, di distruzione del rapporto con l’ambiente piuttosto che di ritrovamento di sé in esso, sembra richiedere, agli architetti che studiano Palermo, un inaudito sforzo di ripensamento dell’idea di sviluppo e di metamorfosi, e dello stesso concetto di integrazione.
La tesi meditata e perspicua di una “città di città” (9), che attraversa come un filo rosso i lavori confluiti nella rivista, mette a nudo con acutezza il messaggio in se stesso antinomico proveniente dal “sacco” di Palermo: un’occupazione prepotente di territorio, che persegue allo stesso tempo sia una sostituzione dell’identità sociale della polis, attraverso l’intenzionale cancellazione della memoria, sia una riaffermazione violenta di barriere sociali attraverso l’espulsione forzata di fasce sociali più deboli verso periferie sempre più separate; mentre la cancellazione di un tessuto agricolo preesistente attorno alla città non prelude a un più illuminato insediamento multisociale, ma a un rafforzamento dell’esclusione sociale.
Occorre allora tornare con più acribia al concetto delle “molte Palermo”. Marcella Aprile va subito al cuore della dimensione dinamica dell’habitat e dell’abitare. Palermo vs Panormus è una riflessione esemplare sui due assi principali della città, uno – quello più antico, est/ovest, del Cassaro – che dischiude, per dir così, un abitare poetico, nel senso che “dà contezza delle relazioni che intercorrono tra città, sito e luce”, l’altro – quello divenuto dominante, sud/nord – che “manifesta i modi in cui la città si è sviluppata nel tempo” (10) – chiamiamoli i “meriti” storici nei quali ha trovato espressione. Siamo chiamati con una lucida analisi a non rimuovere la storia tormentata di questo sviluppo, ripercorso lungo una via che avanza in modo discontinuo, tra brusche sovrapposizioni non solo di piani regolatori, ma in generale di progetti ed edifici. La direttrice più marcatamente storica si rovescia in espressione di mancanza di accesso, difficoltà di transito da un insediamento all’altro, ostacolo strutturale alla prossimità. La diagnosi sull’incompiutezza si presenta dapprima nella forma di uno spietato disincanto: a Palermo essa è “tendenza al non finito” (11), cioè perversione della stessa idea di progettazione. Ma il tratto antinomico si rivela alla fine non sterile: attraverso l’esempio della Martorana – un “organismo” (io chioserei: più spirituale che animale) fatto di elementi “relativamente autonomi e riconoscibili ma consustanziali” –, viene scorta una peculiare vita dell’intera città, fatta di metamorfosi “in forme completamente diverse” e di contaminazioni che lasciano convivere elementi di diversa provenienza e natura.
È una lezione insieme aspra e promettente, che ritrovo in altri due testi. Attraverso un’interessante analisi delle forme diverse e spesso contrastanti di rappresentazioni cartografiche della città, Gianluca Sortino arriva a conclusioni non troppo diverse: Palermo non ammette disegni accomodanti e consolatori, ma solo equilibri precari. Una convivenza fragile e preziosa di diversità mai prive di attriti è l’alternativa ogni volta di nuovo aperta a una città altrimenti riducibile a somma di “molte, forse, troppe illusioni urbanistiche”, che sono state “sempre sconfitte nell’ambizione di rifondare e cancellare quanto rimaneva del passato” (12). Se qui risuona una saggezza particolarmente dura, almeno se si pensa al “sacco” di Palermo, l’articolo di Giuseppe Ferrarella (Stralci di un’indagine urbana), che presenta l’ipotesi di uno spostamento dell’asse del Cassaro, e così retrodata il “conflitto” tra i due assi nella concezione della città, ci aiuta a storicizzarla anche amaramente, e allo stesso tempo, facendo tesoro dell’esperienza di Palermo, finisce per sollecitare implicitamente una questione oggi ineludibile perché interna alla stessa idea di progettazione.
3. Si tratta di un scontro profondo tra progetto e realizzazione, tra futuro e presente: uno scontro che può diventare mortale, trasformando la condizione umana in un’ossessiva demolizione del futuro a favore di un presente esonerato dalla ricerca di un accesso al mondo e dalla relazione tra l’avere e l’abitare. Non si può non rimanere colpiti dal groviglio di ostacoli che hanno finito per condannare all’incompiutezza un progetto come lo ZEN, trasformando lo slancio progettuale che si sforza di rendere abitabile il mondo in un’indiscutibile sconfitta. In un articolo che è anche una sorta di bilancio estremo, Gregotti ci racconta della patologica scollatura tra l’architetto e un disastroso committente pubblico, una disastrosa amministrazione, una disastrosa classe politica. Dietro di essa affiora però, se capisco bene, una contraddizione mortale tra un tentativo lodevole di superare il concetto di periferia, pensando piuttosto a un “quartiere coordinato” in forma di piccola città ambientata in un sistema più grande, e una consolidata cultura progettuale fatta di insediamenti di case popolari su uno sfondo aprioristico di organizzazione macchinale della vita associata. Ma la scommessa ideologica, per certi aspetti anche nobile, di individuare una forza collettiva monoclasse, non solo per adattarsi a un’emarginazione di fatto, ma per farne, in base a una certa idea conflittuale di unità, la fonte di ispirazione per la costruzione di un ambiente antropico fatto di ripetizione quasi militare di moduli e di blocchi (le “insule”), ordinato compattamente in funzione di un rapporto “dialettico” sia con il paesaggio sia con il resto della città, più che portare a un “superamento” dell’esclusione sociale, sembra risultata funzionale al rafforzamento di un concetto antagonistico del rapporto dell’uomo sia con la natura sia con la storia. L’“integrazione” dello ZEN nella “città delle città” resta allora la scommessa più difficile, ma forse anche decisiva, solo se riesca a ricominciare dall’idea di una città fatta di realtà ambientate in sistemi più grandi e non più soltanto in lotta con essi.
Quest’“ambientazione” esige tuttavia più che mai un ripensamento profondo dell’assetto sociale e della partecipazione democratica al vissuto della città. Agli architetti tocca la perseveranza di una “via lunga” attraverso i mille ostacoli che spezzano il rapporto costitutivo tra progetto e compimento. Non tutti si possono rimuovere. Ma si può ritessere incessantemente un rapporto vitale con la propria città. Una progettazione “dal basso”, come sembra quella di “Manifesta” raccontata nell’intervista di Francesca Belloni a Pestellini Laparelli, sembra operare in questa direzione. Elisabetta Di Stefano (Artificare lo spazio urbano) presenta un altro esempio concreto di coinvolgimento in un percorso di riconoscimento e di familiarizzazione con l’essenza dell’abitare a partire da quartieri degradati. In altro modo, Il progetto “Interludi silenziosi”, raccontato da Salvatore Tedesco, valorizza l’opera di Serpotta, per riscoprire in essa, prima della “costruzione del moderno sistema estetico delle belle arti”, una funzione per così dire progettuale dell’arte, attuata nel caso specifico gettando un ponte tra “retorica” artistica e “sapienza teologica”: un contributo, anch’esso, alla rivitalizzazione, attraverso la memoria storica, della fragile e tuttavia preziosa via palermitana all’abitare; e dunque un sostegno alla sempre inquieta sollecitudine “architettonica” per la salvaguardia del mondo.
Leonardo Samonà
Note 1) Si tratta del n. 23-24, 2019. 2) Ivi, p. 2. 3) A. Torricelli, Quanto vale Palermo?, ivi, p. 1. 4) A. Torricelli, G. Di Benedetto, op. cit., p. 2. 5) Cfr. A. Sciascia, Carlo Scarpa e la Galleria Regionale di Sicilia, ivi, p. 30. 6) Aristotele, De Anima B, 5. 7) A. Torricelli, op. cit., p. 1. 8) Cfr. il commento al componimento di Hölderlin in M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954. 9) A. Torricelli, G. Di Benedetto, op. cit., p. 2. 10) M. Aprile, Palermo vs Panormus, “Architettura civile”, cit., p. 9. 11) Ivi, p. 8. 12) G. Sortino, L’invenzione della verità, ivi, p. 19.
N.d.C. - Leonardo Samonà, già professore ordinario di Filosofia teoretica all'Università di Palermo, presso lo stesso ateneo è stato coordinatore del dottorato in Filosofia (dal 2001 al 2013) e direttore del Dipartimento di Scienze Umanistiche (dal 2015 al 2018).
Tra i suoi libri: Ritrattazioni della metafisica. La ripresa conflittuale di una via ai principi (ETS, 2014); Diferencia y alteridad. Después del estructuralismo: Derrida y Levinas (Akal, 2005); Aporie nell'ermeneutica. Le decostruzioni di Derrida e la filosofia ermeneutica (Ed. della Fondazione "Vito Fazio-Allmayer", 1999); Heidegger. Dialettica e svolta (L'Epos, 1990); Dialettica e metafisica. Prospettiva su Hegel e Aristotele (L'Epos, 1988).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 11 DICEMBRE 2020 |
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