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Lasciamo sempre qualcosa di noi quando ce ne andiamo da un posto. Rimaniamo lì anche una volta andati via. E ci sono cose di noi che possiamo ritrovare solo tornando in quei luoghi. [Treno di notte per Lisbona, 2013, regia: Bille August]
A volte penso che certe annotazioni sul paesaggio contengano delle note nostalgiche, un ricordare 'com'era verde la mia valle', una memoria di qualche cosa che non tornerà; in un secondo momento mi accorgo di quanto queste sensazioni siano interiori, non reali, che per quanto percepiscano la dinamica che caratterizza il paesaggio, anzi i paesaggi, non la accettano affatto. Nel plurale paesaggi sottolineo la presenza simultanea di molti paesaggi, perché quella vista, qualunque sia, è composta da un mosaico le cui tessere hanno dimensioni e caratteristiche diverse, ciascuna interferisce con quelle contigue, riversando nelle altre qualche cosa; i contorni non sempre sono nitidi, sono interfacce scambiatrici. Il paesaggio è un insieme di paesaggi; essi sono l'ambiente che ci circonda, sono la biosfera; sono il supporto dei lavori agricoli, i luoghi delle solitudini individuali e dei moti collettivi, che insieme fluiscono e convivono in città e territori. La coscienza dell'occhio ci fa osservare la moltitudine di società che attraversano regioni e luoghi, che si diramano nel mondo; sono correnti di migranti per lavoro, per divertimento o per fuga, fuggitivi da guerre e povertà, tutti spinti dalle speranze di accoglienza in nuove patrie. Di fatto 'paesaggio' è una di quelle parole così familiari, che pare impossibile possa trasformarsi in un garbuglio scientifico intrappolante. In fin dei conti, il paesaggio è tutto ciò che ci accoglie dalla nascita e in cui viviamo e che nella memoria rafforziamo con la nostra esperienza e con la nostra identità, perché non vi è alcun dubbio che lo sfondo culturale su cui si innesta il termine 'paesaggio' sia legato all'esperienza individuale. Di fatto, per questa sua intrinseca soggettività il paesaggio non è altro che una parola, una parola che non afferra quello che ci circonda, che non lo descrive. Nella sua accezione più semplice indica una visione istantanea e individuale, ma questo lascia in ombra un altro aspetto assai più difficile da cogliere: è possibile, senz'altro è quanto mai probabile, che essendo esseri sociali, il paesaggio possa divenire subdolamente una memoria collettiva, un collante che tiene insieme e che nello stesso tempo plasma una società? Paesaggio, territorio, società civile sono alcune delle parole chiave del nostro presente, un presente sempre più relativo, diverso da individuo a individuo, da società a società; un presente in cui ciascuno si interroga sui confini per dilatarli, per rimodularli, per chiuderli, interpretando il paesaggio come evidenza locale e immediata dell'ambiente e della biosfera. Vivendo in questo contrasto l'io e l'altro, individuo-moltitudine, siamo sempre più invasivi, trasformiamo il Pianeta nella sua interezza. Si continua ad agire per parti, per piccole porzioni, e si evita di vederne gli effetti cumulativi: ecco, la complessità e la caducità del nostro vivere. Con queste parole chiave è intitolato il libro di Joan Nogué - Paesaggio, Territorio, Società Civile. Il senso del luogo nel contemporaneo (Libria, 2017) - docente di geografia umana alla Universitat de Girona e direttore dell'Observatori del Paisatge de Catalunya.
Il tema generale che queste parole chiave portano con sé riguarda essenzialmente il futuro, un futuro prossimo che coinvolge le nuove generazioni che già convivono con quelle più anziane, un futuro che riguarda le modalità di costruire e organizzare il territorio; intendo: insediamenti urbani e rurali, attività agroalimentari, attività estrattive e industriali, attività terziarie, infrastrutture. Questo è il dominio dell'urbanistica; anzi di più, la logica mi porta a affermare la sua centralità, nella duplice accezione di pianificazione urbana e pianificazione territoriale, nel vivere sociale, ivi compresa l'economia. In questo senso, devo aggiungere senza esitazione, è richiesta una base di conoscenze che ritrovo solo nella combinazione di molte altre discipline: un tema interdisciplinare, e per necessità transdisciplinare. Solo così, infatti, penso sia possibile la costruzione di una politica urbanistica capace di essere attenta ai luoghi e alla società, capace di avviare e seguire azioni di lunga durata, capace di rispondere positivamente e contemporaneamente alle domande sociali e ambientali attuali e più urgenti, come i cambiamenti climatici, le migrazioni, le diseguaglianze. Non penso, ovviamente, che una "buona urbanistica" - e per inciso non so e non capisco che cosa sia - possa risolvere questi problemi, ma penso che una politica alta possa governare le trasformazioni territoriali, aiutando la libertà sul territorio e la solidarietà sociale, valutando le opzioni ambientalmente e socialmente nel contesto attuale, per il quale è stato adottato il termine Antropocene. Nelle ere geologiche, usate per classificare i lunghi intervalli temporali terrestri, l'era Neozoica, l'era degli animali nuovi, era composta da due periodi, il Pleistocene e l'Olocene; quest'ultimo durò solo 11.700 anni; se il primo derivava il suo nome da "il più (πλεῖστος) recente (καινός)" , il secondo significava "il tutto (èὅλος, ὁλο-) nuovo e recente (καινός)", un periodo straordinariamente stabile dal punto di vista climatico con variazioni annuali comprese in un intervallo di più o meno un grado, ma che purtroppo risulta sorpassato dal nuovo periodo che si affaccia con il dominio della tecnica: l'Antropocene, dove "l'uomo (ἄνθρωπος)" sospinge più di ogni altra forza fisica e biotica le trasformazioni della biosfera, spostando gli equilibri generali verso nuovi e inconoscibili stati metastabili. Ora tutto è veramente nuovo, senza precedenti. Questo ci porta a formulare con forza la domanda essenziale: che capacità e volontà ha il genere umano per abbandonare il suo essere motore irresponsabile dei cambiamenti e per assumersi la responsabilità di guidare razionalmente la costruzione del futuro, mettendo in campo l'abilità di progettazione, di costruzione e di valutazione di tutto quanto compie?
Per gli urbanisti questa domanda non può che significare un nuovo modo di pensare la propria professione, operativo e senza retorica, per mettere in atto strategie a lungo termine, per coinvolgere le molte società che convivono in ogni regione, per trovare risposte condivisibili, discutibili e riorientabili in base alle mutevoli condizioni esterne. Per rinnovo disciplinare intendo un approccio scientifico; in altre parole, credo che ci si debba spostare dalla tecnica urbanistica e dalla pratica amministrativa all'osservazione della realtà e alla costruzione teorica; che si debba operare assieme alle scienze della Terra e alle scienze umane; che si debba studiare l'evidenza dei fatti per ricercare relazioni e spiegazioni su che cosa è successo, su che cosa stia succedendo o possa succedere in relazione alle organizzazioni delle attività sul territorio e ai conseguenti usi del suolo; sottintendo la formulazione di ipotesi generali e derivate, l'uso di analisi territoriali per verificarle, la formazione di laboratori indipendenti per la ricerca e per l'elaborazione di tecniche di valutazione verificabili, compresa la confrontabilità tra gli strumenti di pianificazione, evitando complicazioni tecniche e affrontando consapevolmente la questione ambientale. La difficoltà della partita deriva dal giocare con sistemi dinamici, con azioni, retroazioni e controlli, in altre parole vuol dire un agire organizzativo e comunicativo nell'ambito della cibernetica, intervenendo in una struttura territoriale, quindi geografica, complessa. I sistemi sociali e ambientali sono conoscibili solo attraverso molte discipline, tra cui geodesia, geologia, fisica, botanica, zoologia, antropologia, storia e mitologia, nelle loro dimensioni antiche, preistoriche e storiche e attuali, attraverso strumenti e tecniche, dalla statistica ai sistemi informativi geografici e a tutto quanto serve per comprendere i cambiamenti avvenuti e per avanzare ipotesi, verificabili, su quelli futuri. Dunque, riaffermo l'esortazione: affrontare la complessità, evitare le complicazioni!
A questo punto ritorno al tema generale: paesaggio, territorio e società civile. La Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 pose al centro dell'attenzione il paesaggio nel suo rapporto con la popolazione. L'importanza della Convenzione è fin troppo ribadita per dover essere riaffermata, basterà ricordare gli scritti di Maguelonne Déjeant-Pons (1) o quelli di Marc Antrop (2), i primi per il valore istituzionale essendo l'autore a capo della divisione "Patrimonio Culturale, Paesaggio e Gestione del Territorio" del Consiglio d'Europa, gli altri in quanto espressione di una costante attività di ricerca e di insegnamento centrata sull'indagine sulla percezione del paesaggio e sulla valutazione ambientale. Senza sminuire l'importanza della Convenzione, trovo fondamentale rintracciare e seguire il filo rosso che si dipana da John Brinckerhoff Jackson e dai paesaggi culturali (3), ricordando però che per l'autore statunitense, affascinato dalla geografia umana francese, la narrazione implicita nel paesaggio era da decifrare, perché le interazioni tra individuo società e paesaggi erano in gran parte inconsapevoli, se non indirette e perché, comunque, i segni impressi si fondevano nelle altre forze della natura. La Convenzione non prende avvio dai modi di formazione dei paesaggi nella storia, ma dalla loro percezione (art.1). A questa affermazione seguono altre definizioni fondanti: Politica del paesaggio, Obiettivo di qualità paesaggistica, Salvaguardia, Gestione e, per ultima ma non ultima, Pianificazione, perché questo è lo scopo principale. Successivamente (art. 2) amplia la visione su tutto l'ambiente, in un qualche modo presupponendo quindi l'interezza e la complessità della biosfera:
Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.
Fatte salve le disposizioni dell'articolo 15, la presente Convenzione si applica a tutto il territorio delle parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, che i paesaggi della vita quotidiana e i paesaggi degradati.
Non entro nel merito di altri concetti, come il ripristino, ma osservo che tutto questo può stare insieme solo in una profonda revisione culturale del nostro modo di far parte della biosfera e del nostro modo di pensare e fare urbanistica; in effetti, rimarco che la Convenzione reclama un grande impegno per la sensibilizzazione e l'innovazione nella formazione professionale e nell'istruzione, fasi a cui seguono l'individuazione e la valutazione dei paesaggi (art. 6): mi domando se questo non sia il vero ordine di importanza e di priorità, perché in realtà non abbiamo una cultura comune. Le applicazioni della Convenzione dei due decenni successivi assieme all'abbondante e continua riflessione sostenuta dal Consiglio d'Europa mi paiono confermare la necessità di una revisione che accolga, per esempio ma non solo, gli approfondimenti espressi dall'Agenzia Europea dell'Ambiente e dalle agenzie ambientali dei paesi membri o di altri paesi. Il mio punto di vista è critico e insoddisfatto rispetto alla dimensione "percettiva" dei paesaggi, poiché credo che fermarsi agli abbozzi dipinti dai nostri sensi sia solo raccogliere una successione disordinata di immagini della biosfera, cui diamo di volta in volta i nomi di panorama, ambiente, territorio, se non magari casa e patria. Tutto questo dipendere dalle occasioni, dai punti vista, dalle emozioni, credo che appartenga a un certo di riduzionismo scientifico. Al contrario, penso che sia sempre più urgente intendere il paesaggio nel suo essere sintesi di fattori biotici e abiotici, che le immagini della sua rappresentazione debbano essere riordinate come in una tomografia della biosfera, del territorio e dell'ambiente, perché, in fin dei conti, tutti questi punti osservazione devono fondersi in una sintesi mantenendo la loro integrità per plasmare le politiche territoriali e la pianificazione.
Quando poi si parla di urbanistica per il paesaggio, è facile sentir ripetere che si debbano intraprendere azioni mirate a salvaguardare, a tutelare, a conservare, a ripristinare o a salvare, magari sforzandosi di spiegare che non si tratta di sinonimi, ma di politiche da mettere in atto contro un generico (o generale?) degrado, contro la cosiddetta cementificazione, contro il silenzio delle primavere. Spesso appare più semplice generalizzare, allarmare, piuttosto che applicarsi seriamente allo studio del contesto, anche legislativo, per governare positivamente l'edilizia, le infrastrutture, gli insediamenti e le attività industriali, comprese quelle agroalimentari, adoperandosi per rispondere alle esigenze di cambiamento nel pieno rispetto di un continuo processo di valorizzazione ambientale. Nogué tratta questi temi attraverso una costruzione teorica fondata sulla geografia umana; le sue riflessioni si sono rafforzate nelle esperienze universitarie e nella direzione dell'Osservatorio del Paesaggio della Catalogna. Le chiavi di lettura della sua teoria sono proprio le pubblicazioni dell'Osservatorio e quanto lui scrive sull'Osservatorio nell'appendice "Paesaggio, il volto del territorio". L'Osservatorio fu istituito nel novembre del 2004 con l'obiettivo di attuare la Convenzione Europea alla luce delle specificità catalane; tutta l'attività, dai rapporti annuali sulle attività alla redazione delle mappe delle "unità di paesaggio", è documentata nel sito web dell'Osservatorio stesso (4). Tra tutte le pubblicazioni scelgo quella sulla metodologia applicata nella redazione delle mappe del paesaggio, in quanto redatta a conclusione di quasi un decennio di attività (5). In essa si rintracciano le diverse fasi di lavoro applicate e adattate ai diversi "paesaggi":
- inchiesta telefonica;
- intervista diretta (visita domiciliare) (RMB: 1050);
- questionari Web (via internet) (RMB: 577 inviati, con 737 risposte);
- interviste a operatori del settore;
- gruppi di discussione;
- laboratori con operatori del settore (RMB: 62 persone);
- laboratori con partecipanti a a titolo individuale;
- laboratori aperti (RMB: 32 persone).
Nella lista ho voluto inserire tra parentesi i riferimenti relativi alla Regione Metropolitana di Barcellona (RMB) e alle persone coinvolte. Questo per evidenziare che si pone innanzitutto un problema di rappresentatività delle inchieste (la percezione della popolazione) rispetto alla dimensione demografica-territoriale. Il campione di persone che ha partecipato alla definizione, di cui solo una parte è scelta casualmente (nelle interviste dirette o telefoniche e nei questionari in rete) è solo una piccolissima parte della popolazione e non può essere certo rappresentativo del comune sentire. In effetti, nella stessa Metodologia si ammette che la rappresentatività non può essere reclamata:
Malgrat que l'estudi d'opinió va arribar a una quantitat important de persones de la Regió Metropolitana de Barcelona, moltes de les quals probablement no hi haurien participat per altres vies o mecanismes per iniciativa pròpia, la limitació de pressupost va impedir que s'assolís una mostra estadísticament prou representativa del conjunt de prop de cinc milions de persones que viuen en aquest àmbit territorial. De tota manera, sí que es van poder copsar múltiples visions diferents sobre el paisatge d'aquesta àrea (6).
Esiste, però, un altro aspetto legato alla differenza tra unità amministrative e suddivisioni territoriali che precede il lavoro. Per esempio, la dimensione demografica-territoriale RMB fa riferimento a un territorio di circa 5 milioni di abitanti, assai più esteso dell'ufficiale Área Metropolitana de Barcelona (3.240.000 abitanti), prefigurando così un'alternativa alle suddivisioni amministrative, e adottando una toponomastica nuova che potrebbe generare una qualche ambiguità forse negli stessi catalani. Si vede, poi, che anche sulle unità di paesaggio si persegue una strada originale, a suo dire "fondante", muovendosi tra criteri generali di tipo geografico e approcci essenzialmente qualitativi. In sintesi, i criteri operativi sono: la copertura totale del territorio; l'esigenza di una discreta estensione tale da essere utile per la pianificazione territoriale con riferimento proprio alla scala dei piani territoriali 1:50.000, senza mai salire oltre a 1:25.000; l'identificazione di uno specifico carattere dell'area; la stabilità nel tempo di questo carattere per delineare confini stabili; la capacità di integrare anche zone amministrative esterne anche in senso di confini nazionali (7). La delimitazione delle unità di paesaggio viene elaborata in base a fattori fisici, all'uso del suolo, agli aspetti storici, alla visibilità, ai punti di vista, alle dinamiche caratterizzanti e alla percezione locale (8). A questo segue un lavoro collegiale sulle mappe e in campagna (9). Spiegato il metodo, risulta chiara la definizione:
Unitat de paisatge: Porció del territori caracteritzada per una combinació específica de components paisatgístics de naturalesa ambiental, cultural, perceptiva i simbòlica, així com de dinàmiques clarament recognoscibles que li confereixen una idiosincràsia diferenciada de la resta del territori (10).
Il successivo passo operativo è consistito nell'attribuzione di valore ai paesaggi desunto dall'intersezione di molti fattori: naturalistici, estetici (elementi configurativi, singolarità), storici, d'uso sociale, di contenuto simbolico, di uso produttivo (11). Si tratta di valutazioni applicate ad ambiti eterogenei, interpolate, svolte in ambito qualitativo, forse calcolabili con qualche algoritmo, ma essenzialmente da risolvere con la discussione nei gruppi di lavoro. Si giunge così agli obiettivi "qualitativi" della pianificazione territoriale e ai relativi criteri operativi. Alla fine dell'esposizione della metodologia, è inserito un breve glossario che riunisce cinquanta definizioni che mi paiono autonome rispetto all'ecologia, all'ecologia del paesaggio, all'ecologia storica, all'archeologia del paesaggio, alla paleobiologia, alla geologia e alle altre discipline; infatti e con sorpresa mi accorgo che trentaquattro definizioni sono stabilite dallo stesso Osservatorio, dodici derivano equamente dalla Convenzione Europea e dalla legislazione regionale (12), tre dall'agenzia The Countryside Agency / Scottish Natural Heritage e che per una non è indicata la fonte ("Governança del paisatge"). Una sorta di autoreferenzialità che chiude la particolarità dell'Osservatorio in se stessa. L'assenza di riferimenti esterni non è una questione di poco conto o marginale, perché il senso del paesaggio non può essere compreso se non ricercando quell'essenza vitale che ci mantiene, e questo è possibile solo con la collaborazione di molte discipline. Parole e linguaggio devono essere ponti di comunicazione, non fortezze da espugnare. Questo non è una fuga in avanti per non affrontare il tema delle strane relazioni e dei condizionamenti concreti che le case, le città e i luoghi in generale hanno con il sé autobiografico degli individui e dei comportamenti collettivi, ma è affermare che è necessario cambiare prospettiva, che bisogna passare dalla percezione alla appercezione e poi con un grande sforzo inoltrarsi nella conoscenza di ciò che ci circonda. Senza questa strada non possiamo affacciarci alla complessità dell'ambiente costruito e rischiamo di identificare il paesaggio in cui ciascuno è immerso (e che è il "suo" paesaggio) con il 'panorama' e il 'belvedere' (13).
Le annotazioni riportate nella citata appendice al libro offrono, però, una visione più nitida, per certi versi diversa. Qui, infatti, si rintracciano alcuni elementi essenziali del lavoro svolto e sulla reale difficoltà che il binomio "percezione-partecipazione" comporta. Pur non essendo esaustiva, l'appendice getta qualche luce sulle domande usate nelle inchieste, sulla continua messa a punto e revisione delle inchieste, sulle risposte, sull'elaborazione dei dati raccolti, sui risultati generali ottenuti dai diversi tipi di consultazione diretta e su come e quanto tutte queste attività appartengano alla partecipazione. Non solo, ma più volte cita la collaborazione con altre discipline e le difficoltà di trovare una via comune, soprattutto a proposito degli indicatori di paesaggio affatto diversi. Per la loro messa a punto furono scartati quelli della biodiversità e dello sviluppo sostenibile in quanto "incentrati, praticamente, nella conservazione degli ecosistemi e nella riduzione degli impatti (...)" (14), spostando l'attenzione dei gruppi di lavoro dell'Osservatorio verso la ricerca di indicatori complessivi (olistici) nel massimo rispetto della coerenza interna. Sono così chiariti in maniera più dettagliata i dieci indicatori considerati, di cui quattro li vedo legati al paesaggio come segno visibile dell'ambiente che ci circonda: trasformazione, evoluzione della diversità, frammentazione, valore economico; quattro al rapporto con il sociale: conoscenza, soddisfazione, socialità, paesaggio e comunicazione; due all'urbanistica e alle politiche urbane e territoriali: attuazione pubblica e privata nella conservazione gestione e ordinamento, applicazione della legge del paesaggio catalana (15). La coerenza interna, per quanto sia un'esigenza ben comprensibile, comporta un alto rischio di aprire la strada a mille variazioni o personalizzazioni di criteri e metodi, inficiando il ruolo di guida che l'Osservatorio potrebbe avere.
Questa lunga premessa è stata necessaria per discutere le riflessioni teoriche che Nogué articola in quattro momenti: la rilevanza dei "luoghi" del territorio; il "conflitto", o rapporto traumatico, tra l'individuo e le dinamiche delle trasformazioni; le "sensazioni poli-sensoriali" caratterizzanti i paesaggi; l'etica e l'estetica del paesaggio. Inizio, però, dall'ultimo, "etica e estetica del paesaggio", perché questo è il filo conduttore del paesaggio armonioso, quello dominato dai colori della vegetazione, dal gorgoglio delle acque e della risacca marina, dal suono del vento e del canto degli uccelli. In esso si propone l'idea che la percezione del bello sia il dominio degli studi del paesaggio. Purtroppo, non credo affatto che etica e estetica siano due facce della stessa medaglia, mentre la prima studia l'esperienza del bello e dell'arte oppure la concezione filosofica dell'arte in un certo periodo, l'altra è la ricerca di una continua riflessione su se stesso in relazione agli altri, senza scorciatoie, senza valori predefiniti come la morale, tesa verso l'emancipazione sociale, caratteristiche tutte che suscitano rancorose ostilità verso l'etica. Dunque, l'educazione al bello non è educazione all'etica; pur ammettendo che l'arte possa essere usata in forma terapeutica, non vuol dire che lo sia di per sé, né che l'arte coincida con il bello; nel passato umano l'amore per l'arte si è spesso accompagnato alla guerra e a volte al genocidio. Siamo fatti così, non sempre il bello è buono, né il brutto (il diverso?) è cattivo; sostenerlo diviene un inganno, a cui potrebbero conseguire situazioni ancor più dolorose della menzogna.
Ora rileggo il primo e il secondo momento di riflessione di Nogué: il ritorno al territorio e il rapporto tra senso del luogo e conflitto. Credo che accettare che l'organizzazione del territorio non sia disordinata, ma che risponda a principi di ordine, quelli del capitalismo e soprattutto del capitalismo neoliberista, sia affatto condivisibile. Tuttavia, non è una mera questione del capitalismo: la rivoluzione urbana di cinquemila anni fa si legava all'organizzazione sociale e al contrasto tra potere e sudditi. Similmente, concordo nel ritenere importante il concetto di luogo nel suo essere legame alle esperienze individuali e alla caratterizzazione degli spazi urbani, ciascuno diverso e, proprio per questa sua singolarità, eccezionale. Tuttavia, dopo aver affermato questa organizzazione territoriale del capitalismo, il pensiero di Nogué di continuo ritorna a parlare, come se fosse ovvio e indiscutibile, di disordine e di ampiezza dell'urbanesimo contemporaneo, citando i neologismi 'rapallizzazione' e 'balearizzazione', ma forse scordando sia la forza delle mani sulla città, artigli della cupidigia animati dalla rendita fondiaria, sia i tanti abusi di potere rimasti impuniti e senza nome. Il fatto è che quelle scelte per molti non furono mostruosità, ma una risposta a una richiesta sociale che si esprimeva in parte con sboccate manifestazioni - come quelle in Italia per la difesa dell'abusivismo "per necessità" e con i numerosi condoni -, in parte con le molte adesioni al sistema confermate dall'acquisto di case e di appartamenti e dalla crescita dei prezzi. Il fatto è che la diffusione attuale dell'urbanesimo non sarebbe comprensibile se non fosse messa in relazione con la crescita demografica esponenziale abbinata alla ricerca di una qualche forma di benessere, a cui appartengono le stesse ville e villette della diffusione urbana o le città del turismo con la complicità dell'esplosione tecnologica che tutto questo ha permesso. Il rallentamento dovuto alla crisi economica nulla cambia, anche perché troppo spesso si è considerato essere una piccolezza marginale la presenza nei governi locali di una cultura politica assai benevola verso i rapidi guadagni. Quella sorta di 'non-luoghi' legati al pianificare e all'omogeneizzare le città con centri commerciali e con marche globali sono, però, luoghi vissuti dove le moltitudini si incontrano, flanellano o fanno la spesa: dunque, sono non-luoghi o sono i candidati a divenire i nuovi luoghi? Tutto dipende dalle opportunità che si danno sul territorio, alle possibilità di mischiare culture e colori, suoni e odori, lasciando che ogni luogo rimanga se stesso nella contaminazione, in altre parole una città della mitezza, accogliente, al femminile, come direbbe qualcuno. Non dico che la critica di Nogué sia sbagliata, ma che scaturisce da un punto di vista non condiviso. Le sue dimostrazioni si rifanno alle associazioni in difesa del territorio, sconcertate dalla vista della diffusione urbana, dalla perdita di confini, dall'esposizione di luoghi non pensati per essere visti, dalla frammentazione e dalla rappresentazione sociale del territorio. È su questo ultimo fronte che Nogué innesta con forza il nazionalismo catalano, avanzando l'ipotesi che la costruzione di centrali nucleari o di centrali eoliche sia localizzata a mente fredda in luoghi con scarsa identità storica e culturale. Così, mi accorgo che mette sullo stesso piano impatti e rischi atomici assieme al problematico smaltimento delle scorie con l'impatto visivo dell'eolico, aggiungendo per non farsi fraintendere l'alta velocità in Val di Susa, sicuro che una simile opera distrugga quella certa identità storica e culturale della valle. Il discorso, come scrivevo all'inizio, è non tanto complicato, quanto complesso e di conseguenza la domanda che dovremmo porci è: se queste ipotesi fossero vere, che cosa successe alle molte società che hanno convissuto con le innovazioni tecnologiche? L'agricoltura conobbe nel corso del tempo tre grandi "rivoluzioni", una prima di dieci millenni fa, una seconda, la rivoluzione agraria iniziata nel tardo XVIII secolo, una terza, la Green Revolution sperimentata negli anni Cinquanta del Novecento in Messico con l'appoggio statunitense, preludio alla nascita dei colossi Big Food, in attesa forse di una quarta rivoluzione in cui questi potrebbero essere ridimensionati a favore di un incontro tra tecnologie e piccoli agricoltori. Queste rivoluzioni sono state alla base delle rivoluzioni urbane, dalla fondazione di Uruk fino alle successive e sempre più veloci metamorfosi degli insediamenti urbani e alla rivoluzione industriale e a quella tecnologica che stiamo vivendo, che si riversa persino nelle infrastrutture e nei modi di trasporti. Che cosa è successo a coloro che non le conobbero o che le rifiutarono? Non siamo noi stessi gli eredi di quelle società? Non è il nostro sapere il risultato di queste prove e errori che ci hanno portato fin qui? Forse che questa continua rivoluzione non è stata la caratteristica della storia umana, in Occidente così come in Oriente? Non è forse che un sistema integrato ferroviario possa servire all'Europa del futuro? Forse che i conflitti territoriali e i traumi che spingono le migrazioni riguardano l'armonia del paesaggio e non le risorse naturali e il dominio sociale che alcune nazioni hanno esteso su regioni vicine o lontane?
Oltre il giardino catalano, oltre quello europeo, che cosa c'è? Quante comunità convivono in un luogo e quante nel mondo? Che cosa ci suggeriscono, quindi, i paesaggi del mondo? Quali luoghi nutre e di quali luoghi avrà bisogno l'urbanesimo mondiale? Da tempo i messaggi ecologisti ripetono con forme più o meno catastrofiche messaggi d'allarme, ma il vero punto della questione non si risolve fomentando un ambientalismo di maniera o i nazionalismi, ma riconoscendo l'importanza della cooperazione internazionale su tutti i piani. Forse dovremmo a gran voce affermare: "Basta guerre e mura di confine, nessuna nazione da sola si salverà". È urgente capire non tanto come non segare il ramo su cui siamo seduti, quanto che è troppo pericoloso a mani nude afferrare la sega che altri usano con miopia. Che cosa fare allora? Non segare il ramo, ma tutti insieme lottare per ridare vigore alla pianta, di questo dobbiamo essere promotori, perché non si danno risposte semplici; i cosiddetti 'saperi antichi' non hanno saggezze intrinseche capaci di risolvere la questione ambientale attuale. Quei 'saperi antichi' non sono la cultura degli antichi che seppe porsi domande ancora oggi senza risposta, ma sono quelli del 'caccia e raccogli' e del 'brucia e taglia', tecniche che hanno depauperato regioni e che hanno trasformato i boschi dell'Europa in terre agricole molto prima della fondazione di Roma. Gli studi sulle capacità predatorie umane e sulle dinamiche di trasformazione delle foreste e dei boschi europei mostrano le conseguenze in drastici cambiamenti. In altre parole, esemplificando con un caso italiano, la valorizzazione delle Cinque Terre non è, né può essere, un'opera di ripristino di modelli antichi, spesso di sopravvivenza sotto qualche ombra feudale, ma deve fare i conti con il mondo attuale composto da risorse umane, da un aumento delle esposizioni ai rischi idrogeologici, da pesantissimi lavori manuali in condizioni difficili, da un modello turistico basato sull'albergo diffuso, da un eccesso di turismo, da un'educazione all'accoglienza e dallo studio di nuove tecnologie utili a garantire una qualità della vita oggi accettabile per la popolazione locale e per il turismo (16). La grande scommessa, quindi, non credo possa essere un catalogare archetipi del paesaggio da salvare, tanto meno per radicarvi la popolazione, magari quella giovane, imponendo musei a cielo aperto, fondati su modi di vita di secoli fa, alla 'scoperta' (o 'invenzione') di un genius loci (17) e di un'ideale identità sociale. La scommessa è rendere 'attrattivi' quei lavori, come stipendi e come finalità, come qualità della vita e come riconoscimento sociale. Spetta alla politica trovare risposte e verificarle: quali attuazioni, come rinnovare la partecipazione, quali modalità di trasmissione di valori. Alcuni studiosi, come Hugues de Varine, qualche riflessione l'hanno proposta da tempo e di certo le risposte non stanno nel passato (18).
Nel terzo momento teorico Nogué affronta la natura polisensoriale del paesaggio, e non posso che ammettere anch'io che le percezioni di per sé sono polisensoriali: gli odori, i suoni, i colori contribuiscono a identificare un paesaggio o anzi a connotare quel paesaggio nel tempo delle stagioni, del caldo e del freddo; fornendo specifiche individualità: il rumore e le luci della città di ogni città una diversa dall'altra e dei paesaggi aperti tra le campagne, i monti o i mari, sempre tutti singolari. Ancora una volta si abbraccia l'idea di una natura bucolica esaltata dall'entusiastica e laboriosa lode virgiliana, dimenticando la natura aspra di Lucrezio o Leopardi e ignorando nuove possibili alleanze (19). A questo proposito come non esortare allora la complessa presenza del paesaggio, la rilettura delle riflessioni profonde sulla storia e sulle ere geologiche nell'infinito leopardiano e quelle sulla soggettività emotiva che plasma l'addio manzoniano ai luoghi natii di Renzo e Lucia? (20). Per parlare di paesaggio non si può prescindere dalla cultura classica, perché proprio in essa ritroviamo lumi sul significato intrinseco dei paesaggi e del nostro abitare la Terra. Ecco che allora i temi del genius loci, dello statuto dei luoghi, del paesaggio culturale messi a confronto con l'urbanistica, nella duplice accezione di pianificazione urbana e pianificazione territoriale, mi parlano di apertura dei confini, di mosaici del paesaggio interagenti, di accoglienza, di mitezza, di valutazione ambientale, di compatibilità delle attività umane con la biosfera. L'identità sociale si liquefa, arricchendosi senza perdite, nel divenire cittadini del mondo. In conclusione, ribalterei il senso dell'Osservatorio e delle teorie di Nogué, per affermarne che la loro importanza, certo non marginale, risiede nella fase di "educazione alla cittadinanza". Dal mio punto di vista è secondario che si tratti della Toscana, della Liguria o della Catalogna, mentre è primario affermare che tutto questo vale se riesce a coinvolgere le regioni dell'Europa in una grande visione comune per l'ambiente. Il dover agire subito per cercare governare i cambiamenti non può essere affrontato dall'individuo o da una regione, né da un paese per quanto ricco, né da sommosse locali. La condivisione si può ricercare attraverso l'emozione, la percezione dei paesaggi nei loro risvolti psicologici e sacrali, nelle differenze che hanno nei mille luoghi della Terra, nelle mille culture che li abitano. Non uno contro l'altro, non temendo complotti, ma stimolando la conoscenza delle regole di connessione che ci uniscono nella biosfera.
Solo un accenno alla prefazione e postfazione, che sostengono le argomentazioni di Nogué da due punti di vista diversi con percorsi densi di citazioni. La prima è dI Enrico Falqui, già docente all'università di Firenze con impegno politico con i Verdi al Senato italiano e al Parlamento europeo; in essa egli rimarca l'auspicio di costruire una "coscienza del paesaggio (...) attraverso costanti processi di coinvolgimento delle popolazioni", che bene chiama "pedagogia del paesaggio". La seconda scritta da Ludovica Marinaro, dottoranda a Firenze e stagista presso l'Osservatorio, ricostruisce il difficoltoso e fecondo processo che ha accompagnato lo sviluppo delle idee implicite nella Convezione Europea. Le identità individuali e sociali si arricchiscono sia con i valori che trovano nel territorio e nel paesaggio, nella cultura materiale e nella dimensione psicologica e spirituale, nei dialetti e nella cultura alimentare, sia con gli scambi che intervengono per necessità o per caso. Sono tutti, nel loro insieme, continui stimoli, a volte strutturanti, a volte destrutturanti, senza polarità ferme e certe: ecco allora che alcuni giovani e meno giovani emigrano da terre lontane per studiare, per lavorare, per accasarsi, altri per cercare altrove nuove case e nuovi lavori, in sintesi: nuove patrie; altri, approfittando di occasioni come l'Interrail Pass o il Programma Erasmus, attraversano confini labili sentendosi cittadini dell'Europa e del mondo. Nulla è statico, le molteplici identità si contaminano, si mischiano, si confrontano e si sfidano nello stesso paesaggio, sullo stesso territorio. La correlazione di uno stato di disagio con l'armonia del paesaggio mostra forse una lettura non approfondita, incapace di comprendere il senso di un ritirarsi da un intorno sociale che non ha saputo essere aperto e solidale, provocando alienazione o emarginazione o espulsione. In questo senso la parola 'conflitto' mi appare ambigua, e distante dalla lettura marxista iniziale.
Più volte avevo provato a far riflettere i miei studenti richiedendo loro una lettura del paesaggio attraversato nei percorsi quotidiani casa e scuola; avevo pensato di mostrare con fotografie o filmati i percorsi di ingresso in Milano, con le loro specializzazioni funzionali apparentemente così disordinate. Tutto sommato quello che più mi colpiva era il paesaggio visto attraverso il finestrino di un treno, così lontano e inafferrabile, ma attraverso cui comunque era possibile cogliere il passaggio da una regione all'altra, dalla periferia di una città all'altra. Nel correggere i loro lavori, mi accorgevo che la memoria giocava sul ricordo di un'emozione, di una fase della vita, legando il ricordo alla alle percezioni dell'ambiente -il paesaggio- e che gli studenti non erano in grado di accorgersi quanto quel che vedevano potesse avere un senso nella loro memoria o nell'indirizzare la pianificazione: erano giovani e a loro non apparteneva ancora un discorso profondo sulla memoria e faticavano a ripensare l'urbanistica. In altri casi, tra gente con anni di esperienza, mi accorgevo quanto fosse difficile ammettere che l'ambiente del presente non corrispondesse più, ma mai avrebbe potuto corrispondere, a quello di un tempo che fu. Così è talmente difficile che trasferire a altri quel che vediamo ora e i sentimenti che proviamo che nessun sistema "oggettivo", tanto meno la fotografia che oggettiva non è mai, può aiutare, perché è priva di quell'emozione della descrizione che solo la poesia può dare. Se su questo piano non ci restano che la poesia e il romanzo, le risposte ai cambiamenti delle società e della biosfera, per non essere preda del fatalismo, devono essere ricercate sul piano scientifico e sul piano tecnologico. Ai cambiamenti in atto le risposte al divenire dell'urbanesimo forse si possono trovare in nuovi rapporti tra città e campagna, tra regioni urbane e sistemi urbani: per noi, in questo continente europeo, le risposte non possono che trovarsi nell'apertura e nella conoscenza, negli scambi e nelle contaminazioni. Sarà compito della politica e di una nuova educazione alla cittadinanza e alla partecipazione l'evitare derive omogeneizzanti e il perseguire l'ammodernamento infrastrutturale. I sistemi urbani crescono, si interfacciano, si allacciano, ma il fine ultimo di queste trasformazioni, di queste libertà sul territorio, non può essere difeso da singolari interpretazioni localistiche e identitarie del paesaggio, né può essere lasciato all'improvvisazione. Il neoliberismo e la globalizzazione sono assai più forti.
Nel tentativo di descrivere il paesaggio ci accorgiamo che questo è composto da una moltitudine di paesaggi, la cui lettura, e quindi la sua stessa rappresentazione, dipende fortemente dal sapere dell'osservatore; se la nostra sensibilità fosse sufficientemente sviluppata, ci accorgeremmo ben presto quanto questa moltitudine di paesaggi, queste tessere di un mosaico vivo e complesso, continuino a cambiare, non solo per le diverse luci del giorno e delle stagioni, ma nella loro intima essenza, nel loro divenire tra organizzazione, stabilità e decadenza e che quel loro mutare è un continuo passaggio da uno stato all'altro che coinvolge il mondo fisico e il mondo vivente, ciascuno mosso da un incessante lavorio di forze eterogenee, tutte agenti su livelli spazio temporali diversi. In questo rimescolamento continuo e caotico si manifesta sempre più dominante l'azione umana. I discorsi sul "salvare il paesaggio", con questo o altri termini simili, per quanto ricorrenti non sono affatto l'espressione di una cultura generale, ma formule su cui sarebbe errato costruire ipotesi generali. Il paesaggio, e di conseguenza la pianificazione del paesaggio, richiede la combinazione di più letture, quella della soggettività e dell'esperienza urbana (come non ricordare David Harvey o Henri Lefebvre?) e quella delle scienze fisiche e biologiche della Terra. In questa difficile lettura potremmo trovare un senso ai messaggi nascosti nella moltitudine dei paesaggi, che ci bisbigliano qualche cosa sulla riduzione delle specie e sullo sfruttamento delle risorse naturali, o che ci urlano sulle migrazioni diseguaglianze e guerre, sulle siccità e gli eventi catastrofici ricorrenti; forse attraverso questi studi potremmo capire come adoperarci per recuperare quanto possibile di quell'equilibrio metastabile che governò per alcune migliaia d'anni la biosfera e che permetteva la vita così come l'abbiamo conosciuta, evitandoci nefaste sorprese, e dando finalmente un senso nuovo alla politica. Questo significa prenderci cura della Terra per la nostra sopravvivenza, almeno finché sarà possibile, finché il Sole risplenderà su le sciagure umane.
Luca P. Marescotti
Note 1) Si vedano: European Conference of Ministers Responsible for Spatial/Regional Planning, Déjeant-Pons 2010, Déjeant-Pons 2017. 2) Si veda prima di tutto Antrop 2005a. A seguire: Antrop 2005a, Antrop et al. 2004, Eetvelde, Sevenant, Velde 2009. 3) Jackson, I. Zube 1970, Meinig 1979, Horowitz, Jackson 1999. 4) Observatori del Paisatge 2019. 5) Juan Nogué et al. 2016. 6) Juan Nogué et al. 2016, p. 32. 7) Ivi pp. 50-51. Nel testo si osserva peraltro che l'estensione oltre i confini nazionali si trova in contrasto con le altre metodologie che operano a scale più piccole. 8) Ivi, pp. 52-53. 9) Ivi, p. 54. 10) Ivi pp. 49-50 e 140. 11) Ivi, pp.62-64. 12) Generalitat de Catalunya 2006. 13) si vedano i lavori di Frederick Bradley sul paesaggio, improntati alla divulgazione, senza cedere a superficialità, iniziando da Bradley 2011. 14) Joan Nogué 2017, p. 249. 15) Ivi, pp. 250-257. 16) Gabellieri, Pescini 2015. 17) Alla magnifica invenzione di Vernon Lee (Lee 2007) va data la giusta dimensione, quella poetica. 18) De Varine 2005. 19) Prigogine and Stengers 1999. 20) Sul paesaggio nella letteratura classica si vedano: Giangoia 2012, Berti et al. 2010 e Mandile 2010.
Riferimenti bibliografici
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N.d.C. - Luca P. Marescotti, architetto, professore associato di Urbanistica in quiescenza, ha insegnato al Politecnico di Milano, alla Scuola di Specializzazione di restauro dei monumenti e alla Scuola di Specializzazione in beni architettonici e del paesaggio. Tra i suoi interessi principali di ricerca ci sono la teoria dell'urbanistica, i modelli ei criteri di valutazione, la cartografia e sistemi informativi geografici. Ha fatto parte di commissioni di Ateneo per la diffusione dell'informatica, è stato responsabile scientifico per i Progetti Finalizzati Trasporti del CNR e ha collaborato con università, società industriali, consorzi universitari e pubbliche amministrazioni per consulenze e ricerche sui trasporti, sui beni culturali, sull'informatica nell'istruzione.
Tra i suoi libri: con M. Alberti, L. Bagini, M. Puppo, Sistemi informativi ambientali e urbanistica, Il Rostro, Milano, 1995; Città tecnologie ambiente, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2004; Urbanistica. Fondamenti e teoria, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008.
Pubblicazioni in Researchgate.net e Academia.edu: (a cura di) Insegnare l'urbanistica come scienza. Conoscenze e tecnologie appropriate per la sostenibilità e la resilienza nell'urbanistica (2016); L'urbanista e il Piccolo Pianeta (2017); La città globale e le menti collettive tra organizzazione e auto-organizzazione. Quattro conversazioni (2017); Paesaggi (2018).
N.b. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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