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Gli sguardi sulla Città Eterna di pellegrini e forestieri ne hanno invariabilmente colto una resistenza al cambiamento, radicata e palpabile negli atteggiamenti degli abitanti. È come se Roma, nella sua essenza, emanasse una sorta di temperamento comune – fatto di indolenza, indifferenza, attesa – che finisce per avvolgere anche chi vi si stabilisce. Un qualcosa nell’aria che si trasforma in arte della sopravvivenza nella mutevolezza del cielo e delle vicende umane.
Ripercorrendo il nodo problematico del rapporto tra società, poteri e istituzioni, André Vauchez (2015) si chiede se l’abbandono della città nell’alto Medioevo e la sua involuzione vadano interpretati alla luce di eventi eterodiretti o di un impulso interno: «La trasformazione va spiegata più plausibilmente con processi le cui cause si trovano all'interno della città nelle vicende della cittadinanza, sullo sfondo, certo, dei grandi eventi militari e istituzionali che sconvolsero l'intero mondo romano” (Vauchez, 2015, p. 5). Con un distinguo, un correttivo, che pone le premesse per una possibile contro-narrazione: «Ma ci si deve anche domandare se l'evocazione di una discesa progressiva fino al grado zero della vita urbana sia l'unica o la più appropriata descrizione di come avvenne il passaggio della città antica alla città medievale nella storia di Roma» (Ibid., p. 5).
Dopo la Pace di Vestfalia (1648), nel contesto della formazione e del consolidamento degli stati nazionali, il papato, pur inserito nelle dinamiche di centralizzazione che attraversano tutta Europa, non riesce a tradurre il proprio potere spirituale in una forma stabile e coerente di controllo politico e amministrativo. Questo aspetto è ben evidenziato da Hanns Gross, che descrive lo Stato pontificio come una “Repubblica aristocratica caduta in un dispotismo inetto”, citando la significativa osservazione di Benedetto XIV: «Il Papa comanda, i cardinali non obbediscono e il popolo fa quel che gli piace» (Gross, 1990, p. 45).
Di questo diffuso clima dell’opinione scrive anche Ludovico Quaroni, in Immagine di Roma (1976): «C'è stata sempre forse, a Roma, la tendenza verso una vita che si lasci vivere soltanto, sia essa fatta d’ozio, di negozio o di guerra, non tanto confortata da un ottimismo di origine mistica, quanto invece depressa proprio nei valori di lotta, di fatica e di sacrificio legati ad una fede, da un pessimismo cinico che deriva a questa popolazione dalla capacità, troppa, che ha ed ha sempre avuto, di trarre insegnamento pratico e negativo dall’esperienza della storia. Insegnamento applicato risolto in una limitazione: nell’esser contenti, rassegnati, dell’oggi e delle cose come sono, senza le responsabilità di una speranza» (p. 3).
Calandoci nella contemporaneità, il ritardo accumulato nei percorsi di modernizzazione rispetto a metropoli confrontabili per rango e dimensioni viene imputato, tra l’altro, ai limiti dell’orizzonte amministrativo, tecnico e istituzionale. A fare ombra a Roma sono indubbiamente temi e questioni di cui la città dibatte e in cui si dibatte da tempo che manifestano particolare rilevanza per specificità (valori attivi della natura e della storia, rarità, vulnerabilità) o per fenomenologia (continuità/discontinuità dei sistemi insediativi e delle attività produttive che premono per una riorganizzazione complessiva della macchina urbana in grado di scardinare il modello centripeto legato al forte richiamo di una core area di poco più estesa della città storica).
Il dibattito nelle sedi governative e parlamentari su un modello istituzionale in grado di supportare il ruolo e le funzioni di Roma Capitale, dotandola delle risorse e competenze necessarie, non ha dato esiti: Roma non dispone ad oggi di uno statuto speciale come molte consorelle europee, e la sua subalternità a relazioni di forza dentro e fuori i recinti istituzionali ne ostacola i processi di governance secondo necessità e opportunità tra i molteplici soggetti che affollano le arene decisionali.
In buona sostanza, la questione romana vista dall’interno riguarda direttamente il suo posizionamento e la sua proiezione nei riguardi di orizzonti vicini e lontani, intercettando i territori di vita e di lavoro e traguardando la prospettiva globale con problematiche eterogenee ma pressanti; mentre le percezioni dall’esterno di una “Roma oltre Roma” risulterebbero quasi esclusivamente radicate nell’universo simbolico della memoria: a Roma, si dice, non atterrano finanziamenti esteri.
Roma sembra anche sottrarsi alla sperimentazione di un modo o di modi diversi di fare città, con progettualità che incidano sulle temporalità oltre che sulla dimensione spaziale.
Un importante investimento nella sostenibilità urbana è affidato all’occasione del Giubileo, chiamata a vivificare con i colori dell’attualità l’aura della Città eterna: si sono moltiplicati i cantieri nei luoghi centrali con notevoli disagi, mentre ampi lembi di periferia avviati alla rigenerazione nella stagione di cosiddetti “programmi complessi” sembrano derubricati dall’agenda pubblica.
Su queste assenze e inerzie di lungo periodo si interrogano i saggi di Enrico Nigris (Sulla produzione sociotecnica dello spazio urbano, RomaTre Press, 2023), Luca Montuori (Anello verde. Roma, paesaggio con figure, Libria, 2022), Rosario Pavia (Roma Babilonia. Figure dell’inerzia urbana, Bordeaux, 2024).
La trattazione di Enrico Nigris, docente di economia urbana e professionista riflessivo, si concentra sugli apparati dei diversi livelli di governo insediati nella Capitale e sulle «[…] relazioni tra i sistemi tecnici e l’insieme di quello che generalmente viene definito contesto o ambiente, che mette insieme l’organizzazione sociale, il mercato, le rappresentazioni del mondo fisico e i modelli culturali, e che alimenta specifici processi di produzione dello spazio fisico».
Con riferimento a tre tipologie di politiche pubbliche in un lungo arco temporale, l’Autore ricorre al concetto di “dispositivo”, nella accezione foucaultiana di «insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche: in breve, tanto del detto che del non-detto» (Foucault, p. 299, 2001).
Nel primo capitolo, il dispositivo “Grandi Progetti” prende forma in una sorta di foga demiurgica della Capitale tra la seconda metà degli anni Settanta e la prima metà degli anni Novanta. Il più impegnativo è il progetto del Sistema Direzionale Orientale (SDO), mastodontico programma di localizzazione delle attrezzature direzionali lungo una fascia adiacente all’anello ferroviario tra Pietralata e Trastevere: programma ufficialmente abbandonato dal Comune solo molti anni dopo i primi segnali del suo fallimento. Ma anche il Progetto Fori, i PEEP, la nuova Fiera di Roma, la Terza Pista dell’Aeroporto di Fiumicino, la «bretella» Valmontone-Fiano dell’Autostrada A1, il nuovo Polo Tecnologico sulla Via Tiburtina hanno manifestato un’indefettibile ansia di modernizzazione: animate dalle migliori intenzioni e propagandate con pervicacia oltre ogni ragionevole dubbio, esse hanno continuato ad alimentare suggestioni e retoriche che riaffiorano come altrettante “storie di fantasmi per adulti”. Cosa impedisce, si chiede l’Autore, quella «[…] presa di distanza che sola porterebbe a misurarsi, senza residui pregiudizi, con le esigenze insoddisfatte, a cercare soluzioni allineate ai tempi, a contrastare l’insorgenza degli anacronismi?». Il secondo saggio si incentra su una singolare esperienza di “governo di prossimità”, nella fase di avvio dei Municipi. Durante i suoi primi mandati, il Municipio XI (oggi VIII) ha contemperato visionarietà e pragmatismo introducendo il bilancio partecipativo, i contratti di quartiere, la Casa del Municipio–Urban Center Roma XI, e attivando iniziative di progettazione partecipata per la riqualificazione di spazi degradati, puntando sul rafforzamento del legame sociale. A lungo andare, tale declinazione della prossimità, concepita per rafforzare l’identità comunitaria, si è rivelata ostaggio di alcune reti locali, limitando l’emergere di convergenze più ampie, con un richiamo all’autenticità che sapeva più di retorica di legittimazione che di visione al futuro. Il terzo saggio offre una riflessione sui piani di contrasto dell'emergenza sismica e sui dispositivi per la ricostruzione in Abruzzo dopo il terremoto del 2006. La Capitale è qui convocata in veste di caposaldo di un sistema istituzionale e di una catena decisionale che struttura le politiche di intervento nell'area del “cratere” in cui ricadono L’Aquila e alcune decine di comuni piccoli e piccolissimi. Anche in questa circostanza, oltre lo spazio della razionalità rispetto allo scopo codificato dalle regole d’ingaggio del policy-making, quelli che Nigris chiama “giochi di attori” disegnano labili alleanze e linee di frattura che restano a lungo nascoste o mascherate ai più, infrangendo il patto di solidarietà con la cittadinanza e configurando situazioni di stallo.
Questi flussi di attività prodotti in circostanze così eterogenee avvalorano la congettura che, nel passaggio dell'architettura da pratica artistica a lavoro ripetitivo e astratto, «l’oggetto tecnico si renda indipendente dalle sue motivazioni originarie, si emancipi dagli usi per i quali è stato pensato e, per un tragico ribaltamento dei ruoli, divenga soggetto attivo che piega a sé i comportamenti reali degli attori, le cui volontà solo in apparenza conservano autonomia decisionale, mentre è assoluta la subordinazione a linguaggi – normativi, tecnici, economici – che concrescono su se stessi, si rendono indipendenti dal soggetto, producono effetti. E lo fanno con modalità tali da rendere irrilevante, se non nell’ambito di un discorso pubblico immiserito dalle corporazioni in campo e dalla meschinità degli interessi, ogni verifica di efficacia» (p. 14). Di fronte a tanta autoreferenzialità, tra processi di devoluzione largamente imperfetti e moti dal basso di compagini territoriali alla ricerca di legittimazione come comunità politiche, ogni rivendicazione sul piano dell’organizzazione spaziale e della governance risulta velleitaria.
In ideale continuità con i “Grandi Progetti” si colloca la riflessione che Luca Montuori, docente di progettazione architettonica e assessore all’Urbanistica nella Giunta Raggi, ha consegnato nel volume Anello verde. Roma, paesaggio con figure. Anello verde è una “figura territoriale di scala intermedia” (750 ettari), che si sviluppa ad est della Cintura ferroviaria già individuata come Ambito strategico dal Nuovo Piano regolatore comunale all’interno del perimetro originariamente riservato allo SDO; qui, nelle more della definitiva dismissione del programma, le pratiche di vita hanno appropriato, occupato e abitato ampi lembi di agro romano. Questo esercizio di inversione tra fondo e figura pone il valore strutturante di luoghi e paesaggi come precondizione per programmi di densificazione edilizia in adiacenza alle stazioni della Cintura ferroviaria, utilizzando le volumetrie a compensazione di previsioni urbanistiche in ambiti più periferici o ricadenti in aree ambientalmente sensibili.
Il saggio si dispiega lungo tre assi portanti – la permanenza del tema del paesaggio; il metodo e i limiti nella capacità di leggere, interpretare e narrare i luoghi dell’urbano; il ruolo strategico del progetto di scala intermedia nella nuova dimensione della città.
Anello verde incorpora «un mosaico di programmi urbanistici e un’area di influenza legata alle dirette correlazioni con i vicini contesti e affida allo sguardo progettuale possibili composizioni a partire dalle ibridazioni di strumenti gestionali noti e definiti dalle attuali norme di piano e applicando alcune innovazioni normative di recente approvate che guardano proprio alla rapidità dei tempi delle trasformazioni».
Gli apparati illustrativi che accompagnano il lettore nell’approfondimento del metodo restituiscono lo stato dei luoghi attraverso letture analitico-descrittive – stato di fatto e di diritto – , insieme a forme di conoscenza-contatto derivanti dalla ricognizione delle pratiche formali e informali e delle iniziative della cittadinanza attiva in termini di sussidiarietà, associazionismo e impegno civico: si tratta di un vero e proprio scavo stratigrafico che porta alla luce le differenti ragioni e razionalità sottese alla persistenza nello spazio aperto di segni materiali (tracciati, maglie interpoderali di diversa grana, recinti); segni solo in parte confermati dalle demarcazioni impalpabili dei confini proprietari e dei perimetri delineati dagli strumenti attuativi, per il resto espressione di sconfinamenti e compenetrazioni che attengono a registri di uso che convivono fianco a fianco spesso ignorandosi.
La proposta di Montuori aderisce convintamente ad una archeologia della storia che interpella il binomio permanenza-mutamento sotto il profilo delle morfologie, delle funzioni e dei significati, e si riconnette idealmente alla tradizione del progetto urbanistico fondativo della scuola romana.
Questo esercizio su possibili forme di integrazione città-campagna e di ibridazione tra dinamiche locali e globali è una risposta situata alla sovradeterminazione della Forma Urbis con una forma residuo, o forma memoria di una modernità incompiuta – nel senso etimologico di ammonimento (memento) –, che chiede di essere risignificata responsabilmente come quotidiano urbano di decine di migliaia di abitanti.
La riflessione sul valore strutturante di alcune figure urbane e territoriali – la Cintura ferroviaria, le Mura, la Via Appia Antica, il Grande Raccordo Anulare, e il Tevere – è al centro del volume di Rosario Pavia, Roma Babilonia. Figure dell’inerzia urbana.
Per l’Autore, docente e studioso dei miti urbani che ricorrono nella cultura occidentale, la Roma di oggi incarna l’archetipo di Babilonia nel contrappunto tra estensione urbana e sviluppo in altezza. E come Babilonia, che nella sua torre più alta ha sfidato gli interdetti divini, anche Roma ha dissolto la propria forma cedendo al disordine: «Fino agli anni Sessanta l'orizzontalità di Roma conservava una trama narrativa che la rende ancora leggibile. Esisteva una rete di relazioni tra luoghi, distanze, punti di riferimento, qualità edilizia diverse che consentiva di percepire, a chi attraversava la città, le differenti identità urbane e sociali. Come in un racconto, appunto. Poi tutto cambierà» (p. 15). La narrativa urbana sembra oggi diluirsi in una “Babele orizzontale”, dove le identità si frammentano e la città perde la capacità di raccontarsi come un insieme coeso. È un fatto che la città non abbia saputo tener fede ad alcuni indirizzi di sviluppo secondo direttrici preferenziali né sperimentato in anni recenti ragionevoli densificazioni dei tessuti insediativi in ambiti favoriti dalla presenza delle infrastrutture.
In questa anomia spiccano alcune “figure dell’inerzia”: «I grandi segni della storia, della geografia e delle infrastrutture incidono profondamente sulla forma della città, diventando essi stessi la condizione fondante delle trasformazioni urbane. Nella modernità e nel contemporaneo, all'inerzia della tettonica e della morfologia del suolo, alla resistenza dei grandi complessi edilizi ereditati dal passato si aggiunge l'irruente potenza delle infrastrutture della mobilità. Mentre nel passato erano la geografia del luogo e la permanenza del tessuto urbano preesistente ad influenzare l'organizzazione della città, dalla modernità i rapporti cambiano: sono le infrastrutture a imporsi, fino a cancellare ogni relazione con i caratteri geografici e storici del contesto» (p. 75). Roma manca di lungimiranza e coraggio per agire e sperimentare negli spazi delle infrastrutture con la sensibilità del presente: oltre alle Mura, alla Cintura ferroviaria, al Grande Raccordo Anulare, progressive cerchiature di una città che tracima oltre, anche il Tevere, il Parco Archeologico dei Fori-Appia Antica, l'asse Flaminio-Fori-Eur. Nonostante gli approfondimenti in ambito amministrativo e accademico, l’impegno ideativo si è incagliato nelle secche dell’attuazione. Pavia propone di ribaltare la prospettiva, assumendo l’inerzia urbana come un materiale del divenire, che «può essere radicata, latente, aperta all'integrazione o cedevole al progetto di trasformazione. Il futuro della città dipende in gran parte dalla rielaborazione delle potenzialità incorporate nella sua inerzia».
Sotto questa luce, il mancato trattamento delle Mura Aureliane e del “Tevere intra-moenia”, radicati nello spazio geografico e simbolico di Roma, appare inesplicabile. I “Lungotevere-boulevard” erano stati concepiti come luogo della rappresentazione della borghesia del primo Novecento, per una flânerie all’ombra dei platani pienamente integrata con i primi flussi veicolari. Nel secondo dopoguerra, la critica storiografica ha vissuto una fase di rimozione ideologica della Roma Umbertina, di cui gli stessi muraglioni – il progetto urbano più emblematico di quell’epoca – hanno fatto le spese. Negli anni Ottanta, l’infrastruttura Tevere si è prestata a diverse suggestioni progettuali legate alla mobilità collettiva, tra cui la proposta di alloggiare una tramvia nello spessore degli argini. Successivamente, grazie alla decisiva apertura a forme di arte civica, sono state promosse iniziative leggere e rigorosamente reversibili di riappropriazione delle sponde e dello spazio liquido antistante lungo le banchine: tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini le installazioni She Wolves (2005) di Kristin Jones, e Triumph and Laments di William Kentridge (2016), monumentali figurazioni ispirate all’iconografia classica, sono state realizzate dalla pulizia selettiva dello smog depositato sul travertino degli argini. Da allora l’indifferenza nei riguardi del Tevere ha lasciato spazio a progressive manifestazioni di interesse da parte dell’opinione pubblica; la banchina in riva destra tra Ponte Risorgimento e Porta Portese è oggi percorribile con continuità, e oltre il suggestivo percorso lungo l’argine in pietra il tracciato si prolunga con accentuazioni naturalistiche verso Ponte Milvio e Ponte Marconi.
Anche l’auspicata continuità tra i Fori e l'Appia Antica sembra avviarsi a un lieto fine. L’inserimento della Via Appia Regina Viarum nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO coincide con l’aggiudicazione del concorso di progettazione per l’area dei Fori, promosso da Roma Capitale. Entrambe le iniziative mirano a ricomporre figurativamente e concettualmente le spazialità frammentarie di questi luoghi, restituendole al presente come testimonianza della millenaria storia di Roma. Un passo significativo, che si propone anche come antidoto al proverbiale immobilismo, denunciato con lucidità e disincanto da Giulio Carlo Argan: «Roma è una città interrotta perché si è cessato di immaginarla e si è incominciato a progettarla (male). A Roma, la questione è piuttosto di tempi che di spazi, le maree delle epoche sono passate e si sono ritirate lasciando sulla rena i relitti di lontani naufragi: come tutti i relitti, hanno attorno uno spazio prossimo e sconfinato, il mare e la spiaggia. È una città vissuta di spoglie, poi di rovine, oggi di rifiuti. Anche i romani, da Enea in poi, sono arrivati da remoti disastri: creature del tempo, vivono di tempo e non temono di sprecarlo. Prima che Roma diventasse piatta ed informe come una polenta scodellata, i romani vivevano muovendosi negli strati delle epoche sovrapposte come pesci nell'acqua, in profondità e in superficie» (p. 11).
Ciò che a Roma andrebbe interrotto è proprio il giudizio o pregiudizio di quel qualcosa nell’aria che si frappone agli itinerari di sviluppo e gli alibi che accompagnano lo stigma secolare nei riguardi di una città sempre più complessa e affaticata.
Roma non può più attendere.
Anna Laura Palazzo
Riferimenti bibliografici Argan G.C. (1978). Introduzione, in Aa.Vv. (a cura di). Roma interrotta: dodici interventi sulla Pianta di Roma del Nolli. Roma: Officina Edizioni. Foucault M. (2001), Dits et écrits II, 1976-1988, Paris: Gallimard. Gross H. (1990). Roma nel Settecento. Roma: Laterza. Quaroni L. (1976). Immagine di Roma. Roma: Laterza. Vauchez A. (2015). Roma medievale. Roma: Laterza.
N.d.C. - Anna Laura Palazzo è professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi di Roma Tre. È stata Visiting Professor presso l'Ecole Normale Supérieure de Lyon, la Northeastern University of Boston e la San Diego State University. Si occupa di politiche di rigenerazione urbana in Italia e in Europa, è membro del consiglio direttivo dell'Istituto Nazionale di Urbanistica (sezione Lazio) e fa parte del comitato di redazione di “Urbanistica”.
Tra i suoi libri: (a cura di) Centri storici. Innovazioni del recupero (DEI, 1988); Governo dell'ambiente e memoria dei luoghi (Gangemi, 1993); (a cura di) con Mosè Ricci, Permanenza e progetto. Territorio storico e nuova infrastruttura (Argos, 1995); con Ottavia Aristone, Città storiche. Interventi per il riuso (Il sole-24 ore, 2000); (a cura di) con Giovanni Caudo, Comunicare l'urbanistica (Alinea, 2000); (a cura di) Piano locale e politiche sul territorio. Casi di studio (Dedalo, 2000); (a cura di), Campagne urbane. Paesaggi in trasformazione nell'area romana (Gangemi , 2005); con Biancamaria Rizzo, Paesaggio, storia e partecipazione. La convenzione europea a San Marino (Officina edizioni, 2009); (a cura di), con Lucio Giecillo, Territori dell'urbano. Storie e linguaggi dello spazio comune (Quodlibet, 2009); (a cura di) con Simone Ombuen, Roma fra realtà e prospettive, (Università degli Studi Roma Tre, 2013); (a cura di) con Federica Benelli, Energy planning in mediterranean landscapes. Innovation paths in practices and careers (Quodlibet, 2020); (a cura di) con Stefano Magaudda, Serena Muccitelli, Multilevel green governance. Politiche, programmi, progetti per l'attuazione e gestione delle infrastrutture verdi (Quodlibet, 2022); Orizzonti dell’America urbana. Scenari politiche progetti (Roma TrE-Press, 2022); con Antonio Cappuccitti, Rigenerazione urbana. Sfide e strategie (Carocci, 2024); con Alfredo Mela, Elena Battaglini, La società e lo spazio. Quadri teorici, scenari e casi di studio (Carocci, 2024).
Per Città Bene Comune ha scritto: La forma dei luoghi nell’età dell’incertezza (3 novembre 2017); Sul futuro dell’urbano e della forma città (29 novembre 2024).
Sui libri di Anna Laura Palazzo, v. in questa rubrica: Renzo Riboldazzi, Urbanistica: quali politiche per la casa? (19 maggio 2023); Paolo Colarossi, Le città sono fatte di quartieri e di abitanti (27 ottobre 2023); Bertrando Bonfantini, Politiche abitative e governo urbano (11 ottobre 2024); Claudia de Biase, La rigenerazione è una sfida (13 dicembre 2024).
N.b. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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