Jacopo Gardella  
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DISEGNO URBANO: LA LEZIONE DI AGOSTINO RENNA


Commento al libro curato da R. Capozzi, P. Nunziante e C. Orfeo



Jacopo Gardella


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Il libro dedicato ad Agostino Renna - a cura di Renato Capozzi, Pietro Nunziante, Camillo Orfeo, Agostino Renna. La forma della città (Clean, 2016) - raccoglie le appassionate testimonianze degli amici che lo hanno conosciuto, degli allievi che lo hanno apprezzato, dei compagni di lavoro che con lui hanno condotto ricerche e sviluppato progetti. Renna (1937-1988) è stato un architetto meritatamente stimato che, nonostante la prematura scomparsa, ha dato prova di straordinarie capacità di innovazione e di coraggio progettuale. Tra i suoi lavori più significativi possiamo considerare la sua tesi di laurea (1965), preparata con il compagno di studi Salvatore Bisogni, il progetto di un nuovo quartiere situato nella zona est di Napoli (1973), redatto in collaborazione con altri, e il piano per Monteruscello (1984). 

 

Per un ritorno al disegno urbano

La tesi di laurea presentata da Bisogni e Renna nel 1965 riguarda un possibile sviluppo di Napoli. Le tavole planimetriche, distinte per argomenti, sono utili ed esplicative, ma ciò che più colpisce di questo lavoro sono le altre rappresentazioni grafiche che corredano il progetto. Da queste scaturisce, vivido e chiaro, il pensiero dei due laureandi; traspare senza equivoci la loro concezione urbana; emerge con tutta evidenza l'immagine della città che prefigurano. Bisogni e Renna si rifiutano di trasformarsi in contabili dell'urbanistica; tramite il disegno urbano, scelgono piuttosto di farsi artefici della forma della città. Il loro lavoro si intitola Introduzione ai problemi di disegno urbano nell'area napoletana, dove "disegno urbano" è l'espressione chiave e risolutiva di tutta la tesi. In questa, infatti, si ricorre ampiamente alla rappresentazione tridimensionale e prospettica della città, si afferma la priorità del disegno urbano, si riconosce il valore insostituibile della visione ottica e quello della previsione grafica. Renna fin dai suoi esordi progettuali sembra dunque voler rompere con la burocratica e angusta consuetudine di ridurre gli studi sulla città a un insieme di calcoli, tabelle o statistiche e si sforza di reintrodurre nella disciplina urbanistica un approccio più completo e intelligibile del piano che non escluda la riflessione sulla forma dei luoghi. Cerca cioè di dare corpo a una visione più generale della città affinché essa diventi comprensibile anche ai profani e non solo agli esperti della disciplina. Se molti urbanisti a lui contemporanei tendevano ad appiattire e ridurre l'urbanistica al solo controllo delle funzioni o di dati parametrici e quantitativi, Renna e Bisogni paiono convinti che la disciplina debba invece tornare a valorizzare gli aspetti formali del progetto urbano. Nel loro lavoro sono protagonisti schizzi, prospettive, immagini pittoriche, si susseguono vedute "a volo di uccello", illustrazioni di paesaggi naturali e urbani. L'urbanistica, pur non perdendo la sua componente scientifica, sembra cioè recuperare la sua dimensione artistica; mira a configurarsi come un'arte del disegno, una disciplina capace di prefigurare immagini e visioni urbane. 

Negli elaborati di tesi di Bisogni e di Renna è riconoscibile l'influenza di Kevin Lynch che aveva compreso quanto le immagini della città che ciascuno di noi sedimenta nella memoria contribuissero a costituire il repertorio di cui ci si avvale per orientarsi nei tessuti urbani. Anche da qui scaturisce forse l'idea che occorra rappresentare la città non tanto o non solo mediante monotone tavole planimetriche ma ricorrendo a eloquenti rappresentazioni visive, all'uso di modelli tridimensionali, a prefigurazioni della realtà fisica in cui la componente paesaggistica sia sempre presente ed espressa con sintetica efficacia. Nelle vedute di Napoli contenute nella tesi di laurea è evidente che le colline stagliate contro il cielo sullo sfondo e il bordo marino sottolineato dalle ondulazioni del litorale in primo piano si configurano come i margini che delimitano e racchiudono le zone costruite e ne circoscrivono il perimetro. Per Bisogni e Renna l'architettura non cresce nel vuoto, in uno spazio astrale, ma sorge e si radica in un terreno fisico ben definito, si sviluppa in un territorio concreto e reale. In altri termini, è chiaro che per questi autori la rappresentazione dell'ambiente naturale non possa essere dissociata dal disegno delle architetture esistenti e di progetto. 

Anche gli edifici di valore storico-artistico, i monumenti del passato, vengono assunti in modo dialettico e resi partecipi di una narrazione dove vecchio e nuovo coesistono pacificamente. Il passato entra in dialogo con il presente e lo arricchisce così come il presente stabilisce una relazione con il passato e lo fa rivivere. Bisogni e Renna rifuggono dall'idea di avere nei confronti del passato un atteggiamento imitativo e pedante, un'accettazione succube e rinunciataria. Nelle vedute di Napoli contenute nella tesi, dall'uniforme tessuto esistente emergono imponenti volumi edilizi di forma serpeggiante, ondulata, circolare, spesso simili a grandi arene. In queste immagini vi è un'esplicita allusione al progetto redatto da Quaroni per il concorso delle Barene di San Giuliano presso Mestre (anno 1958) e un preciso richiamo ai voluminosi edifici circolari che avrebbero dovuto essere visibili anche da lontano, nel paesaggio lagunare. Bisogni e Renna, sulle tracce di Quaroni, immaginano di erigere nel centro storico di Napoli edifici di notevoli dimensioni, perfettamente visibili nel panorama cittadino, che contrastano vivacemente con la città storica che sta ai loro piedi e diventano complementari al paesaggio montagnoso circostante dominato dal cono del Vesuvio.

 

La classicità come riferimento

Di grande interesse è la proposta di un nuovo quartiere disegnato nel 1973 in una zona a est di Napoli. Il progetto, redatto quasi dieci anni dopo la tesi di laurea, è firmato da Renna con altri collaboratori ma senza la presenza di Bisogni (1). L'assenza del collega può forse spiegare, almeno in parte, alcuni peculiari caratteri del nuovo progetto da cui scompaiono le forme plastiche e dinamiche, i volumi curvi, sinuosi e ondulati. Al loro posto subentrano forme rigide e squadrate, corpi di fabbrica rigorosamente rettilinei e perfettamente rettangolari. Mentre nella tesi di laurea gli edifici tradivano un'ispirazione barocca, nel progetto di un nuovo quartiere a est di Napoli questi presentano una rigidità geometrica e un assetto d'insieme che contrasta in modo stridente con il tessuto medievale della città partenopea. Guardando la planimetria del nuovo insediamento da un lato si vede il groviglio viario della città storica, l'intrecciarsi di strade strette e tortuose, la fitta successione di piazze e piazzette, l'alternarsi di slarghi pubblici e cortili privati; dal lato opposto si distende una trama viaria precisa e regolare, un'insistita ripetizione di percorsi rettilinei, un succedersi quasi ossessivo di edifici lineari, disciplinatamente allineati e accostati gli uni agli altri. Verrebbe da chiedersi per quale motivo viene proposto un impianto planimetrico così diverso dalla trama edilizia della città esistente; per quale ragione la configurazione dei corpi di fabbrica e della rete stradale non presentino nessuna analogia con la Napoli del passato. La risposta si può forse trovare rifacendosi alle osservazioni di quanti, proprio in quegli anni, cercavano nutrimento progettuale nella storia della città e nelle mutevoli stratificazioni succedutesi nel corso dei secoli. Aldo Rossi, per esempio, a cui Renna guardava con interesse, aveva osservato che, in generale, la città è fatta di "pezzi", composta di parti diverse, suddivisa in quartieri distinti e dotati ciascuno di una propria conformazione, di un proprio volto. È l'alternanza di zone dissimili che rende attraenti e vivaci i grandi agglomerati urbani; è la successione di quartieri disuguali che crea complessi edilizi animati e movimentati. Forse la giusta chiave per interpretare il progetto di Renna sta in questa lettura della città; nell'idea di riproporre una suddivisione in settori circoscritti e differenziati; nel tentativo di consentire il transito attraverso luoghi molto diversi; nella successione di paesaggi urbani contrapposti e dissimili. Renna sa che proprio qui sta uno dei segreti della bellezza della città, ciò che rende la vita quotidiana un'esperienza dinamica, stimolante, varia.

Nel progetto del quartiere a est di Napoli la figura planimetrica che più stupisce e incuriosisce è la lunga ed ampia spianata di perfetta forma rettangolare che attraversa il quartiere da un estremo all'altro tagliandolo in due zone nettamente distinte. La forma allungata, le notevoli dimensioni dell'area, la totale assenza di edifici al suo interno e l'aspetto geometricamente ben definito la fanno sembrare a un luogo nel quale è la città che avvolge un pezzo di campagna e non, come di solito avviene, il contrario. La spianata del quartiere di Renna ricorda la lunga e incassata Valle del Canopo nel complesso della Villa Adriana a Tivoli: entrambe sono opere artificiali che nascono per azione dell'uomo; entrambe presentano una forma rettangolare allungata; entrambe appaiono come ambienti a cielo aperto delimitati e racchiusi entro confini costruiti; entrambe sono concluse all'inizio ed al termine della loro estensione da due edifici trasversali che fungono da fondali, da quinte di chiusura, da elementi terminali di una profonda visuale prospettica. Renna è chiaramente consapevole, sull'esempio dell'architettura antica, che ogni prospettiva architettonica necessita di una conclusione finale, di uno scenario ultimo e definitivo. L'analogia con Villa Adriana e con altri monumenti del passato confermano il suo interesse per la Storia, la conoscenza degli edifici antichi, la passione per le testimonianze architettoniche e urbanistiche giunte fino a noi. Dimostrano la permanente classicità della sua opera, il suo grande interesse per i monumenti greco-romani.

In questo progetto, tuttavia, ciò che lascia perplessi non è tanto la vasta dimensione dell'intervento quanto la sua spregiudicata invadenza, la sua prepotente estensione rispetto alla città storica. Il piano prevedeva infatti la soppressione di un fitto tessuto edilizio e la sua completa sostituzione. Ora, si può certamente ammettere che un intervento urbano di grande estensione sia legittimo e perfino salutare e benefico se attuato su terreni liberi da costruzioni, ma diventa assai discutibile e difficile da accettare se comporta distruzioni massicce di grandi aree edificate, la demolizione sistematica di edifici storici anche di notevole valore architettonico, storico e ambientale. Per questo motivo il progetto di Renna, più che una proposta destinata a essere effettivamente realizzata, va considerata un'esercitazione teorica, un invito a rivalutare nel disegno urbano alcuni aspetti sempre più frequentemente accantonati. Ci riferiamo alla varietà dei contesti, alla necessità di curare nel dettaglio l'aspetto fisico dei luoghi urbani, di riprendere sapientemente (e non pedissequamente) la lezione della Storia.

 

Territorio e forme urbane

Monteruscello è sicuramente la più grande sfida lanciata a Renna: progettare una città di fondazione, creare dal nulla un insediamento là dove prima esisteva solo campagna. La nuova città di Monteruscello è destinata a ospitare gli abitanti della vicina Pozzuoli rimasti privi di una casa a causa del violento terremoto avvenuto nel 1980. Il nuovo insediamento urbano si adagia sul versante nord dell'altura di Monteruscello a poca distanza dai Campi Flegrei. Il progetto porta la data del 1983 ma gli studi analitici e progettuali iniziano prima e proseguono in seguito durante la fasi di realizzazione del nuovo insediamento. Ciò che del progetto di Monteruscello va subito rilevato (e lodato) è il profondo rispetto per la natura e l'attenta considerazione del paesaggio esistente. Un rispetto e una considerazione che si manifestano nella discrezione con cui vengono adagiati sul fianco della collina i vari settori della città; nell'ammirevole capacità di adattare le costruzioni alla configurazione del terreno; nell'abilità di seguire l'inclinazione del pendio creando successivi terrazzamenti posti a quote leggermente digradanti; nella decisione di adeguare i principali assi urbani all'andamento orizzontale delle curve di livello, creando collegamenti secondari perpendicolari ai primi e disposti secondo l'inclinazione del pendio; e infine nella scelta di volumi dalle dimensioni alquanto contenute dimostrando in ciò una decisa avversione al funesto mito del grattacielo già allora esaltato e dilagante. A Monteruscello, a spiccare sono gli edifici pubblici che si notano per la loro maggiore dimensione planimetrica, non per quella altimetrica. Tutti sono preceduti da uno slargo, da un sagrato, da una piazza. Lo spazio vuoto che li preannuncia è il modo più efficace di esaltarne l'importanza urbanistica, il segno della loro rilevanza civica e sociale. Si tratta indubbiamente di un omaggio alla lezione appresa dal passato, dalla città storica italiana ed europea. Lo slargo rettangolare di forma allungata che occupa il centro di Monteruscello non è altro che il foro civico delle antiche città romane o l'agorà pubblica delle città greche.

Il progetto per Monteruscello suscita tuttavia qualche perplessità. Malgrado uno studio accurato e dettagliato delle preesistenze architettoniche sia rustiche che urbane, spiace constatare che non vengano prese in considerazione le tradizionali tipologie di fabbricati raccolti intorno a una corte. Queste erano state rilevate da Renna e dai suoi allievi durante le loro minuziose analisi urbanistiche, eppure nel nuovo insediamento di Monteruscello non vengono richiamate in alcun modo. Nella veduta prospettica del progetto che illustra il frontespizio del libro, ogni isolato è caratterizzato da due corpi di fabbrica gemelli, abbinati e paralleli, orientati nella stessa direzione e ripetuti uniformemente sull'intera area edificata. Questa ininterrotta reiterazione suscita una gradevole impressione di ordine e regolarità ma al tempo stesso evoca una spiacevole sensazione di uniformità e monotonia. L'impianto adottato da Renna è evidentemente ripreso dagli esempi urbanistici proposti dal Razionalismo italiano d'anteguerra. Ma mentre le planimetrie razionaliste avevano una precisa ragione ideologica perché manifestavano la nobile volontà di opporsi all'urbanistica monumentale e retorica del regime fascista, qui a Monteruscello questi stessi assetti perdono l'originario significato polemico e, non rappresentando più un simbolo di lotta politico-culturale, risultano meno comprensibili, ingiustificate. Bisogna tuttavia dare atto a Renna di aver saputo evitare in questo progetto ogni monumentalismo, ogni enfasi accademica, e di aver adottato un'architettura potenzialmente a misura d'uomo, facilmente comprensibile dal cittadino comune, familiare alla gente del luogo: un'architettura che rifugge da un linguaggio magniloquente e autoritario per adottare un modo di esprimersi semplice e democratico. 

 

Napoli, Pescara e Milano: una tradizione di ricerca analitica e progettuale

Oltre alle opere e ai progetti di Renna, nel libro curato da Capozzi, Nunziante e Orfeo vengono ricordate le due Scuole, allora Facoltà, di architettura di Pescara e Napoli dove tra il 1970 e il 1980 Renna operò: scuole cresciute in stretto contatto con il movimento di "Tendenza" formatosi a Milano negli stessi anni, caratterizzate da un atteggiamento culturale comune, da un interesse orientato verso i medesimi obiettivi, da una ricerca rivolta agli stessi campi del sapere. Tra i caratteri essenziali di questo filone culturale possiamo ricordare: in primo luogo il rifiuto dell'International style, lo stile diffusosi nel dopoguerra e succeduto all'architettura del Movimento moderno europeo di cui altro non era che una goffa e superficiale imitazione; in secondo luogo, la volontà di un ritorno a un'architettura essenziale, semplice, razionale, un'architettura conforme a uno spirito di rigore e rifiuto di ogni pleonasmo sulla traccia di una solida razionalità derivata dalla volontà di condividere la ferrea ideologia dell'Illuminismo; in terzo luogo, la rivalutazione della Ragione, la necessità cioè di stabilire un ordine, una misura, un equilibrio, una chiarezza tanto nella formulazione dei principi teorici quanto nella loro applicazione pratica. Si aborrono così le forme eccessivamente complicate, si rifiuta il gioco esasperato dei volumi, si condannano le planimetrie inutilmente articolate. Lo studio analitico dell'edilizia passata e presente, l'esame approfondito degli esempi e delle testimonianze ereditate dalla Storia e, infine, l'insegnamento dei Maestri del passato avrebbero dovuto essere, secondo la linea culturale delle tre scuole di architettura, la base per una seria conoscenza della disciplina e la premessa per un suo esercizio positivo e costruttivo. Contrapponendosi a una diffusa, superficiale e irresponsabile pratica professionale, a un esercizio corrente e commerciale del mestiere, a una tendenza volta a riproporre acriticamente modelli insignificanti e banali divulgati da scadenti pubblicazioni di settore, le Facoltà di Napoli, di Pesaro e di Milano contrappongono un serio e scientifico approfondimento dell'attività progettuale nella convinzione che solo lo studio, la ricerca e l'analisi avrebbero potuto garantire una progettazione attendibile e socialmente utile. Nell'attuare il loro rigoroso programma, tuttavia, i protagonisti delle tre università a volte eccedono in atteggiamenti severi ed intransigenti tanto da risultare perfino faziosi. Essi, per esempio, escludono dal loro campo di studi la corrente del Movimento moderno riconducibile all'Architettura organica; non rivolgono nessuna attenzione a opere esemplari realizzate nei paesi nordici; giudicano di interesse secondario un architetto come Alvar Aalto, il massimo maestro dell'Empirismo scandinavo. Una parzialità che solo in parte è giustificata dalla convinzione della necessità di proporre un'architettura risolutamente contraria a quell'edilizia scadente da tutti i punti di vista che dal dopoguerra stava trasformando il paesaggio italiano e, in generale, quello dei paesi occidentali. 

Nella loro determinata e difficile azione tanto Agostino Renna quanto i suoi molti colleghi attivi nelle tre università di Napoli, Pescara e Milano hanno condotto un'ammirevole riflessione teorica; hanno dato prova di profondo rigore e di onestà intellettuale; hanno indicato un indirizzo salutare nel panorama confuso e contradditorio dell'architettura italiana del dopoguerra. Mentre la maggioranza dei professori universitari si mostrava sorda e insensibile alla didattica da loro adottata, mentre gran parte dei docenti sottovalutava l'importanza dell'analisi, della ricerca, dello studio, alcuni bravi architetti delle Scuole di architettura indirizzavano i loro allievi a svolgere indagini urbanistiche approfondite e dettagliate allo scopo di conoscere adeguatamente il territorio per il quale avrebbero poi dovuto elaborare i loro progetti. Erano insegnanti seri, ricercatori coscienziosi, architetti illuminati che deploravano e rifiutavano progetti condotti in modo affrettato e superficiale; che insistevano sull'importanza di una seria preparazione teorica; che esigevano prima di ogni progetto un metodico studio preliminare. Per Renna si trattava addirittura di "una questione etica [da intendersi] come momento primo del lavoro scientifico che riguarda[va] la coerenza e l'assunzione di responsabilità da parte del ricercatore" (p. 72). Un approccio che, ancor oggi, costituisce un insegnamento che non dobbiamo dimenticare. 

 

Conclusioni

Quello che emerge dalla lettura dei diversi saggi che compongono il libro è un ritratto di Agostino Renna vivace e incisivo, sfaccettato e poliedrico come lo sono i punti di vista dei vari autori che ricordano l'amico (2), tutti ugualmente concordi nel riconoscere in Renna una personalità appassionata e entusiasta, un professionista totalmente impegnato nell'attività di studioso e di progettazione, un docente dedicato con generoso e instancabile impegno al compito di educare e stimolare gli studenti. Con questo libro la sua lezione e il suo esempio arrivano anche a noi che non lo abbiamo mai incontrato e che non abbiamo potuto apprezzarne il valore per esperienza diretta. È dunque una fortuna che con questa pubblicazione si riaccenda l'interesse per i suoi scritti, i suoi pensieri, i suoi progetti e le sue opere. 

Jacopo Gardella

 

 

Note

(1) I. Ferrero, L. Fusco, V. Mendicino e F. D. Moccia.

(2) Piero Salatino, Mario Losasso, Renato Capozzi, Pietro Nunziante, Camillo Orfeo, Valeria Pezza, Roberto Collovà, Francesco Infussi, Francesco Domenico Moccia, Pasquale Belfiore, Rejana Lucci, Silvia Malcovati, Lilia Pagano, Carmine Piscopo, Federica Visconti, Pierpaolo Gallucci, Francesco Escalona, Salvatore Bisogni, Gaetano Fusco, Gianni Cosenza, Carlo A. Manzo.

 

 

N.d.C. - Jacopo Gardella, architetto, ha iniziato la sua carriera professionale con il padre Ignazio. Assistente universitario di Pier Giacomo Castiglioni e Aldo Rossi, ha insegnato, come docente a contratto, nelle Facoltà di Architettura di Pescara-Chieti, Torino, Venezia, Ascoli Piceno e Milano-Bovisa. Ha collaborato con "L'Europeo", la Radio Svizzera Italiana e "La Repubblica". Tra le sue opere: sezione italiana della XIV Triennale di Milano, con M. Platania, I° premio (1968); sala di lettura del Politecnico di Milano (1994-2000); adeguamento del Teatro G. Rossini a Pesaro, con A. Ciccarini, I° premio (1997-2003); arredo della "Sala Lalla Romano" all'interno della Pinacoteca di Brera a Milano (2013). 

Per Città Bene Comune ha scritto: Mezzo secolo di architettura e urbanistica. Dialogo immaginario sulla mostra "Comunità Italia", 5 marzo 2016.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

13 APRILE 2017

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di dibattito sulla città, il territorio e la cultura del progetto urbano e territoriale

a cura di Renzo Riboldazzi

con la collaborazione di Elena Bertani e Oriana Codispoti

 cittabenecomune@casadellacultura.it

 

 

Gli incontri 

2013: programma/present.

2014: programma/present.

2015: programma/present.

2016: programma/present.

 

 

Interventi, commenti, letture

2015: online/pubblicazione

2016: online/pubblicazione

2017:

G. Tagliaventi, Il marchio di fabbrica delle città italiane, commento a: F. Isman, Andare per le città ideali (il Mulino, 2016)

L. Colombo, Passato, presente e futuro dei centri storici, commento a: D. Cutolo, S. Pace (a cura di), La scoperta della città antica (Quodlibet, 2016)

F. Mancuso, Il diritto alla bellezza, riflessione a partire dai contributi di A. Villani e L. Meneghetti

F.Oliva, "Roma disfatta": può darsi, ma da prima del 2008, commento a: V. De Lucia, F. Erbani, Roma disfatta (Castelvecchi, 2016)

S.Brenna, Roma, ennesimo caso di fallimento urbanistico, commento a V. De Lucia e F. Erbani, Roma disfatta (Castelvecchi 2016)

A. Calcagno Maniglio, Bellezza ed economia dei paesaggi costieri, contributo critico sul libro curato da R. Bobbio (Donzelli, 2016)

M. Ponti, Brebemi: soldi pubblici (forse) non dovuti, ma, commento a: R. Cuda, D. Di Simine e A. Di Stefano, Anatomia di una grande opera (Ed. Ambiente, 2015)

F. Ventura, Più che l'etica è la tecnica a dominare le città, commento a: D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città (Ombre corte, 2016)

P. Pileri, Se la bellezza delle città ci interpella, commento a: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)

F. Indovina, Quale urbanistica in epoca neo-liberale, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)

L. Meneghetti, Discorsi di piazza e di bellezza, riflessione a partire da M. Romano e A. Villani

P. C. Palermo, Non è solo questione di principi, ma di pratiche, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

G. Consonni, Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare, commento a: A. Emiliani, Il paesaggio italiano (Minerva, 2016)