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Nel libro Fotografia per l'architettura del XX secolo in Italia. Costruzione della storia, progetto, cantiere (Silvana Editoriale, 2017) Maria Antonietta Crippa e Ferdinando Zanzottera hanno raccolto numerosi saggi e riflessioni dando luogo a un arcipelago di contributi sul tema della fotografia dell'architettura e dei contesti urbani. Questo è il principale pregio del libro e, allo stesso tempo, ne è il limite, peraltro ampiamente dichiarato nell'introduzione. Tuttavia, lo sforzo compiuto dai curatori nella raccolta di molteplici punti di vista sull'uso e la ricerca fotografica in questo campo è notevole, tant'è che il risultato appare come un manifesto polifonico della disciplina fotografica per l'architettura e la città raccontata attraverso gli archivi istituzionali, i protagonisti, le pubblicazioni e le mostre.
Il volume è articolato in quattro sezioni: (i) sguardo internazionale, (ii) architetti italiani e fotografia, (iii) cantieri: costruzione e interventi successivi, (iv) raccolte archivi e istituzioni. Queste sono introdotte da un articolato testo di Maria Antonietta Crippa dal titolo La fotografia nel racconto storico dell'architettura moderna che apre il libro con il proposito di delineare il ruolo che la fotografia di architettura ha ricoperto nella costruzione della storia dell'architettura moderna attraverso lo studio di casi e l'osservazione di fenomeni e pratiche, ma circoscrivendo le esperienze al territorio milanese e lombardo. La chiarezza di questa introduzione impreziosisce il libro poiché permette il libero fluire di domande lecite e polemiche che, in fin dei conti, sono facilmente accantonabili dalla lucida consapevolezza che la storia dell'architettura, assai più della fotografia, ha fino ad oggi affrontato il tema dell'architettura nobile e monumentale tralasciando la ben più significativa massa di edifici e infrastrutture prodotti dall'edilizia corrente negli anni della crescita urbana e della costruzione degli insediamenti periurbani.
Come mostra il libro, il più grande contributo della fotografia per l'architettura del e dal XX secolo è stato quello di constatare come questa sia un fenomeno ben più ampio, multiforme e controverso di quanto tracciato dalla storiografia disciplinare sullo stesso periodo. Nel darsi come obiettivo quello di intraprendere una ricognizione sugli effetti storici della fotografia di architettura - in questo a mio parere risiede la profonda efficacia di quest'arte e della sua disciplina - è stato necessario ampliare il campo d'azione. I curatori del libro e gli organizzatori dell'interessantissimo convegno da cui ha avuto origine questa pubblicazione hanno perciò esteso lo spettro di applicazione del termine 'architettura' compiendo un passo che gli studiosi e gli esegeti attendono da tempo. Non che prima non vi fosse interesse o attenzione per questo tipo di testimonianze. Se ne ignorava però la bellezza rimarcando con fermezza la sola utilità di tali opere, studiandole nonostante la loro ordinarietà e la natura transitoria dell'edilizia 'povera'. Da quando, invece, nel corso del Novecento il paesaggio urbano nel suo insieme, anche grazie al ruolo svolto dalla fotografia, ha conquistato il diritto di essere conservato e tramandato ai posteri, la forte differenziazione tra la nobiltà dell'architettura con la A maiuscola e il folklore perituro dell'edilizia comune sta smarrendo la sua ragion d'essere. Se in un primo momento, infatti, il concetto di 'nazional popolare' gramsciano come categoria di interpretazione del patrimonio artistico minore aveva favorito l'interesse degli architetti così come della società per i luoghi e le architetture marginali determinando un cambiamento positivo nell'interpretazione dei luoghi, successivamente l'asprezza del dibattito proprio su questo termine - generato tra gli altri da Asor Rosa con il suo Scrittori e popolo (Einaudi, 1965) - ha delegittimato lo sguardo progettuale della società civile sulla produzione secondaria della crescita periurbana ed extraurbana, per certi versi assecondando la speculazione edilizia e l'erosione delle risorse paesaggistiche. La fotografia si è trovata così a essere l'unico strumento di documentazione e testimonianza sul mondo edile e sui cambiamenti urbanistici in un contesto in cui l'architettura veniva lentamente e mirabilmente spezzettata e contesa tra discipline e professioni diverse che spesso non sapevano dialogare. Tutto ciò, passando in meno di un quarto di secolo dalla visione olistica di Ernesto Natan Rogers, espressa nello slogan "Dal cucchiaio alla città" nel 1952, alla realtà defatigante dei professionisti e colleghi architetti saccheggiati dai labirinti kafkiani dei regolamenti delle amministrazioni urbane.
La forza di questo libro risiede nel mostrare che con la fotografia è progressivamente emersa la volontà di una rinascita del dialogo interpretativo su questa architettura considerata marginale che trova negli archivi storici fotografici un suo deposito di bellezza e alterità, un'origine legittima per il progetto di un futuro urbano più consapevole e ragionato. Il libro, dunque, è importante proprio perché fornisce, nei diversi saggi che raccoglie, chiavi di lettura puntuali, su argomenti che appaiono distanti tra loro, in virtù della divaricazione che è andata aumentando tra i vari campi del sapere. La fotografia, che per l'appunto lavora sul concetto di alterità, dislocamento e giustapposizione, rende invece possibile sintetizzare e ridurre distanze fisiche e teoriche, aiutando così a riflettere su tematiche del costruito che appartengono a dottrine oggi lontane, consentendo di definire nuovi margini disciplinari e di resuscitare un equilibrio tra architettura e città, alla cui base sia collocato un pensiero progettuale interdisciplinare volto al futuro.
Lo sguardo internazionale
Nel breve saggio di Maria Imaculada Aguilar Civeira, La mirada del Ingeneiro, si capisce come l'uso della fotografia che ha registrato gli aspetti ingegneristici e tecnici abbia consolidato il ruolo dell'ingegneria civile per le infrastrutture e i complessi industriali, conferendo loro il fascino della grandezza e dell'imponenza, equiparabile a quello suscitato dai maestosi monumenti storici di epoca gotica o rinascimentale. La narrazione fotografica ha reso possibile la divulgazione delle imprese della grande ingegneria, capace di promuovere l'industrializzazione dei territori con la gestione delle ricchezze e del lavoro delle persone nell'economicità dei processi di sviluppo. È forse stato il riconoscimento generale fondato sull'iconografia fotografica che ha decretato l'avviarsi di quel sistema tecnocratico definito da Stefano Rodotà e in cui siamo ancora immersi? Domanda auspicabile oggi, almeno per ricondurre la cultura architettonica a interrogarsi su mondi della costruzione e questioni sociali che, sebbene le siano appartenuti per moltissimi anni, appaiono ora ricadere sotto un dominio specialistico che le è alieno se non ostile.
È purtroppo precluso ai più leggere il testo Advantgarde in Build und Bau della collega Franziska Bollerey pubblicato in lingua tedesca. Dopo ore passate con una persona gentile che me ne ha tradotto alcuni brani, coltivo la convinzione che questo lavoro mostri la straordinaria opera di catechizzazione iconografica degli esponenti del moderno, i quali hanno avuto la lucidità di comprendere il potenziale politico e creativo della macchina fotografica. Attraverso sperimentazioni e giochi fotografici gli architetti ne hanno codificato quella grammatica che troveremo approfondita nel secondo capitolo, il più canonico, dedicato agli Architetti italiani e fotografia. La Bollerey pare esprimere una critica implicita al mondo della pubblicistica di architettura. Quest'ultima, secondo l'autrice, ha finito per replicare una maniera della modernità senza più né interrogarsi su cosa contenga il mondo visivo odierno, né capire come reinventare un lessico iconografico dell'urbano, una volta che quello moderno risulta del tutto stravolto dall'ingigantimento delle proporzioni di città e architettura, non solo nel mondo occidentalizzato, ma soprattutto in quell'estensione di mondo ex-secondo, ex-coloniale, ex-in-via-di-sviluppo, che non si è più in grado di nominare e che oggi risulta più famelico o meglio più bisognoso di progresso e redistribuzione.
Angelo Maggi in Re-interpreting Italy Buildings, espone il punto di vista di George Everard Kidder Smith sull'architettura in Italia alla luce del suo Grand Tour negli anni Cinquanta accompagnato da Ernesto Natan Rogers. Il libro che Smith dà alle stampe è complesso e interfaccia fotografie e disegni attraverso una grafica libera e spensierata, dove il fotomontaggio spesso esprime una posizione critica più forte delle parole e dove il sentimento nostalgico del passato è contrastato dalla forza della volontà di innovazione espressa dagli architetti italiani del dopoguerra. Il libro di Smith mostra una ponderata leggerezza nella riscoperta degli archetipi dell'architettura della penisola, nell'osservazione delle vestigia della storia archeologica e nell'ascolto delle promesse che i sopravvissuti architetti dichiaravano al futuro delle loro città e della liberata nazione italiana. Promesse che gli architetti oggi ormai solo sussurrano soffocati dalla mole di burocrazia che sta soppiantando il dialogo interpretativo e critico sul contesto storico, eliminando le ragioni sociali degli standard igienici che controllano l'abitabilità, limitando nei fatti una vantaggiosa distribuzione di servizi, verde e infrastrutture utili alle comunità urbane. Nel testo emerge invece tutto il fermento critico per la definizione di una normativa sociale più attenta alle qualità ambientali e paesaggistiche che esercita un risveglio critico.
La costruzione del Monte Verità di Ascona di Micaela Mander è un articolo breve ma intenso dove si evidenzia come un tempo i cambiamenti avvenissero all'interno di comunità fisiche che si davano regole e nuovi obiettivi e che si costruivano un immaginario fotografico di riferimento. La fotografia, infatti, ha il vantaggio di mostrate quello che c'è nella sua nudità, ovvero con la fragilità impalpabile della sua effimera natura tecnica. Tutto è manipolabile nella fotografia, lo si sa, ma quando l'evidenza della sua aderenza alla realtà è innegabile, essa sprigiona una forza tale da mostrare un cammino percorribile. La comunità di Ascona costituisce, ad oggi, uno dei pilastri su cui si è fondata tanta parte della storia dell'arte e sociale - ad esempio vi sono state sperimentate le prime forme di 'vegetarianesimo' -, qui l'organizzazione dello spazio e l'architettura moderna costituirono una matrice evidente.
In 1933. Sigfrid Giedion tra mito del Mediterraneo e modernità, Martina Kousidi tralascia di esplicitare che siamo tutti affascinati dai viaggi nel Mediterraneo di Le Corbusier da avere perso quasi la curiosità di sapere come lo interpretarono coloro che lo seguivano o che lo incontravano come appunto i partecipanti al CIAM del '33, avendo stabilito come preciso luogo di incontro critico Atene. Giedion raccogliendo un corpus di fotografie - che non si capisce dove siano conservate - descrive l'architettura greca delle isole con i volumi bianchi fusi tra loro come fosse l'espressione di un paesaggio mentale, più che il ritratto di quello greco reale. L'esito dell'incontro tra i maestri del moderno ad Atene fu l'importantissima Carta di Atene del '33, che mostra un nuovo indirizzo dei moderni rispetto al patrimonio e all'architettura spontanea, in cui si affaccia una nuova sensibilità per l'architettura storica, i monumenti e i gli insediamenti urbani minori, delineando nuove strategie di intervento architettonico mirate al rinnovamento urbano in contesti consolidati. Mi domando e domando se forse sia un analogo sentimento di scoperta autentica di fronte a forme insediative originali, quello che pervade alcuni colleghi architetti da cui si sente affermare che gli slums, come quello indiano di Dharavi, funzionano più delle città moderne, poiché vi si trova una spontaneità costruttiva e abitativa che corrisponde a verità. Ciò che vi è in questi insediamenti, non bisogna scordarselo, è sfruttamento: condizioni igieniche sotto la soglia minima, schiavitù delle donne e dei minori, ignoranza e analfabetismo. Vorrei invitare quindi tutti, e soprattutto coloro che vivono questo sentimento di fascinazione, a impegnarsi progettualmente come già fecero i CIAM, per trovare soluzioni architettoniche e urbane convincenti al disagio urbano, all'ingiustizia sociale e allo sfruttamento della povertà. La storia della fotografia ci ricorda che, come architetti, abbiamo l'arma del progetto per combattere con coraggio sia i fenomeni che per i numeri e le condizioni globali stanno creando sopraffazione nostalgica, amnesia e rimozione dei problemi, sia il pensiero mainstream che come contrappunto alla povertà magnifica la vita elegante e indolente nel miraggio di vivere in spettacolari edifici tecnologici e del lusso.
In La Buenos Aires di inizio Novecento nelle vedute di Eugenio Avanzi, Silvana Basile presenta alcune vedute di Buenos Aires, soprattutto scorci della città, del porto o architetture rappresentative. Eugenio Avanzi è uno dei tantissimi immigrati italiani in Argentina approdati lì in seguito alla proclamazione della Repubblica Federale nel 1853 e poi alla legge sulla colonizzazione del 1876, che prometteva un lembo di terra a chi lo avesse coltivato. Questa ondata migratoria, che portò, tra gli altri, un considerevole numero di italiani oltreoceano, fu la fortuna dell'Argentina poiché rimpolpò la società di persone specializzate, tra cui alcuni fotografi che, come l'Avanzi appunto, resero possibile documentare i cambiamenti della capitale avvenuti proprio grazie al lavoro di molti immigrati. Ciò però costituisce anche la fortuna dell'Italia che si trova a poter considerare frutto di appartenenza culturale parte delle opere della storia moderna dell'Argentina, come risultato della disseminazione di valori, norme e abilità, tanto del pensiero quanto della mano delle persone che dall'Italia là andarono ad abitare. Questo testo, che chiude la prima parte, ci aiuta a comprendere che nel libro si apre un mondo di immagini in cui si congiunge l'Europa e i territori del Mediterraneo con quelli d'oltreoceano attraverso un sentimento dell'architettura che va ben al di là delle frontiere fisiche o dei confini geografici: ci si trova cioè uniti gli uni agli altri attraverso il rappresentare quanto si andava costruendo, per registrarlo, conservarlo e renderlo pensiero critico se non espressamente progettuale. Si è generata così l'idea, desiderata e praticata, di un esteso mondo.
Gli architetti italiani e fotografia
Nella seconda parte del libro si presenta un più consueto approccio al tema della fotografia di architettura che va ricapitolando tutte quelle esperienze che in Italia hanno definito una iconografia moderna con originalità interpretativa. La sezione si apre con il testo di Fulvio Irace su Gabriele Basilico, due autori del nostro tempo. In questa testimonianza di vita personale si legano i destini del critico e del fotografo in una parabola intensissima su esegesi e interpretazione dell'opera architettonica applicata ai novecentisti milanesi. Irace rilegge il lavoro svolto con Basilico come un lavoro a due mani e a due sensibilità, quella dello storico che è chiamato ad aggiornare il valore di architetture dimenticate e quella del fotografo che raccoglie la forza e la poesia dell'architettura nei brani urbani adespoti della città. La storia e l'immagine nelle parole dello storico dell'architettura si trovano alleate nel riscatto della nostra storia urbana. Secondo Irace - e non possiamo che concordare - ciò è possibile quando la fotografia cessa di essere documentale per farsi strumento intellettuale di lettura critica della realtà, con questo recuperando la formula benjaminiana che considera l'arte come fotografia del suo tempo e valuta la fotografia lo strumento per eccellenza di aiuto all'uomo nel tentativo di interpretare la complessità dei fenomeni culturali. Si tratta di un punto di vista tutt'oggi radicale e argomentato in un modo estremamente limpido da Irace, così che tutto quanto si trova successivamente in questa sezione risulta illuminato da un analogo sentimento pulsante.
Sia il delicato testo di Ornella Selvafolta - Un architetto moderno e la fotografia: Luigi Figini come caso studio - sia lo scritto di Ferdinando Zanzottera - La fotografia in Virgilio Vercelloni committente e progettista di racconti visivi - hanno come premessa comune la volontà di ricordare la poetica degli architetti e la loro sensibilità visiva riferibile all'articolato intrico di riferimenti alla cultura visiva del tempo. Interessante e apprezzabile il contributo di Gigi Spinelli sul contesto dell'editoria rappresentato dalla "Domus" di Gio Ponti che ben riporta il fermento culturale e d'avanguardia in cui si inseriscono i materiali conservati oggi negli archivi e la varietà delle ricerche dell'epoca sulle reciproche influenze tra architettura e fotografia.
A seguire, ben collocati, si inanellano una serie di casi storiografici: Roberto Pane e la fotografia scritto da Fabio Mangone; Le fotografie di Gian Luigi Banfi presentate da Federico Alberto Brunetti; il caso di Renzo Zavarello esposto da Davide Allegri; Il padiglione della festa dell'Unità progettato da Fredi Drugman, un brano di memoria storica visiva conservata al CASVA, presentato da Marzia Loddo; La fotografia in padre Costantino Ruggeri in un'indagine di Luigi Leoni e Chiara Rovati; Vittorio Gregotti e Gino Pollini nello studio dei loro dipartimenti di Scienze per l'università di Palermo scritto da Matteo Iannello; Luigi Caccia Dominioni e Giorgio Casali presentati da Veronica Ferrari; Giuseppe Pagano con Edoardo Pane e Edoardo Gellner in un confronto di Angela Gagliardi; Rodrigo Pais e la documentazione di Roma scritto da Glenda Furini e Guido Gambetta. Questo patrimonio di varie e diverse esperienze tra architettura e fotografia, distillate in fotografie seriali, è fortunatamente custodito in numerosi archivi istituzionali, familiari e universitari a testimoniare un periodo ancora genuino, quando la macchina fotografica, diventata più versatile e agile in seguito all'avvento della pellicola fotosensibile, divenne strumento accessibile e facile prestandosi a un uso diffuso. Un periodo fertile in cui il dialogo diretto o mediato dalla pubblicistica, presentato dagli architetti stessi in mostre, libri, testi programmatici rendeva fluido e vivo il processo critico grazie agli apparati visivi alle volte grafici e illustrativi, altre volte fotografici. Gli architetti dedicavano tempo a questa arte del vedere con la macchina fotografica, si trastullavano, per usare un'espressione antica alla Boccacio, nella vitale metafora del rivelare le cose inondate dalla nuova luce della modernità. In questa seconda sezione emerge così il ruolo attivo del pensiero dell'architettura progettuale sulla potenza virtuale dell'immagine: il primo infatti usa l'illusione per generare l'immagine di una realtà virtuosa, mentre la seconda, illudendo con la sua virtù di apparenza, provvede all'esistenza di una realtà di fatto spesso irreale.
Da quando, poi, si è passati al disegno virtuale e alle immagini digitali, è avvenuto un fenomeno sensazionale che tutti amano al di là dei paradossi culturali che sta generando: tutti sono diventati fotografi di spazi urbani e di architettura. Questo progesso è stato operato grazie alla specializzazione tecnologica che ha miniaturizzato e digitalizzato la fotografia rendendolo alla portata di chiunque possieda un telefonino con fotocamera incorporata. Ciò non ha ancora concorso però ad una vera alfabetizzazione con conseguente responsabilizzazione sul visivo urbano. Gli esempi degli architetti fotografi citati in questo libro, contribuiscono a dimostrare quanto sarebbe necessario che gli architetti promuovessero un'indagine, anche spensierata, sul gesto compulsivo e quotidiano del fotografare i luoghi dell'abitare con un pratico smartphone.
Cantieri: costruzione e interventi successivi
La terza sezione del volume apre sull'eterno fascino per il racconto del cantiere di costruzione che include la pratica della documentazione fotografica utile agli eventuali interventi successivi. Camillo Boito (1836-1914) fu il primo a proporre di inquadrare nelle pratiche progettuali l'uso della fotografia come forma di documentazione del processo costruttivo, in particolare inserendo la fotografia nella Carta del Restauro del 1883 al punto sei:
Dovranno eseguirsi, innanzi di por mano ad opere anche piccole di riparazione o di restauro, le fotografie del monumento, poi di mano in mano le fotografie dei principali stati del lavoro, e finalmente le fotografie del lavoro compiuto. Questa serie di fotografie sarà trasmessa al Ministero della pubblica istruzione insieme con i disegni delle piante degli alzati e dei dettagli e, occorrendo, cogli acquarelli colorati, ove figurino con evidente chiarezza tutte le opere conservate, consolidate, rifatte, rinnovate, modificate, rimosse o distrutte. Un resoconto preciso e metodico delle ragioni e del procedimento delle opere e delle variazioni di ogni specie accompagnerà i disegni e le fotografie. Una copia di tutti i documenti ora indicati dovrà rimanere depositata presso le fabbricerie delle chiese restaurate, o presso l'ufficio incaricato della custodia del monumento restaurato.
In questo modo, la fotografia avrebbe permesso non solo di registrare quanto portato in luce durante il restauro dei monumenti urbani, con le demolizioni delle superfetazioni come di ciò che all'architetto pareva utile rimuovere in un processo di libera sebbene documentale interpretazione storica, ma avrebbe anche garantito la conservazione delle azioni potenzialmente reinterpretabili in futuro, allorquando le scelte effettuate fossero state rimesse in discussione dalle necessarie reinterpretazioni dell'architettura storica a uso della società civile.
Il saggio di Pierfederico Galliani Fotografia e costruzione ben delinea il successivo esito sulla nuova architettura, di cui sposta l'orizzonte verso una operatività progettuale e realizzativa. I successivi testi si susseguono alternando testimonianze che riguardano l'estetica del cantiere come il più esplicito Fotogenia della struttura di Tullia Iori e Sergio Poretti e I ponteggi in fotografia di Laura Papa, ad altre che espongono dei casi studio storici come QT8: obiettivo sulla sperimentazione di Marica Forni, Messa in opera dell'architettura di Maria Antonietta Crippa, e Il cantiere del Parco Lambro attraverso le fotografie del fondo Fassi di Monica Aresi o che presentano casi emblematici come Prime sperimentazioni del calcestruzzo armato di Andrea Oldani, e La fotografia come metodo di conoscenza: l'architettura di Giuseppe Sommaruga a campo dei fiori Varese di Angela Baila. Infine il caso attuale della Casa della Memoria ci mostra come la fotografia storica sia diventata financo materia di progetto per costruire un sistema visivo storico-sociale di valori comuni e condivisi in cui la città e le future generazioni possano ritrovarsi unite.
Raccolte archivi e istituzioni
Ho tenuto a nominare tutti i testi e tutti gli autori poiché esprimono una pluralità di punti di vista, di sguardi, di ossessioni che soffrono ancora oggi del sostanziale nucleo di critica alla disciplina della fotografia di architettura. Quello cioè che ne mette in dubbio il valore artistico e di critica sociale, politica e culturale in virtù di un suo presupposto ruolo documentale insindacabile. Come abbiamo fin qui visto, il solo presentare delle fotografie apre invece tanti impulsi a una critica costruttiva, da non poter fare più cadere nessuno in questa sciocca retorica, neppure chi si stia avvicinando da poco al mondo della fotografia di architettura e alla sua storia. Fotografare è un atto critico, sociale e politico: il più sorgivo per il progetto del futuro e del bene comune. Per questa stessa ragione voglio qui citare gli archivi la cui esistenza sempre più precaria è fondamentale al discorso critico, essi contribuiscono ad alimentare il libro con delle sintetiche testimonianze visive sul patrimonio fotografico e iconografico da loro conservato: EESS/AIM della Regione Lombardia, l'archivio di Triennale di Milano, gli Archivi CASVA di Milano, l'archivio storico fotografico AEM, l'archivio della Fiera di Milano, l'Archivio dello Spazio 1987/1997, l'archivio Guglielmo Chiolini di Pavia, archivio Ospedale Maggiore di Milano, l'archivio storico di Intesa San Paolo, archivi della Fondazione Dalmine, l'archivio storico del Fondo Mauriziano, l'Archivio di Roberto Pane. In quest'ultima sezione è particolarmente apprezzabile il fatto di essere messi a conoscenza dei luoghi in cui si trovano importanti giacimenti documentali, e poter sapere cosa contengono, alle volte come sono conservati, in qualche caso quali siano gli obiettivi di questa volontà materiale di preservare la documentazione di un mondo minore ma altrettanto valoriale nella storia del progetto architettonico e urbano. Lo sforzo quotidiano degli archivi contro i segni del tempo che sbiadiscono la fotografia analogica alle origini della storia fotografica molto volte rende quest'ultima eroica.
Infine è particolarmente apprezzabile l'appendice biografica del libro, quella sugli autori, dove si evince la pluralità di voci, di discipline, di interessi, di punti di vista, di passione per la fotografia. Quest'ultimo impegno dei curatori nel compilare con garbo e chiarezza la provenienza, l'origine e l'arcipelago di significati che si forma nell'oceano di stampe fotografiche, negativi, diapositive, provini a contatto, ristampe e fotomontaggi accumulato nel secolo XX è particolarmente significativo della democraticità di questo nobile strumento. Obbliga infatti tutti quanti se ne occupino a guardare negli occhi gli altri, a conoscerli e a apprezzare gli uni degli altri per lo meno l'originalità di percorso.
Sembrerebbe che io non abbia notato i testi dei fotografi Marco Introini e Giovanni Hänninen ma non è così. Quest'ultimo parla della fotografia come di un atto di mistificazione ovvero della precisa volontà del fotografo di operare una distorsione, per lo più deliberata, della verità e della realtà dei fatti (come da definizione in vocabolario Treccani). Operazione oggigiorno cavalcata dai progettisti desiderosi di entrare nella realtà del mercato con immagini mistiche, che portino l'osservatore in contatto con una realtà diversa, fuori delle forme ordinarie di conoscenza e di esperienza. Con ciò mettendo sempre più in contrappunto l'estetica dell'architettura mainstream con quella urbana e dimessa dello spazio pubblico quotidiano.
Marco Introini traccia invece in apertura del libro un punto di vista benjaminiano, che anticipa forse quello di Fulvio Irace, dove va delineando la forte reciprocità tra disegno d'architettura e fotografia d'architettura. In esso il tempo breve della fotografia viene innestato su una storia dell'iconografia di architettura che ne diventa il modello formale scelto in base alla tipologia o comunque con metodi e criteri tipologici, stilistici e classificatori. I monumenti, i ponti, le grandi opere, le strade, le vie, i parchi e persino gli alberi si prestano a un modo storicizzato di essere fotografati. Ugualmente si andrà poi codificando una formula visiva per i nuovi edifici moderni, più inclini all'incisione della loro identità plastica nella nuova forma d'arte, così da esistere nell'adempimento della missione di rinnovamento sociale e economico che li ha generati. Un bel testo quello di Introini, forse non ancora del tutto consapevole delle potenzialità della sua visione sulla storia. In ogni caso l'autore finalmente libera il dibattito tra coloro che attingono alla fotografia in bianco e nero per raccogliere la presenza del reale e coloro che vedono nel colore la nobile essenza della luce impressa sulla carta. Introini fotografa in scala di grigio in nome di una ragione storica più impegnata nella resa di una versione progettuale del paesaggio ritratto.
Per concludere, Fotografia per l'architettura del XX secolo in Italia è un libro lungo e difficile da leggere e da interpretare eppure sicuramente utile per chi abbia voglia di avere un'istantanea su quanto importante possa essere la fotografia, un'arte cui appartiene un tratto di umiltà documentarista unita a un robusto vigore creativo. Può essere strumentale per chi voglia conoscere il parere di altri autori su temi che sta studiando. Può essere importante per chi sia determinato nella ricerca di un cammino storico-sociale-culturale più incline a comprendere la storia minore della città diffusa. Può essere didascalico per chi si domandi chi abbia promosso la registrazione di una storia iconografica architettonica e urbana in Italia. Può addirittura essere comodo per chi voglia farsi un primo quadro degli archivi presenti a Milano e in Lombardia.
Spesso i libri su cui nascono fin dall'inizio dubbi e perplessità dischiudono un più intimo, accessibile e prolifero cuore, soprattutto per chi lo voglia cercare.
Maddalena d'Alfonso
N.d.C. - Maddalena d'Alfonso, architetto, saggista e ricercatrice indipendente, è stata abilitata al ruolo di professore associato nel 2017 dopo aver conseguito il dottorato cum laude nel 2004. Ha tenuto corsi presso lo IADE di Lisbona e il Politecnico di Milano. La sua attitudine a coniugare l'attività di ricerca con la cultura museografica ha trovato applicazione nell'ideazione e progettazione di mostre e programmi culturali per la Fundação Gulbenkian (Portogallo), la Fundação Iberê Camargo (Brasile), il Museo MIT di Cambridge (MA, USA), la Triennale di Milano e il Politecnico di Milano. La mostra "Il Paesaggio dei Diritti. Fotografare la Costituzione" - ideata e curata nel 2017 per il Comune di Milano - ha ricevuto la Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica Italiana.
Tra le sue pubblicazioni: Disegnare nelle città. Architettura in Portogallo (Actar, 2004), Due musei di Àlvaro Siza (Electa, 2009); De Chirico. O sentimento da Arquitetura (Camargo, 2011); Come lo spazio trasforma l'arte | Come l'arte trasforma lo spazio (Silvana Ed., 2016); Warm Modernity (Silvana Ed., 2016, Red Dot Award).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 05 APRILE 2019 |