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Il libro di Gabriele Pasqui - La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018) - propone tre gruppi di testi: 'vivere e fare insieme', 'autoriflessione sulle pratiche', 'insegnamento e ricerca universitaria'. La sequenza lascia intravedere un percorso accidentato e stimolante che dalla città come luogo e tempo delle differenze approda ai temi della formazione e della ricerca. L'autore si chiede se nella città del 'pluralismo radicale' vi siano possibilità di con-vivenza e di produzione di pubblico, se sia possibile costruire una nozione urbanistica di spazio pubblico, con quali strumenti di riconoscimento e attribuzione di significati. In questa ipotesi cerca di collocare il progetto urbanistico come pratica abduttiva e di sperimentazione cognitiva.
La città è luogo e tempo delle differenze, creatività e incubatore di esternalità nell'accezione più ampia. Si presenta così non solo per le sue morfologie e i suoi funzionamenti, per densità e contiguità delle relazioni sociali (radicalmente modificate dalla rivoluzione digitale), ma anche per il modo in cui viene rappresentata e interpretata. Il 'plurale' della visione naturalista o modernista, descritto da presunte 'evidenze', è molto diverso dal 'plurale' della visione umanistica e ancor più diverso da quello restituito (o restituibile) dalla visione ermeneutica. Quest'ultima, com'è noto, si fonda su pratiche dialogiche vissute, non solo aperte e curiose, ma interessate alla differenza e ai suoi significati. Al cosiddetto 'pluralismo radicale' contribuiscono almeno due 'tensioni' o forze: quella contenuta nell'interazione sociale e quella generata dalla sua interpretazione. La componente 'intenzionale' nelle interazioni (spinta da aspirazioni, ambizioni o da altre ragioni che l'essere-in-comune facilita) è ridotta rispetto all'insieme degli 'stimoli' e ciò rende le eventuali 'istanze' imprevedibili e difficilmente attribuibili a 'spazi di relazione'. A definire la relazione non sono le istanze in sé (non lo sono certo aspirazioni e ambizioni alla base delle 'tensioni'), ma la consapevolezza o la riflessione sui possibili nessi che il linguaggio aiuta a cogliere e denominare: associazione, somiglianza, affinità, contraddizione, antitesi, rivalità, ecc. Servirebbe un pensiero di (su) questi nessi… Uno spazio di relazione ha valore ipotetico, è un'ipotesi che può emergere sperimentando la relazione (vivendola) o classificandola in una pausa di osservazione, come se la guardassimo da una posizione esterna o 'terza'. Sperimentando la relazione si possono vivere conflitti più o meno severi, soddisfazioni o delusioni, mentre classificandola se ne rappresenta la natura, l'intensità, la durata, magari con qualche accento sentimentale. Gli spazi di relazione si creano continuamente, sono compresenti, si accavallano: ciò rende difficile 'viverli' e complica il loro riconoscimento come 'spazio pubblico'. La definizione di pubblico può essere così 'depotenziata' in tre modi. Al livello di interazione: è pubblico il solo fatto di essere (trovarsi) nella interazione, di essere compresenti. Al livello di istanza: è pubblico ciò che l'istanza esprime in termini di relazione. A livello di ipotesi sperimentale o classificatoria: è pubblico ciò che è vissuto o rappresentato come relazione, come base costruttiva di 'sfondi', direbbe l'autore. Sfondi che non possono dare alcuna certezza. E si potrebbe continuare, forse all'infinito, con gli usi dell'ipotesi e le implicazioni che ne derivano.
Queste brevi considerazioni aiutano a comprendere (credo) la radicalità del pluralismo che non sta tanto nel conflitto, in una sua ridefinizione o irriducibilità (fenomeni derivati e che possono emergere tardi rispetto a provvisori inizi), ma nella difficoltà di definire lo stesso spazio di relazione e quindi lo spazio pubblico. Questo accade normalmente, ma accade ancor più in pratiche 'guidate' o 'simulate' in cui l'artificialità del contiguo (con il suo gradiente materiale/immateriale) impone una ulteriore compresenza o sovrapposizione, una sorta di layer aggiuntivo. La creazione di una occasione, di un evento o di un luogo di incontro, la stessa progettazione di un luogo 'pubblico' potrebbero produrre illusorie compresenze, 'allucinazioni' individuali e collettive direbbero Beau Lotto e Douglas Hofstadter, o stormi inerziali come evidenziano le mappe di Carlo Ratti. Tutto questo rende precaria la posizione del trittico urbanistica-progetto-formazione; richiede una notevole 'attenzione' al senso del 'vivere insieme in condizioni di pluralismo radicale' e, forse, una esperienza laboratoriale ancor più profonda di quanto 'registrato' nel Laboratorio di filosofia e cultura Mechrí di Carlo Sini.
Nonostante le difficoltà, l'autore cerca di dare forma al quesito di fondo e qui, più che nelle risposte, sta il suo merito maggiore. Il quesito è così posto: "come pensare la con-vivenza nella città assumendo la pluralità radicale delle forme di vita e l'irriducibilità dei conflitti che tale pluralità implica e genera alla relazione (anche agonistica) tra interessi diversi? Come pensare il cum della con-vivenza, le sue stesse condizioni di possibilità? " (pp.6-7). Il cum non riguarderebbe 'soltanto' il vivere, ma anche il fare insieme: what shall we do? direbbe T A Schwandt, in un discreto ritorno agli approcci practice-based (1).
Le difficoltà sarebbero da ricondursi ad almeno due ragioni. La prima è la sordità delle scienze umane alla "ingiunzione del cum", anche se l'ermeneutica, che a questa classe di scienze appartiene, mi sembra possa offrire una sponda fertile. Secondo l'autore il cum sarebbe "necessario se vogliamo comprendere le condizioni di possibilità trascendentali della convivenza" (p. 8). Ci si potrebbe chiedere: ma esistono davvero? Sono trascendentali anche in un'ottica non individualistica? La seconda ragione rinvia al ruolo fondante dell'agire individuale nella lettura dei rapporti sociali. La motivazione della cooperazione sembra emergere dalle 'differenze', da condizioni specifiche, più che da 'naturali' inclinazioni, anche se resta difficile motivare comportamenti cooperativi alla base del 'vivere bene'. È difficile dire che cos'è la cooperazione se non sappiamo che cos'è l'interazione e, ancor meno, la relazione. Come esseri viventi, e non soltanto come esseri umani, supponiamo di essere 'costitutivamente' disposti a mettere in comune, ovvero di essere 'attratti' (incuriositi) l'un l'altro, perché ci vediamo nell'altro (e qui ritorna l'ermeneutica). Ma cosa mettiamo in comune? E come? Se lo spazio urbano è spazio di relazione, luogo del possibile, inteso 'come disposizione e comparizione, com-presenza, in-comune senza condivisione' (p. 8) che cosa si mette in comune? L'esibizione? L'assenza di origine comune? Questo incerto mettere in comune si limiterebbe a spiegare le differenze, la 'dispersione e le disparità' come spiega J L Nancy (p. 9).
L'autore cerca conforto nei concetti di 'tensione' ed 'inerzia'. Prima che teatro, palcoscenico o 'posta di conflitti', la città viene intesa come manifestazione di tensioni ed inerzie: come insieme di tensioni e di forze con dinamiche ed esiti incerti, ma anche come inerzia che, con la sua 'fisicità', con i suoi gradienti di 'fissità/movimento' seleziona, interpreta e deposita localmente i potenziali delle tensioni. In questo gioco mi sembra maturi una interpretazione in cui il pragmatic turn interseca il naturalismo, offrendo spunti interessanti. Ma torniamo alle tensioni, al loro diverso apparire come ambiente connotato, come situazione di ansia o di contrasto più o meno latente; differenza di potenziale, sforzo, sollecitazione e deformazione, e così via. Le fonti di questi stati e di queste dinamiche sono le più disparate e difficili da comprendere, ma sono comunque alla base del pluralismo (dei valori). Anche in assenza di agency, ne costituiscono il supporto vivo. Tuttavia, il pluralismo diventa tale nella relazione fra soggetti (a diversa intenzionalità) e ancor più con l'autoriflessione sulle relazioni. Le pratiche sono l'esito di combinazioni (non solo statistiche) di tensioni, interazioni, relazioni e autoriflessione che possono irrobustire o indebolire convincimenti, interessi, valori, credenze. La combinazione non è lineare: è invece ricorsiva, nel senso che l'autoriflessione può modificare le relazioni, queste possono creare nuove tensioni a loro volta occasione di interazione. L'inizio sta qui, non solo nella relazione che, secondo il pragmatismo di fondazione, dovrebbe 'istituire' i soggetti. Forse l'autore intende questo quando sostiene che il "pluralismo radicale sospende la centralità del conflitto" (p. 20): il conflitto è pratica che matura e si connota in questa combinazione, dove 'soggetti a' diventano 'soggetti di' e viceversa. Soggetti a tensioni, soggetti di (e a) interazioni e relazioni, soggetti più o meno disposti alla riflessione e all'apertura.
Le declinazioni del conflitto come discordia, lotta di classe o dissidio si presentano come declinazioni contingenti, con diversi gradienti di reciproco riconoscimento e condivisione. Riconoscimento e condivisione sono generalmente asimmetrici ed è questa asimmetria (linguisticamente disomogenea) che connota il conflitto, aggiornandone le ragioni, trasformando una vicinanza 'statistica' (fisica o digitale che sia) in contatto di senso, un con-dividere spazi e attività in condivisione di senso e, forse, di identità (p. 25). Ribadendo l'importanza del pensiero del 'con', l'ontologia del cum indicata da J L Nancy, l'autore sembra evidenziare (anche se in modo non esplicito) come quel cum espunto dall'individualismo metodologico possa essere ribadito da una ermeneutica da molti osteggiata e derisa perché fondamentalmente 'eversiva'. La comprensione delle diseguaglianze potrebbe prendere forma anche da qui. In sintesi, lo spazio urbano non è quindi solo spazio di relazione, né di mera tensione, ma spazio di questa combinazione fra tensioni, interazioni, relazioni e autoriflessione. Esso oscilla continuamente fra 'comunità senza origine comune' (che é fondamento del 'comune') e conflitto più violento sulle differenze percepite come diseguaglianze. Questa combinazione non può costitutivamente ambire alla quiete.
L'autore è persuaso che il "pensiero delle rive, dei loro bordi e dei loro limiti" proposto da J L Nancy "possa dare forza alla riflessione sulle tensioni urbane, affrancarle dalla questione del conflitto e rimodularle a partire dalla costituzione dello spazio della città contemporanea come trama dell'accadere singolare plurale della con-vivenza senza comunità, della compresenza senza condivisione, della possibilità senza senso precostituito" (p. 27). Un'operazione utile almeno per due ragioni. In primo luogo può aiutare a comprendere ciò che sta alla base dei conflitti, anche se questa base è di difficile interpretazione. In secondo luogo, aiuta a rappresentare possibili associazioni, anche semplici evidenze empiriche, fra mappe delle tensioni e mappe dei conflitti. Associazioni ed evidenze che aiutano ad esplorare la complessità dei domini urbani e territoriali.
Queste considerazioni introducono alla riflessione sulla nozione urbanistica di spazio pubblico, sui suoi significati e sulla sua genesi. La riflessione sulla relazione complessa fra comune-pubblico-privato ha da tempo privato lo spazio pubblico del suo 'statuto speciale' con implicazioni giuridiche ed economiche rilevanti, anche se non ancora colte nella loro interezza. Le nozioni dello spazio pubblico (sp) ne vengono arricchite. Si tende ad andare oltre la definizione patrimoniale e di policy che considera sp come "quantità e qualità di beni di carattere pubblico". Risulta parziale anche il riferimento ai diritti fondiari, alla regolazione, ai temi della trasformabilità, della fiscalità e degli standard. Sp incontra qualche difficoltà (anche se le premesse sono condivisibili) come tema del disegno urbano, del progetto urbano come "progetto di suolo". Nel 'progetto di suolo' di B Secchi l'armatura fisica, oltre che base concettuale, è costituita dagli spazi aperti, dagli spazi collettivi, dalle relazioni tra cose e soggetti. È una impostazione che aiuta il disegno urbanistico, ma che obbliga alla reinvenzione continua di sp, interpretando le frontiere fra individuale e collettivo, connotando lo spazio collettivo in termini di bene comune, una categoria giuridica antica e innovativa. In questa connotazione resta una sfida 'radicale' e quindi eversiva. In termini più tranquillizzanti, e secondo un'ottica 'positiva', ciò può essere visto come 'aspetto strutturalista, sinottico, comprehensive, narrativo dell'attività di pianificazione' (p. 31). Può assumere rilevanza nell'ambito dello stesso 'pluralismo radicale' se si considera come processo dialogico, comunicativo, che dal 'comune' fa emergere regole e progetti. Questa prospettiva è forse più coerente con la dimensione analitica, minuta, alla continua ricerca di 'tracce' negli spazi e nei tempi della contemporaneità.
Servono, quindi, nuovi strumenti operativi per la produzione di pubblico, partendo dal riconoscere come si genera, che significati acquisisce e a che scopi serve. E qui si ritorna alla interazione sociale. Per l'autore, "la forma di interazione […] all'origine del processo di produzione dello spazio pubblico può essere definita 'impolitica'. Essa è impolitica perché riconosce l'irriducibilità della società allo Stato, e dell'interazione sociale (anche conflittuale) alla domanda sociale. Ed è impolitica (extrapolitica) perché assume radicalmente il carattere plurale della società, e dunque la sua irriducibilità alla comunità politica' (pp. 35-36). A mio avviso questa affermazione è discutibile perché: a) l'interazione è una delle componenti della combinazione di tensioni, interazioni, relazioni e autoriflessione; b) la produzione di spazio pubblico non è solo esito di interazioni politiche incapaci di (o indifferenti a) cogliere le differenze; c) l'irriducibilità della società allo Stato è una 'potente' forma di critica e di resistenza che enfatizza il 'comune' come bene rivale e non esclusivo, ma soprattutto come pratica di commoning; d) il carattere plurale della società è una pre-condizione alla formazione di comunità politiche. L'origine del processo di produzione dello spazio pubblico non mi sembra impolitica anche per la presenza di 'gradienti' forniti dalla combinazione. La stessa 'buona disposizione' di PL Crosta può emergere da questi gradienti (da dove altrimenti?) ed è in qualche modo 'politica', oltre che presentarsi come apertura di credito all'ermeneutica (anche se nessuno sembra accorgersene). In questa prospettiva si potrebbero considerare anche i 'conflitti di riconoscimento' di A Pizzorno "nei quali le parti non appartengono al medesimo sistema di relazioni ed entrano nel conflitto mettendo in gioco (e al tempo stesso puntando a farsi riconoscere) identità non negoziabili, che sono esse stesse costituite e/o rafforzate nei conflitti" (p. 37). È come se alcuni giocatori pretendessero di giocare a cricket con le regole del baseball. Considerazioni analoghe varrebbero per "diversi regimi discorsiv"' (à la Wittgenstein, per intendersi) secondo i quali sei nell'interazione se la senti, la vedi e ne parli, se ti chiedi come ci sei arrivato e se disponi di un linguaggio 'minimo'. Non basta comparire. Il campo in cui avviene l'interazione sociale è identificabile sulla base della combinazione che è anche apertura e conversazione, come evidenzia l'esercizio autoriflessivo e auto-bio-grafico nell'ambito delle attività del Laboratorio Mecrí. Nel Laboratorio si effettuano interessanti 'prove' di riconoscimento del 'pubblico': introducendo il tema dei 'linguaggi in transito', guardando all'urbanistica come gioco di pratiche composite, riconoscendone il senso inerziale e incrementale, cercando di esibire 'pratiche in azione'. Come sostiene C Sini (riconosciuto maestro dell'autore) "ogni transito è un esercizio esemplificativo" (p. 46), in cui si cerca di sospendere i contenuti espliciti del sapere in azione "provando a sorprenderne l'evento". L'evento potrebbe restituire contenuti diversi da quelli derivabili dal sapere in azione, evidenziando (per differenza o in modo controfattuale) quanto lo stesso linguaggio possa contribuire alla definizione di pubblico. Qui, mi sembra, stia la fertilità del concetto di 'linguaggi in transito'.
L'urbanistica, lungi dall'essere disciplina o apparato disciplinare (nonostante le discutibili codifiche accademiche, ministeriali e giuridiche), si presenta come "campo di pratiche" in azione, situate, dinamiche e difficilmente classificabili. La stessa pianificazione (di cui il piano è uno dei possibili esiti) si presenta in modi diversi. Può essere "piattaforma nello spazio di un progetto politico" (p. 52), attività amministrativa e tecnico-normativa, occasione per mettere in tensione il trinomio polity-politics-policy, banco di prova di agende locali, forma e modalità di contrattazione sociale, può paradossalmente assumere anche forme di anti-planning. In queste modalità si possono presentare diverse declinazioni di pubblico. Ma sono in gioco anche pratiche composite di scrittura, di parola, discorsive e non discorsive, istituzionalizzate o no; pratiche istituzionali intrecciate a pratiche sociali. Anche queste relazioni generano pubblico, nella forma di linguaggio, regole, protocolli, istituzioni. Non va tuttavia sottovalutato che da sempre le città hanno costruito i propri spazi pubblici senza regole esplicite pur partendo da reti di spazi pubblici fisicamente identificabili, da atti fondativi, simbolici o di ridisegno strutturale. Riuscire a interpretare queste dinamiche aggiuntive o sostitutive, la loro fertilità, può essere utile, come ricorda l'autore, ricorrendo a strumenti diversi, dalla thick description dell'antropologo C Geertz al teatro, dal cinema-documentario allo story-telling, fino all' utilizzo dei big data.
La componente inerziale si combina a quella incrementale nella produzione di pubblico. La prima rinvia a pratiche accumulate, dispositivi già messi alla prova, oggetti, "archivi di interazioni" e così via; la seconda si aggiorna nelle pratiche. Le due componenti possono rendere possibile il "vivere insieme", ridare senso a luoghi che lo hanno perduto in un quadro di pluralismo radicale: luoghi di diversità antropologiche, sociali e culturali. Possono ospitare una pluralità di mondi. Già qui si rileva un elemento interessante che, a mio avviso, andrebbe approfondito: la produzione di pubblico ha un valore intrinseco, non necessariamente orientato, e da questo valore ne derivano altri, più di tipo relazionale, come l'efficienza urbana, la complementarietà (o conflittualità) fra comune, pubblico e privato, la stessa opportunità di disegno e così via. Si attivano anche processi moltiplicativi, come la capacità di "acquisire pubblico", la sperimentazione di nuovi nessi "tra norma e vita", "tra forme e forze". Gli spazi pubblici sono "spazi che contano", ma possono essere anche "spazi di sofferenza", in cui i contrasti fra istanze, bisogni, domande e risposte si fanno più pressanti e vivi. Ma la produzione di pubblico, se colta nelle profondità del tempo, ci accompagna fino ai racconti di fondazione e ai suoi miti, in cui assumono significato le relazioni fra cielo e terra, il concetto di limen, la griglia e altre regole. Qui l'autore ci ricorda come città e legge nascano insieme in un tentativo di "dare ordine" al pubblico, di elevarlo dall'interazione alla comunità e da questa alla società. Questa prospettiva fornisce criteri e chiavi di lettura utili per riscrivere la stessa storia della città e dell'urbanistica, in una oscillazione che attualizzerebbe lo stesso sforzo storico.
L'attività laboratoriale (e il secondo incontro in particolare) consentono di riflettere sull'urbanistica e le attività correlate come campo di pratiche. Si torna così all'autoriflessione (componente della combinazione) mediante una sorta di 'sospensione attiva', di 'sospensione nell'abitare la pratica'. Ma poiché siamo soggetti alle pratiche e non le dominiamo (pp. 57-58) l'operazione non è agevole: potrebbe diventare una fatica di Sisifo. Inoltre, le pratiche sono comprensibili in relazione ad altre pratiche (la 'pratica pura' è un ossimoro) e ciò rende costitutivo del fare urbanistica "l'intreccio tra attività tecniche, apparentemente neutrali rispetto ai conflitti, e pratiche di interazione sociale conflittuale" (p. 60). Il mandato sociale del fare urbanistica si presenta come esito di interazioni le più varie, a volte di contrattazioni anche complesse con una pluralità di committenti formali e informali. Poiché è difficile esibire 'pratiche in azione' (si tratterebbe, infatti, di una rappresentazione di una rappresentazione) l'autore propone tre direzioni: "il riconoscimento della natura composita e inesauribile di ciascuna pratica; la sorveglianza sul 'potere invisibile" a partire dal quale le pratiche veritative dei saperi si danno nelle loro specifiche configurazioni; l'attenzione ai discorsi e alle scritture plurali che abitano le pratiche e in virtù delle quali esse fanno catena, costituendosi in archivio" (p. 62). A queste direzioni l'autore affianca tre figure: a) il mimo, b) la sospensione ("esercizio che mette tra parentesi i contenuti dei saperi per provare a esibire il loro evento, il loro transito (nella) verità loro propria" (p. 62), e c) la figura etica della trascrizione che, nell'inevitabile tradimento, diventa un "possibile esercizio di una diversa etica dei saperi", un modo per discutere come abitiamo i nostri saperi.
Con la sospensione attiva si pone attenzione al 'contesto' e non ci si limita alla contemplazione sul cosa si fa: si sospende lo scopo, l'oggetto del sapere, guardando la conoscenza nel suo farsi, come se scopo e oggetto fossero essi stessi esiti della combinazione. Se sospendo scopo e oggetto della pratica, e osservo il suo accadere, mi posso accorgere che abitare le proprie prassi non richiede solo consapevolezza o illuminazione (p 84), ma una non comune capacità di cogliere la ristrettezza dei discorsi, la loro natura strumentale, insieme alla sensibilità dei corpi (esposizione passiva e relazione attiva). Va da sé che in questo atteggiamento di sospensione la filosofia non ha alcun privilegio, né lo pretenderebbe l'ermeneutica verso cui la sospensione tende. A rendere più fertile la sospensione attiva può essere una visione non antropocentrica della città e dell'ambiente. Ma ci si chiede: con la diversità dei linguaggi degli esseri viventi si tratta di una dilatazione vera o strumentale? E quali implicazioni emotive, comportamentali, ma soprattutto etiche, ne derivano, ad esempio in termini di diritti alla città evidenziando chi lo dice (o non lo dice), ma anche come si dice o come si resta in silenzio? Le direzioni e le figure citate sono messe alla prova dall'atelier: atelier come "groviglio di pratiche diverse" che spinge verso una "pratica dei saperi" (pp. 72-73), che mette alla prova il discorso scientifico scoprendone 'intrecci' e 'impurità', 'le forze che muovono discorsi, la loro dimensione retorica originaria' (p.78).
A questo punto l'autore si chiede come questo esercizio possa incidere sui 'processi' generali, possa orientare in qualche modo la progettazione: i suoi tempi non lineari (dall'incubazione all'attuazione), i pattern entro cui si colloca, i contenuti, la sua stessa definizione, i suoi risvolti pratici. L'autore riconosce il progetto come "evento che de-cide, che taglia come una lamina senza tempo il continuum della catena degli accadimenti' (p. 94). È una operazione 'discreta'. Ma il progetto è soprattutto una 'protensione dall' "avere da", che costituisce la sua provenienza, nell' "avere già". C'è passato nel futuro, c'è futuro nel passato. Per questo l'azione progettuale è anche rottura del continuum, nel ritmo della provenienza e della destinazione. Per questo il futuro del progetto è anche (non solo) 'futuro anteriore': i suoi tempi sono innumerevoli, il progetto si dilata indietro e in avanti, come evidenzia L Mazza per il piano. Ciò fa sì che la progettazione sia "rimemorazione e prefigurazione, anticipazione sperimentale del futuro" (p. 94). Il progetto non è immagine di uno stato futuro, ma "orientamento all'azione"; è sperimentazione, "un'attività esplorativa e interpretativa, contestuale e radicata nella propria contingenza e finitezza, attenta alla dimensione occasionale ed evenemenziale messa in gioco in ogni apertura al futuro, permeabile alla sorpresa e agli effetti non attesi" (p. 95). In questa prospettiva è agevole riconoscere il progetto come pratica abduttiva, pratica che stravolge il rapporto induttivo e deduttivo fra regola, caso e risultato. Secondo B Secchi il progetto potrebbe essere concepito come sperimentazione cognitiva: "attraverso la prefigurazione di possibilità alternative vengono immaginate biforcazioni, alternative plurime, ma anche i possibili effetti di inciampi e incidenti di percorso, che il progetto anticipa mettendo alla prova insieme lo spazio e l'intenzione progettuale, i vincoli e le possibilità dei luoghi e dei processi" (p. 97). Il progetto è anche una peculiare concezione di evento. Occorrono quindi strumenti nuovi in grado di cogliere la "progettazione come un grumo di pratiche di diversa natura, tra loro variamente intrecciate, ciascuna orientata al proprio oggetto e insieme presa in altre pratiche, che costituiscono insieme soggetti e oggetti delle pratiche stesse" (pp. 97-98, con riferimento a C Sini di Il pensiero delle pratiche). "D'altra parte, la prospettiva delle pratiche e l'assunzione del progetto come futuro anteriore chiede di ripensare il nesso tra tempo del progetto ed evento, ossia tra intenzionalità e occasione" (p. 98). Il progetto urbanistico, in particolare, cerca di rispondere ad 'occasioni' (quanto offrono oggi il dismesso e i lasciti di cicli territoriali conclusi?), affacciandosi a 'finestre di opportunità' create da eventi locali e globali: occasioni di 'generazione di pubblico' con alterna consapevolezza dei 'limiti'.
La progettazione, in prospettiva realistica ed esplorativa (vedi Theory of inquiry di Dewey), si rapporta a prefigurazione spaziale e previsione, alla circolarità fra le due dimensioni. La previsione assume il significato di "messa alla prova delle conseguenze possibili", per cui "il tempo futuro del progetto non diventa uno stato di cose finale, ma un continuo lavoro sugli effetti potenziali" (p. 99), sugli 'spunti di pertinenza', un esercizio valutativo e di design tout court. Una trattazione analitica e verificabile del progetto così inteso va oltre i noti protocolli strumentali o sostantivi finalizzati alla valutazione delle pratiche progettuali rispetto a teorie, sapere positivo, potere e significati del progetto, sua rilevanza sociale e così via. Il tempo aperto del progetto opera con scenari intesi come orizzonti di plausibilità e non di verità. Sembra utile ricordare che nelle pratiche di scenario writing si opera in domini (almeno) tridimensionali in cui proiezione, previsione e auspicio (in parte assimilabile alla prefigurazione definita dall'autore) configurano un unico spazio ontologico. Questo spazio ammette diverse semantiche dovute a possibili concezioni e traiettorie di proiezione, previsione e auspicio (prefigurazione), alla circolarità fra le tre dimensioni. Entrati da tempo in crisi gli approcci causali dei modelli previsionali, solo in parte sostituiti da algoritmi associativi o classificatori di diverse tipologie di dati, gli scenari rinviano ad orizzonti di plausibilità, possibilità evolutive, biforcazioni, paradossi e dilemmi. Non limitandosi a configurazioni di stato, essi riconoscono una certa importanza alle pratiche abduttive e alle sperimentazioni cognitive (pp. 99-101). In questa accezione pragmatista, l'operazione di scenario writing diventa sperimentazione sociale e apertura all'evento, conversazione sociale e prefigurazione intenzionale.
L'ultima parte del testo evidenzia alcuni problemi connessi alla formazione e alla ricerca accademica in architettura e urbanistica, assumendo come riferimento la Valutazione della qualità della ricerca (Vqr) 2011-2014 nell'area Architettura (Gev08a). Il salto rispetto alle altre parti del testo è evidente, ma le nuove figure di studenti e le loro condizioni sociali da un lato, il cambiamento delle condizioni generali in cui avviene la ricerca universitaria, dall'altro, enfatizzano 'distanze' incolmabili rispetto alla città, ai saperi e alle pratiche. Queste distanze fanno pensare e sono preoccupanti. Del resto, il titolo della parte terza 'Università (im)possibile' non si apre con una nota di ottimismo. Ci si chiede, tuttavia, se in condizioni generali migliori e con diverse figure di studenti, la ricerca e la formazione sarebbero in grado di intercettare saperi e pratiche utili per "vivere insieme nella città plurale". Siamo certi che aumentando i finanziamenti alla ricerca di base o in c/terzi, riducendo i vincoli di natura regolativa e burocratica, riequilibrando i rapporti fra SSD, fra ricerca individuale e collettiva, riscattandosi da logiche di ricerca esogene e da valutazioni bibliometriche, attivando percorsi di research by design e contenendo i rischi di marginalizzazione di significativi profili, pratiche e prodotti, ecc. si riesca a superare il 'divorzio' tra università e cultura, a riconoscere 'culture del progetto' aggiornate ai temi salienti che oggi gli insediamenti umani pongono a livello planetario?
L'autore riconosce alcuni terreni di lavoro rilevanti e urgenti che non possono essere ignorati e propone dieci tesi partendo dal fatto che l'Università non è nell'agenda-paese. Ma per costruire uno scenario coerente con quanto il testo indaga e propone sarebbe utile mettere in opera terreni di lavoro e tesi in quella che il Derrida di Università senza condizioni (2001) definisce 'controffensiva inventiva' nelle pratiche. È un invito ad una universitas dimenticata, ma soprattutto alla critica di agende imposte con meccanismi di gestione impropri, un invito alla rivalutazione di pratiche formative in grado di opporsi all'omologazione neoliberista. Esse costituiscono la prima e più importante missione, ancor prima della ricerca: con esse si può lavorare sui linguaggi e sui segni, sperimentare spazi inediti di riflessione e di pensiero. Da qui potrebbe forse nascere anche qualche spunto per vivere insieme nella città del pluralismo radicale.
Domenico Patassini
Note 1) T A Schwandt, 'Acting together in determining value: A professional ethical responsibility of evaluators', Evaluation, vol. 24 (3), 2018, pp. 306-317.
N.d.C. - Domenico Patassini, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica allo IUAV di Venezia, è stato preside della Facoltà di Pianificazione della stessa università. Attualmente insegna Cultura della valutazione e fa parte del Collegio docenti del dottorato in 'Nuove tecnologie: territorio e ambiente'. È stato presidente della Associazione Italiana di Valutazione (AIV) ed è tuttora membro del comitato editoriale della rivista "Rassegna Italiana di Valutazione" e della relativa collana edita da FrancoAngeli. Ha svolto attività professionale come pianificatore e come formatore in Italia e all'estero, in particolare in Africa.
Tra i suoi libri: con M. Reho (a cura di), Problemi e strumenti di governo regionale del settore agricolo (Commerciale Venezia, 1981); con M. Reho, Assetto territoriale e mercato del lavoro agricolo (IUAV Daest, 1982); con M. Torres, Segmentazione del sistema abitativo (IUAV Daest, 1983); con L. Vettoretto e M. Torres, Transazioni immobiliari 1979-1981 (IUAV Daest, 1983); con M. Reho (a cura di), Geografia delle trasformazioni nel mercato del lavoro agricolo (IUAV, 1984); con C. Diamantini, Addis Abeba. Villaggio e capitale di un continente (FrancoAngeli, 1993); con C. Diamantini (a cura di), Urban Ethiopia: evidences of the 1980s (IUAV, 1996); con C. Giacomini (a cura di), Venezia su ruota? Logiche valutative in un'esperienza didattica (IUAV, 1996); con S. Ciurnelli (a cura di), Analisi e scenari di mobilità a Bassano del Grappa (IUAV, 1997); con I. Jogan (a cura di), Procedure digitali per la pianificazione ambientale (Il Rostro, 2000); con D. Miller (a cura di), Beyond benefit cost analysis: accounting for non-market values in planning evaluation (Ashgate, 2005); (a cura di), Esperienze di valutazione urbana (FrancoAngeli, 2006); con S. Moroni (a cura di), Problemi valutativi nel governo del territorio e dell'ambiente (FrancoAngeli, 2006); con I. Jogan (a cura di), Lo spazio europeo a livello locale (INU, 2006); con A. Gattei, E. Orlandin, M. P. Robbe (a cura di), Dalla legge regionale n. 61 del 1985 alla nuova legge urbanistica regionale n. 11 del 2004. Elementi per una valutazione dei processi di pianificazione (Regione Veneto, 2008); con E. Fontanari (a cura di), Paesaggi terrazzati dell'arco alpino. Esperienze di progetto (Marsilio, 2008); (a cura di), Contaminazione, rischio e stigma. Bonifica a Porto Marghera (Marsilio, 2011); con A Chemin, E Fontanari, Osservatorio sperimentale per il paesaggio del Canale di Brenta (Urban Press, 2012); Esplosione urbana in Africa (Urban Press, 2012).
Per Città Bene Comune ha scritto: Lo spazio urbano tra creatività e conoscenza (27 ottobre 2017); Urbanistica: una pratica più che una disciplina (14 dicembre 2018).
Del libro di Gabriele Pasqui oggetto di questo intervento si è discusso alla Casa della Cultura martedì 28 maggio 2019 nell'ambito della VII edizione di Città Bene Comune. Sul libro e le ragioni dell'incontro, v. anche: R.Riboldazzi, Gabriele Pasqui a Città Bene Comune 2019 (24 maggio 2019).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
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