Pier Carlo Palermo  
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OLTRE LA SOGLIA DELL'URBANISTICA ITALIANA


Commento al libro di Patrizia Gabellini



Pier Carlo Palermo


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In pratica, tali sono le difficoltà concrete che "rischiamo di dover includere l'amministrazione dell'urbanistica fra le missioni impossibili" (p.113). Forse, per i più giovani, le parole con le quali Patrizia Gabellini conclude questo suo libro - Le mutazioni dell'urbanistica. Principi, tecniche, competenze (Carocci, 2018) - possono richiamare, istintivamente, l'immagine movie dell'agente speciale che, solo contro tutti, affronta imprese inverosimili (sfidando anche le leggi della fisica) e riesce comunque a portarle a buon fine grazie a eroiche virtù e capacità eccezionali. Purtroppo l'associazione sarebbe assolutamente fuorviante: come sostegno tardivo a una concezione demiurgica dell'urbanista che è naufragata da tempo e irrimediabilmente. Io invece sono indotto a ripensare a una lettura giovanile - Maud Mannoni, Education impossible (Seuil, 1973) -: "educare, governare, curare: queste sono tutte missioni impossibili". Un motto di ispirazione freudiana che esprime un monito: non è possibile gestire queste funzioni per decreto e dall'alto. Chi è soggetto alle cure non può non essere parte attiva del processo. Chi esercita la funzione non può mai assurgere al ruolo di demiurgo. Questa immagine mi pare perfettamente pertinente al profilo di urbanista che Patrizia Gabellini disegna in questo libro. Come attore ispirato da buone intenzioni, ma oggettivamente debole e limitato, che prova a contribuire al corso di eventi complessi entro processi di interazione sempre incerti e controversi. Questa interpretazione concede qualche speranza. La missione è impossibile se intesa come atto demiurgico, ma resta intatto uno spazio, anzi il bisogno di un'azione disciplinare modesta e tenace, tesa - insieme ad altre forze ed istituzioni - a migliorare le condizioni urbane, ambientali e sociali.

 

Bisogno di urbanistica?
Ecco un'altra associazione spontanea, ma discutibile. Nessuno potrebbe negare l'umano bisogno di "fare città", come luogo di fertile convivenza e interazione delle diversità, né i requisiti essenziali di urbanità e sostenibilità degli ambienti di vita, e quindi la centralità dei temi dell'urbanism, nel senso più vasto del termine. Questa prospettiva, però, non implica la legittimazione di qualunque concezione disciplinare dell'urbanistica. Perché non è possibile sorvolare sul fallimento della figura dell'urbanista demiurgo, ma anche del "medico e giudice" di Luigi Piccinato, così come del sogno illuminista di Giovanni Astengo; né ignorare le difficoltà gravi che ha incontrato il movimento riformista a mio avviso più lucido e maturo emerso in Italia, teso ad "amministrare l'urbanistica" secondo la grande intuizione di Giuseppe Campos Venuti, ormai mezzo secolo fa. Di quale urbanistica abbiamo bisogno? Quale concezione della disciplina può offrire risposte ragionevoli e plausibili ai problemi urbani sempre incombenti? Il fatto che i problemi persistano non può diventare un alibi per qualunque autorappresentazione culturale e professionale. Né consente di ignorare le contraddizioni accumulate nel lungo periodo.

 

Cambiamento? No, mutazione
Le retoriche del cambiamento sono diventate una componente imprescindibile della condizione contemporanea. Purtroppo tendono facilmente al vaniloquio, come mostra il discorso politico dei giorni nostri: per la diffusione impudente dello spirito della post-truth e una propensione al consumo sempre più rapido di ogni tentativo di innovazione, come effetto collaterale, forse, di una consuming life incautamente celebrata. Questa tensione investe anche il campo dell'urbanistica? In effetti, la storicità dei ruoli e dei processi urbanistici dovrebbe essere un requisito obbligato: città e territori (e società) sono profondamenti trasformati rispetto agli albori del town planning. Sarà probabilmente il caso di ripensare qualche regola e strumento, anche se esiste ancora una componente ortodossa poco disponibile al cambiamento. La riflessione di Patrizia Gabellini indica una prospettiva diversa dal vaniloquio e dalla irriducibilità. Non solo mostra, con ogni evidenza empirica, che un cambiamento è in atto, ma ne riconosce la sostanza peculiare: si tratta, si tratterebbe di una "mutazione". Un concetto poco familiare per il linguaggio urbanistico (anche se Italo Calvino lo adotta nelle Città invisibili), ma indubbiamente impegnativo. Se le parole hanno un senso, questa scelta vuole indicare che alcuni caratteri identitari della disciplina stanno mutando, devono mutare. Con buona pace per i conservatori secondo i quali l'identità non si tocca, dovrebbe essere sempre applicata nel modo più fedele e cogente (nonostante le innumerevoli evidenze a contrasto); e per gli eclettici disposti a inseguire qualunque suggestione intellettuale pur di ritrovare un po' di visibilità pubblica (come se l'identità fosse un dato irrilevante). Sbagliano entrambi. La questione cruciale, io penso, è quali sono i caratteri identitari che vengono a mutare, per quali ragioni, con quali conseguenze. Questo libro ci offre indicazioni importanti.

 

Il senso della mutazione in atto
Ogni capitolo illustra una linea di innovazione. L'attualità e la rilevanza dei temi emergenti non è in discussione. Città-arcipelago, mixité, rigenerazione urbana, riciclo, resilienza e così via, sono questioni da tempo al centro della riflessione internazionale. Attenzione però. Si tratta di una semplice estensione del campo di interessi e responsabilità degli urbanisti, grazie a nuove addizioni rispetto a un nucleo tradizionale che rimarrebbe ancora una volta indiscusso? Oppure, come io penso, in gioco è una revisione sostanziale di alcuni capisaldi disciplinari, ormai inattuali e inefficaci? Mi sembra che nella varietà dei temi indagati dal libro sia possibile individuare un filo comune, che evidenzia un senso possibile del movimento. L'urbanistica, se non è nata, è diventata "arte dei presupposti". Infatti detta norme, disegna visioni, traccia schemi progettuali (sempre più labili peraltro). Cioè definisce premesse e condizioni per le azioni effettive di gestione/trasformazione del territorio che altri attori dovranno poi sviluppare, nei tempi e modi debiti. Ma le esigenze e i tempi della società contemporanea spingono in una direzione diversa. La rilevanza sociale di un'istituzione e di una disciplina si misura sempre più sulla sua capacità di azione effettiva. È in grado l'urbanistica di dare nuovi contributi direttamente operativi, legittimi ed efficaci, alle trasformazioni urbane? Cioè è possibile delineare un passaggio effettivo dalla cura dei presupposti all'azione che incide direttamente sulle pratiche reali? Ritengo questa sfida decisiva per le sorti future della disciplina.

 

Controtendenze
La sfida è complicata anche perché molti orientamenti attuali della politica e della cultura sembrano indicare una tendenza opposta. Trovo desolante la deriva - degna di un paese che non vuole affrontare problemi cronici, come il deficit di riforme, di produttività, di funzione pubblica, di alfabetizzazione, di legalità. Problemi di enorme rilievo sono trattati con una leggerezza indecente. Basta proclamare obiettivi o annunciare misure per sostenere che una grave criticità è stata risolta. Poco importa che i decreti attuativi siano generalmente tardivi e confusi, e spesso poco coerenti con le intenzioni dichiarate, e che il compimento delle azioni sia rinviato a tempi indeterminati. La retorica del cambiamento prevale sulla prova dei fatti. Non sono un'eccezione i rari tentativi di approfondire questioni controverse. Come nel caso dei costi-benefici delle grandi opere che recentemente ha suscitato un improvviso interesse, peraltro rapidamente sopito: per cinismo o sprovvedutezza, la politica ha presunto (o finto di credere) che una tecnica fragile e parzialissima come la cost-benefit analysis fosse in grado di dirimere questioni politicamente controverse. Quando da almeno mezzo secolo dovrebbe essere chiaro che questa tecnica funziona bene a supporto di scelte largamente condivise, ma suscita dubbi, dilemmi e ostacoli insormontabili in presenza di visioni e interessi contrastanti. Come tante altre tecniche, è eccellente per ratificare formalmente gli interessi prevalenti, ma si presta ad usi opportunistici e rischia facilmente l'inconcludenza.

 

Nuove speranze? A certe condizioni
L'urbanistica, invece, vorrebbe ora misurarsi con la prova dei fatti. Siamo sicuri che sia in grado di eludere i rischi appena delineati? Le considerazioni accennate sulla cost-benefit anaysis non possono valere, forse, anche per alcuni strumenti urbanistici tradizionali? Qualcuno si sente di sostenere che le trasformazioni urbane di Roma e di Milano oggi siano effettivamente guidate dai piani vigenti? Se un piano, a Roma, ha vent'anni di vita ed è stato realizzato per brani (ma non nelle scelte fondamentali), siamo sicuri del senso e della forza progettuale delle norme residue? E qual è la visione urbanistica per Milano? Lo scenario insensato tracciato dal sindaco Moratti è stato solo emendato (ragionevolmente) dal sindaco Pisapia. La conclusione è che la città procede senza una visione realmente condivisa, ma evolve, in sostanza, per effetto di politiche e progetti urbani. L'urbanistica è disposta a prendere atto di questa situazione? E quali contributi effettivi è in grado di offrire ai processi in corso? I temi di frontiera individuati da Patrizia Gabellini suscitano domande non dissimili. Si tratta di una varietà di pratiche reali, che mettono in gioco (anche) strumenti diversi dal piano tradizionale e dalle sue numerose rivisitazioni. Alcuni capisaldi disciplinari, come le nozioni di zoning, di standard, di organizzazione e forma dello spazio urbano, devono essere radicalmente reinterpretati. La mia conclusione è che gli esperimenti in corso potranno essere significativi solo se la disciplina saprà affrontare una serie di difficoltà o contraddizioni accumulate nel tempo. Non bastano le buone intenzioni, e l'attuale confusione intellettuale e professionale rischia di provocare effetti perversi (nel duplice senso: effetti non voluti, ma anche indesiderabili). Il libro di Patrizia Gabellini ci accompagna fino a una soglia. Condivido il tragitto, ma penso che sarà possibile procedere oltre solo nel rispetto di alcune condizioni: innanzi tutto, fare chiarezza su alcune ambiguità o incertezze ereditate.

 

Primo dilemma. Le regole si applicano
Certo, le regole si applicano. Ce lo ricordano continuamente giuristi e magistrati, e anche gli urbanisti della conservazione disciplinare. Ma la regolazione non è un problema? Le domande attuali di norme sono sempre più specifiche, diversificate, e richiedono spesso un certo grado di flessibilità. Comportano perciò difficoltà tecniche e costi politici crescenti. E soprattutto evocano un convitato (considerato) impresentabile: la discrezionalità. In Italia, politica e amministrazione preferiscono eludere il tema (comunque imprescindibile). Invece di sostenere la sfida in forme legittime, trasparenti e responsabili, meglio negare ufficialmente il problema, destinato poi a riemergere in forme opache se non collusive. Sento gli strilli, naturalmente: non si può concedere spazio alla discrezionalità in un paese afflitto da gravi deficit di legalità. Ma il rigore ufficiale non ha scongiurato effetti disastrosi, largamente diffusi. Perché il nostro paese non può aspirare a una condizione più civile, nella quale si riconosce potere discrezionale a una autorità legittima (che ne dovrà rispondere politicamente), come accade da tempo nelle democrazie più mature? E la disciplina deve continuare a inseguire la distopia di un urban code perfetto, invece di attrezzarsi per garantire procedure pertinenti di design review, in grado di selezionare progetti di trasformazione almeno decenti? Considero questa una battaglia di civiltà, per l'urbanistica e non solo.

 

Secondo dilemma. La trappola delle visioni edificanti
La visione è un'altra grande missione disciplinare, segnata purtroppo da notevoli fallimenti. In una prima fase, si è immaginato, senza troppa convinzione e comunque vanamente, di poter trasferire all'area vasta una forma di piano generale e prescrittivo. Poi, con grave ritardo (almeno vent'anni) si è tentato di trasferire in Italia modelli altrove già sperimentati: il piano di struttura nei primi '90, il piano strategico alle soglie del secolo. Senza trarre profitto, purtroppo, dalle esperienze già maturate. Così il piano di struttura è rimasto un esercizio diligente, ma sostanzialmente compilativo e tendenzialmente sinottico: non inutile, ma poco incisivo, tanto che alcune amministrazioni regionali hanno deciso di liberarsene, per legge. Il piano strategico ha suscitato entusiasmi ingenui o strumentali, una ventina d'anni fa, senza lasciare tracce rilevanti. Eppure si poteva comprendere fin dall'inizio che, per costituzione, quella metodologia poteva portare a visioni edificanti, dove tutti sono vincitori, ma non alla selezione effettiva di scelte prioritarie e politicamente costose (perché in quel processo gli attori non sono motivati a esplicitare le preferenze effettive). Ora la disciplina si trova di fronte a un dilemma: è il caso di perseverare con la formulazione di visioni edificanti, dove il costo politico è basso, ma la rilevanza è generalmente modesta (salvo qualche funzione retorica), oppure sembra necessario un impegno maggiore per la selezione e il coordinamento di grandi progetti realmente strategici per il loro impatto nello spazio e nel tempo? Interpretando la visione d'area vasta come lo strumento principe per il coordinamento verticale fra diversi livelli di governo (mentre la cura delle relazioni tra progetti e contesti sarebbe affidata alla urbanistica locale). Invece di continuare a privilegiare la molteplicità (irriducibile e inefficace) degli strumenti orizzontali di governo (mentre qualcuno vorrebbe persino rilanciare le province).

 

Terzo dilemma. Urbanistica delle politiche e del progetto urbano
Ai piani resta un primato nel nome del formalismo giuridico, ma le trasformazioni urbane oggi sono ampiamente governate da politiche e progetti. Forse dovremmo interrogarci sul contributo peculiare che la cultura urbanistica può offrire a questo tipo di pratiche. Com'è possibile trattare in modo incisivo i temi della rigenerazione, della sostenibilità, della resilienza, se questo nodo non viene affrontato? Chi vuole si continui ad esaltare il primato della pianificazione, ma si può auspicare che una parte almeno della disciplina intenda misurarsi con le nuove sfide. Anche perché il lungo corso delle esperienze ha insegnato che non regge la teoria modernista del "piano senza politica": ne è ben consapevole chi ha svolto esperienze amministrative. Alcune correnti disciplinari, se pur minoritarie, da molti decenni hanno mostrato la possibilità di una interpretazione del policy-making che sia critica e progettuale (non meramente gestionale); e hanno dato evidenza ad alcune criticità non contingenti del progetto urbano (le relazioni con il contesto, gli effetti collaterali, i requisiti di sostenibilità e resilienza). Tuttavia, la posizione della cultura urbanistica rispetto alla progettualità urbana corrente resta debole e sostanzialmente irrilevante. Come mostrano, a Milano per esempio, l'imbarazzo, il silenzio o la marginalità di pensiero di fronte a progetti scadenti come City Life o Garibaldi-Repubblica, che rappresentavano opportunità enormi per la città, miseramente dissipate.

 

Siamo a una soglia. E oltre?
Il libro di Patrizia Gabellini rappresenta bene una situazione di soglia. Anche in Italia, l'urbanistica è cambiata, nei fatti. Molti modelli tradizionali sono obiettivamente obsoleti. I risultati sono scarsi perché i problemi sono oggettivamente molto complicati, ma anche per lo scarto, ormai insostenibile, fra alcuni presupposti e le dinamiche reali. L'ipotesi di colmare questo scarto con un rilancio nostalgico della tradizione modernista (come vorrebbero alcuni conservatori) è una pura illusione. La disciplina dovrebbe provare ad assumere i rischi della mutazione in atto, con umiltà, pazienza e tenacia. E la consapevolezza di poter portare qualche contributo originale a processi intricati, destinati a evolvere nel tempo in forme incerte e non strettamente prevedibili. La speranza, l'impegno è che sia possibile dare qualche impulso potenzialmente virtuoso. Temo però che gli effetti saranno marginali se la disciplina non saprà mettere in discussione la sua identità, per molti aspetti troppo ambigua, confusa e controversa. Cioè se la mutazione non sarà anche culturale.

Pier Carlo Palermo

 

 

 

 

N.d.C. - Pier Carlo Palermo è professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano dove ha fondato e diretto il Dipartimento di Architettura e Pianificazione ed è stato preside della Facoltà di Architettura e Società.

Tra i suoi libri: Trasformazioni e governo del territorio (Franco Angeli, 2004); Innovation in Planning: Italian Experiences (Actar, 2006); con G. Pasqui, Ripensando sviluppo e governo del territorio (Maggioli, 2008); I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo (Donzelli, 2009); con D. Ponzini, Spatial planning and urban development (Springer, 2010); con D. Ponzini, Place-making and urban development (Routledge, 2015).

Per Città Bene Comune ha scritto: Per un'urbanistica che non sia un simulacro (5 febbraio 2016); Non è solo questione di principi, ma di pratiche (18 gennaio 2017); Vanishing. Alla ricerca del progetto perduto (30 giugno 2017); Il futuro di un paese alla deriva (23 febbraio 2018).

Sul libro di Patrizia Gabellini oggetto di questo commento, v. anche: S. Viviani, Urbanistica: e ora che fare? (12 luglio 2019) e l'introduzione al dibattito tenutosi alla Casa della Cultura il 14 maggio 2019.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

13 SETTEMBRE 2019

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
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Le conferenze

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- cultura urbanistica:
 
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Gli autoritratti

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2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019:

S. Vicari Haddock, Le periferie non sono più quelle di una volta, commento a: A. Petrillo, La periferia nuova (FrancoAngeli, 2018)

G. Consonni, La rivincita del luogo, commento a: F. Erbani, L'Italia che non ci sta. Viaggio in un paese diverso (Einaudi, 2019)

D. Patassini, Urbanistica per la città plurale, commento a: G. Pasqui, La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018)

C. Cellamare, Roma tra finzione e realtà, commento a: E. Scandurra, Exit Roma (Castelvecchi, 2019)

P. Briata, Con gli immigrati per capire città e società, commento a: B. Proto, Al mercato con Aida (Carocci, 2018)

S. Viviani, Urbanistica: e ora che fare?, Commento a: P. Gabellini, Le mutazioni dell'urbanistica (Carocci, 2018)

C. Tosco, Il giardino tra cultura, etica ed estetica, commento a: M. Venturi Ferriolo, Oltre il giardino (Einaudi, 2019)

L. Padovani, La questione della casa: quali politiche?, commento a: G. Storto, La casa abbandonata (Officina, 2018)

P. Burlando, Strategie per il (premio del) paesaggio, commento a: Paesaggio e trasformazione (FrancoAngeli 2017)

P. Pileri, Suolo: scegliamo di cambiare rotta, Commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli 2019)

A. Petrillo, Oltre il confine, commento a: L. Gaeta, La civiltà dei confini (Carocci, 2018)

L. P. Marescotti, Urbanistica e paesaggio: una visione comune, commento a: J. Nogué, Paesaggio, territorio, società civile (Libria, 2017)

F. Bottini, Idee di città sostenibile, Prefazione a: A. Galanti, Città sostenibili (Aracne, 2018)

M. Baioni, Urbanistica per la nuova condizione urbana, commento a: A. Galanti, Città sostenibili (Aracne, 2018)

R. Tadei, Si può comprendere la complessità urbana?, commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)

C. Saragosa, Aree interne: da problema a risorsa, commento a. E. Borghi, Piccole Italie (Donzelli, 2017)

R. Pavia, Questo parco s'ha da fare, oggi più che mai, commento a: A. Capuano, F. Toppetti, Roma e l'Appia (Quodlibet, 2017)

M. Talia, Salute e equità sono questioni urbanistiche, commento a: R. D'Onofrio, E. Trusiani (a cura di), Urban Planning for Healthy European Cities (Springer, 2018)

M. d'Alfonso, La fotografia come critica e progetto, commento a: M. A. Crippa e F. Zanzottera, Fotografia per l'architettura del XX secolo in Italia (Silvana Ed., 2017)

A. Villani, È etico solo ciò che viene dal basso?, commento a: R. Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città (Feltrinelli, 2018)

P. Pileri, Contrastare il fascismo con l'urbanistica, commento a: M. Murgia, Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi, 2018)

M. R. Vittadini, Grandi opere: democrazia alle corde, commento a: (a cura di) R. Cuda, Grandi opere contro democrazia (Edizioni Ambiente, 2017)

M. Balbo, "Politiche" o "pratiche" del quotidiano?, commento a E. Manzini, Politiche del quotidiano (Edizioni di Comunità, 2018)

P. Colarossi, Progettiamo e costruiamo il nostro paesaggio, commento a: V. Cappiello, Attraversare il paesaggio (LIST Lab, 2017)

C. Olmo, Spazio e utopia nel progetto di architettura, commento a: A. De Magistris e A. Scotti (a cura di), Utopiae finis? (Accademia University Press, 2018)

F. Indovina, Che si torni a riflettere sulla rendita, commento a: I. Blečić (a cura di), Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo (FrancoAngeli, 2017)

I. Agostini, Spiragli di utopia. Lefebvre e lo spazio rurale, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018)

G. Borrelli, Lefebvre e l'equivoco della partecipazione, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018); La produzione dello spazio (PGreco, 2018)

M. Carta, Nuovi paradigmi per una diversa urbanistica, commento a: G. Pasqui, Urbanistica oggi (Donzelli, 2017)

G. Pasqui, I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza, commento a: L. Gaeta, La civiltà dei confini (Carocci, 2018)

 

 

 

 

 

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