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LE PRATICHE INFORMALI SALVERANNO LA CITTÀ?
Commento al libro di Giampaolo Nuvolati
Giancarlo Consonni
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Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, nel 1977, usciva Chi decide la città, il libro curato da Pier Luigi Crosta e Sergio Graziosi (1); ma l'interrogazione fissata nel titolo rimane centrale. A confronto con il quindicennio di riforme e speranze che, in Italia, ha preceduto l'uscita del volume, il bilancio dei quattro decenni successivi è quanto mai deludente. Il peso della Pubblica amministrazione nel governo delle trasformazioni fisiche dell'habitat si è ulteriormente ridotto e molte delle scelte qualificanti in materia di assetti insediativi, in particolare il disegno urbano, sono da tempo delegate agli operatori immobiliari. Si registrano così due processi, uno di più lunga data, l'altro più recente: da un lato, il proliferare di nuove edificazioni (espansione o recupero di aree dismesse) che, in larga misura, non rispondono all'obiettivo del fare città; dall'altro, l'avanzare di interventi sulla stessa città costruita che ne misconoscono il valore e ne erodono qualità consolidate. Gli effetti sono tanto evidenti, quanto sottaciuti: da decenni è in atto una deriva in direzione dell'affermazione di modi dell'abitare a elevato tasso di esclusività e confinamento, con conseguente frammentazione degli insediamenti e del corpo sociale.
Su tutto questo chi ha responsabilità di governo della cosa pubblica (ai vari livelli) mostra il totale disinteresse, salvo, per taluni, agitare ad arte lo spauracchio dell'insicurezza. Quanto poi all'urbanistica, all'architettura, al disegno urbano e, più in generale, agli ambiti disciplinari che dovrebbero occuparsi del fare città, chi opera in questi campi, se si escludono rare eccezioni, non pare all'altezza del compito culturale e della responsabilità civile.
Una delle chiavi della questione sono i rapporti fra spazi pubblici, spazi collettivi e spazi privati, da cui non poco dipende la convivenza civile. Su questo terreno, sotto la pressione di quella sorta di psicosi collettiva che va sotto il nome di sicurezza, si è innescato un circolo vizioso: più quei rapporti si allentano, o vengono recisi, e più i luoghi pubblici e collettivi, non essendo presidiati, diventando inospitali e insicuri. Per questo la definizione di questi rapporti, contrastando la tendenza alla chiusura più o meno camuffata, dovrebbe costituire un problema primario sia della politica sia dell'arte di costruire città (in una sintesi da ritrovare). Ma la china da risalire si è fatta quanto mai ripida: c'è da vincere l'analfabetismo di ritorno in materia di città che caratterizza tanto coloro a cui spettano le decisioni sulla configurazione dell'habitat quanto gli stessi abitanti. Certo: diversi altri nodi rivestono rilevanza cruciale per il riscatto del Paese, ma questa prospettiva si allontanerebbe ulteriormente se si continuasse a trascurare la portata politica e civile degli assetti insediativi.
Queste considerazioni mi vengono suggerite dall'ultimo libro di Giampaolo Nuvolati, Interstizi della città. Rifugi del vivere quotidiano (Moretti&Vitali, Bergamo 2019). O meglio nascono in polemica con uno degli assunti di partenza del libro: il fatto che la città costruita sarebbe costituita da "blocchi" (edifici) e "innervature", o "giunture" (gli spazi aperti pubblici e collettivi), intesi come presenze contrapposte. Una giustapposizione che Nuvolati dà pressoché per generalizzata e persino istituzionalmente congelata. Secondo una simile impostazione, per fare un esempio, non ci sarebbe alcuna differenza fra la Milano ospitale, "squisitamente peripatetica e dialogica"(2), di cui scrive Alberto Savinio sotto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale e gli spazi sottilmente militarizzati della Milano di Citylife. In questo modo una questione di portata decisiva per la convivenza civile viene liquidata senza entrare nel merito del concreto farsi della città, condannando in partenza chi progetta e chi prende le decisioni (ma, alla fine, assolvendoli in blocco, visto che non si opera alcun distinguo e non si indagano ragioni, genesi e responsabilità degli assetti).
Il fatto poi che Nuvolati guardi con simpatia a "forme innovative di progettazione del territorio urbano" (p. 131) come quelle che vanno sotto le etichette di Temporal Urbanism, Everyday Urbanism, Informal Urbanisme chiarisce ulteriormente il suo punto di vista: solo ciò che è spontaneo e informale e ha il sapore di anti o extra-istituzionale ha per l'Autore la possibilità di mettere in discussione uno stato delle cose che, nella sua rappresentazione, non è riscattabile nelle sedi deputate alle decisioni e alle definizioni progettuali. Come a dire: la politica e la cultura hanno fallito e non rimane che fare affidamento sulle pratiche spontanee di cittadini e di gruppi da cui prendono vita quelli che l'autore chiama "interstizi", ovvero gli anticorpi spaziali e comportamentali in cui, dal basso, si possono affermare valori come l'ospitalità, la connettività, la porosità, il ritrovamento di una intimità dei luoghi e con i luoghi; e, ancora, la possibilità di stupori e sorprese, l'intensità emotiva, la sottrazione di spazio e tempo alla pervasività omologante della metropoli, fino al ritrovamento dell'aura e alla risignificazione creativa degli spazi e delle architetture.
Intendiamoci: la mia sintonia con l'autore su questi valori è pressoché totale. E a lui va tutta la mia ammirazione per come sa cogliere, da autentico, instancabile sensibilissimo flâneur, il loro (ri)fiorire nelle pratiche informali di individui e gruppi. Il mio dissenso, lo ribadisco, è sul fatto che venga dato per sancito una volta per tutte che quei valori non possano essere affermati e praticati anche e in primo luogo nelle sedi deputate alle scelte decisionali sugli insediamenti umani e alla loro definizione progettuale. Tutta la storia dell'urbanistica e dell'architettura moderne, del resto, può essere letta come lo snodarsi di un conflitto fra urbano e antiurbano, e, in ultimo, fra chi è mosso dall'intento di promuovere i valori sopra richiamati e chi li nega, in nome di concetti d'ordine disumanizzanti.
Dare per scontato la vittoria dell'antiurbano nella politica (negandone il legame con la polis) e nella cultura del progetto è, credo, fare un enorme regalo al potente esercito dei distruttori di città (i quali hanno dalla loro l'"ottundimento dei sensi […] tipico delle società metropolitane" e l'"indifferenza" e l'"anaffettività" diffuse che ne conseguono, p. 168).
Altra cosa è sostenere che la politica e la cultura del progetto di luoghi hanno l'obbligo di attivare un ascolto a tutto campo nutrendosi di tutta la ricchezza e la propositività di cui è portatrice la domanda di città che si esprime nelle pratiche spontanee e informali di addomesticamento e umanizzazione degli spazi aperti pubblici. Nella consapevolezza che i luoghi "sono testimoni delle relazioni umane e delle nostre emozioni, ne sono un precipitato fisico che può durare nel tempo e ben più a lungo delle relazioni stesse" (p. 169), occorre lavorare a una nuova alleanza tra politica, cultura del progetto e comportamenti volta a rinsaldare e a rinnovare coesione e inclusione e ad affermare la qualità urbana dei luoghi e delle relazioni sociali.
Giancarlo Consonni
Note 1) Pier Luigi Crosta, Sergio Graziosi (a cura di), Chi decide la città. Meccanismi e agenti di urbanizzazione nell'area milanese, Clup, Milano 1977. 2) Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore città, Bompiani, Milano 1944, p. 165.
N.d.C. - Giancarlo Consonni è professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano dove dirige l'Archivio Piero Bottoni che ha contribuito a fondare.
Tra i suoi libri: L'internità dell'esterno. Scritti su l'abitare e il costruire (Clup, 1989); con L. Meneghetti e G. Tonon (a cura di), Piero Bottoni. Opera completa (Fabbri, 1990); Addomesticare la città (Tranchida, 1994); Dalla radura alla rete. Inutilità e necessità della città (Unicopli, 2000); con G. Tonon, Terragni inedito (Ronca, 2006); La difficile arte. Fare città nell'era della metropoli (Maggioli, 2008); La bellezza civile. Splendore e crisi della città (Maggioli, 2013); Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016).
Per Città Bene Comune ha scritto: Un pensiero argomentante, dialogico, sincretico, operante (2 giugno 2016); Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare (13 gennaio 2017); Coscienza dei contesti come prospettiva civile (9 febbraio 2018); In Italia c'è una questione urbanistica? (15 giugno 2018); Le ipocrisie della modernità (23 novembre 2018); La rivincita del luogo (25 luglio 2019).
Sul libro oggetto di questo commento - di cui si discuterà alla Casa della Cultura sabato 16 novembre, alle ore 15, nell'ambito di un'iniziativa prodotta in collaborazione con l'Università degli Studi di Milano Bicocca in occasione di BookCity 2019 - v. anche il commento di Duccio Demetrio, Per un camminar lento, curioso e pensoso (27 settembre 2019).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 15 NOVEMBRE 2019 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
in redazione: Elena Bertani Oriana Codispoti
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Le letture
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L. Bonesio, Emendare i territori intessendo relazioni, commento a: E. Colonna di Paliano, G. Frassine, L. Castellani Lovati, A. Maspero, [In]tessere legami territoriali (Araba Fenice, 2018)
P. Pilieri, L'ossessione di difendere il suolo, commento a: S. Vinci, Rovina (Einaudi, 2019)
E. Scandurra, Periferie oggi, tra disuguaglianza e creatività, commento a A. Petrillo, La periferia nuova (FrancoAngeli, 2018)
G. Tonon, Città: il disinteresse dell'urbanistica, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)
F. Indovina, Un giardino delle muse per capire la città, commento a: G. Amendola - Sguardi sulla città moderna (Dedalo, 2019)
D. Demetrio, Per un camminar lento, curioso e pensoso, commento a: G. Nuvolati, Interstizi della città (Moretti&Vitali, 2018)
G. Nuvolati, Scoprire l'inatteso negli interstizi della città, commento a: C. Olmo, Città e democrazia (Donzelli, 2018)
P. C. Palermo, Oltre la soglia dell'urbanistica italiana, commento a: P. Gabellini, Le mutazioni dell'urbanistica (Carocci, 2018)
S. Vicari Haddock, Le periferie non sono più quelle di una volta, commento a: A. Petrillo, La periferia nuova (FrancoAngeli, 2018)
G. Consonni, La rivincita del luogo, commento a: F. Erbani, L'Italia che non ci sta (Einaudi, 2019)
D. Patassini, Urbanistica per la città plurale, commento a: G. Pasqui, La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018)
C. Cellamare, Roma tra finzione e realtà, commento a: E. Scandurra, Exit Roma (Castelvecchi, 2019)
P. Briata, Con gli immigrati per capire città e società, commento a: B. Proto, Al mercato con Aida (Carocci, 2018)
S. Viviani, Urbanistica: e ora che fare?, Commento a: P. Gabellini, Le mutazioni dell'urbanistica (Carocci, 2018)
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