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Una delle tante categorie novecentesche che compongono la narrazione dei tempi presenti è quella di periferia, concetto (in passato) quasi esclusivamente geografico che le definiva genericamente come luoghi lontani dal centro. Questo concetto ha per tanto tempo coinciso con una realtà dicotomica, tra chi abitava il centro (in genere appartenente al ceto benestante) e chi trovava casa in luoghi lontani da esso, privi di servizi, strade, infrastrutture. Ed è anche vero che questa "lontananza" dalla città vera non era, in passato, vissuta come emarginazione, segregazione, subalternità, ma anzi come un quasi "privilegio": possedere finalmente una casa in un nuovo quartiere insieme ad altre famiglie, con le quali si stabiliva una immediata solidarietà. Una solidarietà, per usare un'altra categoria novecentesca, di classe che produceva nuovi rapporti sociali in contrapposizione a quelli del cosiddetto centro. La politica, intesa come volontà di risolvere insieme i problemi, era quanto mai presente in questi luoghi abbandonati. Il PCI, degli anni Cinquanta e Sessanta, era presente e disseminato in tante sezioni di periferia, si spendeva al servizio di queste persone e le organizzava nelle lotte per chiedere miglioramenti delle condizioni di vita, più servizi, più scuole. Naturale, quindi, che queste zone diventassero delle roccaforti rosse. Verso gli anni Ottanta è iniziata una vera e profonda trasformazione antropologica e sociale di questi luoghi e dei suoi abitanti, tanto da invertire e ribaltare la loro "identità" politica, andando a gonfiare, negli ultimi anni, il vento populista.
Agostino Petrillo, sociologo urbano del Politenico di Milano, ha dedicato anni di studi e ricerche al tema della trasformazione delle periferie (e dunque delle stesse città), tanto che questo libro - La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città (FrancoAngeli, 2018) - può essere considerato il secondo di una trilogia annunciata che l'Autore si propone di scrivere sul tema delle periferie contemporanee. Un libro importante perché prova a demolire i luoghi comuni di questo concetto di periferia, affrontandolo da vari punti di vista e dimostrando come la periferia (termine assai sfumato e generico di questi tempi) contiene ed esprime un insieme di cose tra loro anche molto diverse. Quale, dunque, la chiave di lettura di queste periferie nuove così diverse da quelle del passato che abbiamo conosciuto e che sono state ampiamente descritte e raccontate dalla letteratura e dal cinema neorealista degli anni Cinquanta-Sessanta?
Se pensiamo alle città-mondo come New York, Chicago, Londra, Parigi, Hong Kong, dove il fenomeno della trasformazione urbana è più accelerato, notiamo che al loro interno sono impiantati sistemi di potere che non vengono mai discussi. Non abbiamo nemmeno il linguaggio adatto per provare a descrivere questi nuovi poteri emergenti. La maggior parte dei saperi che si sviluppano nelle università sono semplicemente inutili per codificare questi fenomeni e il cittadino medio non è messo in condizione di comprendere ciò che sta davvero succedendo. In questo contesto così trasformato, il libro, frutto di un lungo lavoro di ricerca e di documentazione, cerca di suscitare dei dubbi, dei sospetti su cosa sottende questo termine di periferia. Tanto più difficile è dunque il lavoro di Petrillo che già nell'introduzione al libro cerca di definire questi nuovi mondi:
"la periferia "nuova" nel suo crescere si complessifica, diviene difficile da decifrare, smarrisce connotati facilmente riconoscibili, da tempo non è più riconducibile a un territorio gerarchizzato […], e quindi sostanzialmente omogeneo, ma è invece un paesaggio irregolare, a-morphos appunto, che in molti casi sembra sottrarsi alla stessa tradizione insediativa caratteristica della città europea. In essa si mescolano, sovente alla rinfusa, nuove centralità emergenti e vecchie centralità declinate, laboratori dell'innovazione e progetti industriali obsoleti, strutture recenti della logistica e capannoni abbandonati, infrastrutture moderne e scali ferroviari dismessi, quartieri residenziali e sopravvivenze isolate di edilizia popolare tradizionale, abusivismo "storico" e nuove autocostruzioni. Un universo estremamente composito dunque, cui per completezza bisogna aggiungere e a volte sovrapporre: insediamenti precari e temporanei di migranti, edifici occupati, laboratori del lavoro nero, spazi interstiziali e di risulta".
In queste poche frasi appare già tutta la difficoltà a trovare nuove definizioni per questi territori che mutano continuamente e che resistono a qualsiasi tentativo di sintesi: "la periferia che chiamiamo "nuova" pare infatti sottrarsi alle categorizzazioni note e, invece, prospettarsi come un insieme di singolarità diverse tra loro, ricondotte a questo nome comune più da una condivisione di condizione sociale, di mentalità, di situazioni occupazionali e redditi, che per i meri aspetti spaziali, che appaiono spesso invece estremamente diversificati". Roma, da questo punto di vista, è il laboratorio più interessante; si calcola che gli abitanti della periferia superino il milione sparsi in insediamenti che si chiamano Tor Bella Monaca, Corviale, Torre Angela, Torre Maura, Ponte di Nona; ovvero vecchie borgate fasciste, insediamenti pubblici, nuove borgate, borgate abusive, costituiscono la galassia periferica che si va ingrossando giorno per giorno. In altre città (Napoli, ad esempio) queste periferie convivono col centro (i quartieri spagnoli).
Già Walter Siti - nel suo romanzo: Il contagio (Mondadori, 2008) - aveva denunciato, per bocca del protagonista Marcello, che non sono le borgate che si stanno imborghesendo (quello che era il timore di Pasolini), ma è il borghese a essere sempre più simile al borgataro: nel continuum indifferenziato di chi il mondo non sa più vederlo intero, è l'ideologia di quelli che una volta si chiamavano gli esclusi a risultare egemone. Il contagio è già avvenuto, ed è proprio su questa sistematica e ipertrofica epidemia mimetica che lavora il potere. E così, 'presagiamente' annunciata, verso gli anni Novanta le cosiddette roccaforti rosse, lo zoccolo duro del PCI, si caricavano di un rancore e di un risentimento verso la politica che le avrebbe portate a votare in massa verso i nuovi partiti populisti.
"È proprio l'esistenza di simili luoghi, di micromondi stanziali in cui diviene macroscopica la lontananza delle istituzioni e la disuguaglianza sociale, a fare giustizia una volta per tutte delle ormai estenuate retoriche postmoderniste sulla "città infinita" e sulla "fine delle periferie"". Può essere colta così una prima grande trasformazione politica e antropologica della "nuova" periferia: la perdita della speranza, la sconfitta della retorica del "riscatto", ovvero "la possibilità di una eventuale riqualificazione o come si dice oggi con curiosa metafora sartoriale, di un 'rammendo'". E, ancora: "la distruzione creativa ha devastato complesse articolazioni sociali e produttive, creando una tabula rasa delle relazioni precedenti", perché mentre nella società industriale questa possibilità di soggettivazione si era incarnata in movimenti sociali come quello operaio ove l'emancipazione personale era concepita come inestricabilmente legata a quella di classe, cioè collettiva, ora l'emancipazione della persona va ricercata contro meccanismi economici e politici che tendono a voler controllare totalmente il modo stesso in cui agiamo e pensiamo.
Al di là di insignificanti tassonomie (periferie interne, periferie di periferie, periferie-mondo, periferia diffusa), una caratteristica strutturale delle nuove periferie è la disuguaglianza: "una disuguaglianza che assume aspetti diversi dal passato e che va intesa nel senso più ampio del concetto, non solo come modificazione della stratificazione sociale nelle città e nei territori, ma anche come articolazione spaziale e messa a valore della differenza". Una disuguaglianza (dal centro) che non è solo economica (di reddito), ma: "di condizioni abitative, ma anche e soprattutto disuguaglianza di chances, di possibilità di riuscita scolastica e lavorativa, di emancipazione e mobilità sociale e spaziale". In sostanza, chi nasce in una periferia ha ben poche possibilità, rispetto al passato, di "farcela", di "uscire", di trovare lavoro e accoglienza nella grande città. Una disuguaglianza che genera anche differenze spaziali: "Il crescere della disuguaglianza sociale va di pari passo con la crescita delle disparità spaziali, che vengono ulteriormente accentuate da processi quali il rinnovamento urbano, la gentrification e le strategie del mercato dell'abitazione. Le conseguenze interne di questi fenomeni sono state in molti casi amplificate da politiche ambigue, che hanno guardato agli interessi della grande proprietà, alla tutela degli immobiliaristi".
Per altri versi il concetto di periferia è una sorta di costruzione sociale per descrivere cose diverse: "le parole e i termini usati non sono altro che una sorta di "raddoppiamento linguistico" di quanto avviene nella realtà, enunciati che circolando contribuiscono ulteriormente a rafforzarla". Ed ecco che le periferie sono sinonimo di degrado, marginalità, devianza, tossicodipendenza, presenza di zingari, migranti: "essere etichettati come periferia oggi ha dunque anche il senso di un dovere remare controcorrente, di dovere ogni volta partire da situazioni di svantaggio, con una moltiplicazione degli effetti di luogo di cui parlava tanti anni fa Pierre Bourdieu". Il giudizio negativo sulle periferie non è solo una costruzione sociale politica delle èlites che governano la città; come per il Sud, producono esse stesse una falsa autorappresentazione perché "non sanno e non possono parlare da sé e per sé, perché non si riconoscono come un soggetto autonomo dotato di parola, anzi chi vive nei quartieri della marginalità urbana avanzata è più facilmente disposto ad accettare il giudizio (negativo) di chi vive altrove che a esprimere una visione propria".
Altro concetto analizzato nei suoi diversi aspetti è quello che va sotto il nome di gentrification che è spesso associato a quello più ambiguo di rigenerazione (l'uso della metafora è una brutta abitudine degli urbanisti): "la conseguenza logica dei processi di concentrazione e ricentralizzazione che essa implica è il progressivo abbandono a se stessi degli spazi periferici. Insomma il veleno della gentrification pare non risiedere solo e unicamente nell'allontanamento delle popolazioni precedenti, e nella "colonizzazione dei centri", ma nell'incrementare e accelerare quella svalutazione progressiva delle periferie, che come si è visto è una delle chiavi della disuguaglianza socio-spaziale contemporanea".
La periferia è solo questo? Le nuove periferie sono soltanto luoghi di disperazione e di crescita del rancore sociale e del risentimento e dello spaccio? E come è possibile sviluppare soggettività politica in un contesto nel quale le relazioni di dipendenza all'interno dei rapporti sociali sono così determinate e stringenti? La Politica non è, come si dice con troppa superficialità, scomparsa da questi luoghi. Essi sono disseminati di associazioni, collettivi che organizzano la partecipazione di uomini e donne alla vita politica. È una verità indiscutibile anche se tutt'altro che capace di contrastare le derive politiche di questi anni. Tra i loro abitanti è diffusa la sensazione "di avere ridotta o pressoché nulla capacità di intervenire sulle decisioni che riguardano i loro spazi di vita e le città in cui vivono. Non hanno nessun potere e lo sanno. Eppure, anche nelle periferie peggiori non c'è solo anomia, passività o violenza. I nuovi "subalterni" delle periferie attivano strategie di appropriazione dello spazio, di difesa territoriale, di opposizione alle regole del gioco introdotte dai poteri costituiti", come direbbe il buon De Certeau.
"Periferia allora non unicamente come luogo della esclusione, ma anche come luogo della resistenza, in cui vi è un potenziale creativo. Un potenziale che cerca di sottrarsi ai discorsi e alle opinioni che sulla periferia si intessono". E che questo non sia solo una vana retorica trionfante lo dimostrano le tante e diffuse attività culturali, di rinnovamento dei modi di pensare, di creatività, rispetto a un centro mummificato, parco a cielo aperto riservato ai turisti, ma nella sostanza "morto". A Roma ne è dimostrazione Metropoliz, la vecchia fabbrica (un salumificio) occupata di Fiorucci, diventato un richiamo urbano a livello internazionale per le numerose opere d'arte dipinte sui muri della vecchia fabbrica e che non ha nulla da invidiare ai più noti e famosi musei moderni d'Europa, se non l'essere periferico, lontano dalla invadenza dei turisti.
Molte ed altre esperienze compaiono nel libro. Una ri-lettura di Lefebvre, l'esempio del quartiere CEP di Prà, l'analisi delle banlieus parigine, sono alcune della tante esperienze descritte in questo prezioso, colto libro ricco di citazioni e appropriati rimandi biografici e che tenta di riaprire un discorso che il mainstream urbanistico considera congelato: quello delle periferie, buone soprattutto a produrre falsa accademia e inutili convegni.
Enzo Scandurra
N.d.C. - Enzo Scandurra, già professore ordinario di Urbanistica, ha insegnato Sviluppo Sostenibile per l'Ambiente e il Territorio all'Università La Sapienza di Roma, dov'è stato direttore di Dipartimento e coordinatore del Dottorato di Ricerca in Ingegneria per l'Architettura e l'Urbanistica. Membro del consiglio scientifico di diverse riviste nazionali e internazionali, è tra i soci fondatori della Società dei Territorialisti e collabora a "il manifesto".
Tra i suoi ultimi libri: Vite periferiche (Ediesse, 2012); con Giovanni Attili (a cura di), Il pianeta degli urbanisti e dintorni (DeriveApprodi, 2012); con Giovanni Attili, Pratiche di trasformazione dell'urbano (FrancoAngeli, 2013); Recinti urbani. Roma e luoghi dell'abitare (Manifestolibri, 2014); con Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia, La città e l'accoglienza (manifestolibri, 2017); Fuori squadra (Castelvecchi, 2017); con Ilaria Agostini, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018); Exit Roma (Castelvecchi, 2019).
Per Città Bene Comune ha scritto: La strada che parla (26 maggio 2017); Dall'Emilia il colpo di grazia all'urbanistica (19 ottobre 2017).
Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Serena Vicari Haddock, Le periferie non sono più quelle di una volta (3 settembre 2019)
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 18 OTTOBRE 2019 |
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P. C. Palermo, Oltre la soglia dell'urbanistica italiana, commento a: P. Gabellini, Le mutazioni dell'urbanistica (Carocci, 2018)
S. Vicari Haddock, Le periferie non sono più quelle di una volta, commento a: A. Petrillo, La periferia nuova (FrancoAngeli, 2018)
G. Consonni, La rivincita del luogo, commento a: F. Erbani, L'Italia che non ci sta (Einaudi, 2019)
D. Patassini, Urbanistica per la città plurale, commento a: G. Pasqui, La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018)
C. Cellamare, Roma tra finzione e realtà, commento a: E. Scandurra, Exit Roma (Castelvecchi, 2019)
P. Briata, Con gli immigrati per capire città e società, commento a: B. Proto, Al mercato con Aida (Carocci, 2018)
S. Viviani, Urbanistica: e ora che fare?, Commento a: P. Gabellini, Le mutazioni dell'urbanistica (Carocci, 2018)
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