Renzo Riboldazzi  
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AGOSTINI E SCANDURRA A CITTÀ BENE COMUNE 2019


Le ragioni di un incontro



Renzo Riboldazzi


altri contributi:



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Martedì 7 maggio, alle 18, alla Casa della Cultura di Milano torna Città Bene Comune: settima edizione del ciclo di incontri - curato da chi scrive e prodotto dalla Casa della Cultura con il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano - che dal 2013 contribuisce a stimolare la riflessione e ad animare il dibattito pubblico sui temi della città, del territorio, del paesaggio e delle relative culture progettuali (1). Ospiti del primo incontro saranno Ilaria Agostini (2) e Enzo Scandurra (3) che discuteranno del loro libro, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018) con Alberto Magnaghi - professore emerito di Tecnica e pianificazione urbanistica dell'Università degli Studi di Firenze e cofondatore della Società dei Territorialisti -, Maurizio Tira - professore ordinario di Tecnica e pianificazione urbanistica, rettore dell'Università degli Studi di Brescia e presidente della Società Italiana degli Urbanisti -, Graziella Tonon - già professore ordinario di Urbanistica del Politecnico di Milano, cofondatore e membro della direzione scientifica dell'Archivio Piero Bottoni - e con tutti quanti vorranno partecipare (4).

 

Perché questo libro?

Cominciamo col dire che più che un libro a quattro mani, si tratta quasi di due libri in uno: centonovantadue pagine articolate in due parti (una per ciascun autore) di tre capitoli ciascuna, conclusioni comuni, una bella premessa di Piero Bevilacqua che attribuisce ulteriore peso specifico alle tesi di Agostini e Scandurra - peraltro ampiamente supportate da una ricca e non scontata bibliografia - e, in copertina, un'immagine di Tyche, "la dea che presiedeva al destino delle città". Questo, in sintesi, il corpo di una pubblicazione ben scritta e di agevole lettura da cui emerge un quadro piuttosto sconfortante che pare lì per scuoterci da un sonno durante il quale, senza che ce ne accorgiamo, la nostra casa - quella casa comune di cui parla anche Papa Francesco - e il nostro vivere civile vengono pian piano depredati. Il libro di Ilaria Agostini e Enzo Scandurra, infatti, è qualcosa che va oltre ciò che non troppo sommessamente denuncia nel titolo. Questo lavoro, più che delle miserie e degli splendori - se mai davvero ci fossero stati - dell'urbanistica, è un vivido affresco delle trasformazioni urbane e territoriali avvenute in Italia soprattutto nella seconda metà del Novecento e nel nuovo millennio, fino agli anni più recenti; delle logiche economiche e sociali a queste sottese così come delle leggi o degli strumenti che le hanno regolate; delle condizioni delle città, del territorio, del paesaggio e dell'ambiente italiani attuali, quelle che più direttamente volenti o nolenti riguardano tutti noi. Insomma, questo libro più che una narrazione dei caratteri propri di una disciplina ai più ostica e, ahinoi, spesso priva di qualsiasi appeal, delle sue specificità teoriche e culturali, più che un tentativo di restituirne i saperi accumulati negli anni e oggi potenzialmente disponibili, pare essere il sofferto racconto del contesto in cui ha operato e sta tuttora, il più delle volte vanamente, operando; degli effetti concreti che ha avuto e che sta avendo il suo (ma non solo il suo) agire progettuale o gestionale e, soprattutto, del suo appiattirsi a condizioni contingenti abbandonando ogni tentativo di imprimere una qualsivoglia direzione alternativa a quella imposta dalle leggi del mercato; dei temi e delle questioni che - secondo gli autori - sarebbe corretto e perfino giusto affrontare. Già perché Agostini e Scandurra rifuggono da ogni tentativo di ridurre l'urbanistica in quanto disciplina a una tecnica e - a nostro avviso assai giustamente - non riescono a immaginarla se non nel quadro di un agire etico rispettoso di chiari valori civili e culturali, seppur improntato a una precisa ma onestamente esplicita visione politica della società. Un punto di vista partigiano, dunque, che evidentemente non necessariamente può essere condiviso da tutti e probabilmente neppure dai più che, tuttavia, appare utile a perseguire uno degli obiettivi fondativi di Città Bene Comune: quello di contribuire ad accrescere una consapevolezza critica diffusa circa le condizioni dei contesti in cui viviamo e le trasformazioni recenti, in corso o del prossimo futuro che li/ci riguardano.

 

Un'introduzione alle tesi di Enzo Scandurra (e qualche elemento di discussione)

Enzo Scandurra associa i momenti gloriosi dell'urbanistica a quelli in cui - nelle teorizzazioni, nelle esperienze progettuali, nelle pratiche amministrative, nel processo di codificazione normativa e nelle concrete opere di trasformazione della città e del territorio - più forte è stata la carica ideale e utopica, la spinta verso una società più equa. Dunque, sostanzialmente, quelli prossimi alla nascita tanto della città moderna quanto della stessa urbanistica moderna, quando più evidente era la ricerca di "una forma urbis più consona alle prerogative e alle aspettative di una classe subalterna costretta - scrive - a vivere in condizioni fisiche, oltreché sociali, miserabili" (p. 22). Oppure quando, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, l'urbanistica "era ancora animata dalle grandi lotte per la casa, per i servizi sociali, per le scuole, per l'attenzione posta ai centri storici in via di spopolamento e abbandono", quando cioè ancora "sembrava potesse cambiare le sorti del malsviluppo legato alla rendita e ai grandi profitti" (p. 24). Invece, il suo strutturarsi in disciplina in cui è prevalsa la componente tecnica - e dunque, immaginiamo noi, l'applicazione acritica di regole e prassi progettuali -, il suo "debole statuto epistemologico" (p. 27), il suo farsi "potente strumento nelle mani dei governanti" (p. 27) e, non ultimo, la sua presunta accettazione dello "'spirito del tempo', [ovvero] la disuguaglianza come condizione naturale, come 'male minore'" hanno - secondo l'autore, ma anche secondo noi - reso l'urbanistica "una disciplina triste, fatta di norme tecniche comprensibili solo agli addetti ai lavori e del tutto subalterne al dominio neoliberista" (p. 29). Soprattutto, una disciplina che ha lasciato nelle città e sul territorio in cui viviamo - per ragioni diverse e non sempre ad essa direttamente riconducibili - una serie infinita di ferite, più o meno profonde, che, ammesso lo si voglia fare, sarà difficile rimarginare nel breve-medio periodo.

È lo stesso Scandurra a riaprirle. Si parte, com'è fin troppo ovvio, dai molti "quartieri di edilizia pubblica residenziale, come Le Vele di Scampia a Napoli, Tor Bella Monaca, Laurentino 38 e Corviale a Roma; lo Zen di Palermo" (p. 29). Si passa per il celeberrimo esperimento de La Martella a Matera in cui, contrariamente alle aspettative di un ampio fronte culturale progressista mosso dalle migliori intenzioni, "molti degli abitanti dei Sassi si rifiutano di andarci, altri, dopo un breve periodo di permanenza, ritornano a occupare i Sassi, altri ancora emigrano fuori dall'Italia" (p. 33). Si arriva al fenomeno dell'abusivismo diffuso. Alle tante opere pubbliche realizzate in deroga ai piani regolatori in occasione dei grandi eventi che ciclicamente convogliano fiumi di denaro da spendere in fretta e furia in questa o quella città. All'edificazione dissennata delle campagne intorno a grandi e piccoli centri urbani dove, tra centri commerciali, sciami di villette, condomini, fabbriche, fabbrichette, fabbricone sorte in ordine sparso e un profluvio di strade, superstrade, rotonde, cavalcavia e sottopassi scorre la vita di molti italiani. Scandurra attribuisce questa situazione alla "svolta neoliberista dell'urbanistica" (p. 44). Al passaggio dal piano inteso come strumento con cui una comunità decide del destino del proprio territorio alla contrattazione pubblico/privato fuori da un quadro di regole condiviso e prestabilito dove il più delle volte l'investitore, l'operatore privato, tiene il coltello dalla parte del manico agendo, seppur legittimamente, non certo nell'interesse della collettività. Al progressivo indebolimento delle leggi che per qualche decennio hanno faticosamente regolato non solo l'edificazione del territorio italiano, le trasformazioni urbane e rurali, ma anche la destinazione d'uso delle aree e degli immobili. Con evidentissimi impatti, per esempio sui centri storici più belli d'Italia dove gli appartamenti sono diventati uffici di rappresentanza o case per i turisti, le piccole attività artigianali hanno lasciato spazio alle boutique di lusso, le caserme o i monasteri sono stati trasformati in grandi alberghi. Dove il processo di espulsione delle classi sociali economicamente più deboli è andato di pari passo con quello delle attività lavorative. Dove lo spazio pubblico, invece che luogo di rappresentazione e identificazione delle vecchie e nuove comunità, ha finito con l'essere anch'esso snaturato nella sua intima natura e preda di analoghi appetiti.

Certo, "molti urbanisti hanno avuto un ruolo attivo o di fiancheggiamento di questa mutazione genetica" dell'urbanistica (p. 60). E, altrettanto certamente, "se gli urbanisti, così solerti nel cercare commesse, sentissero sulle proprie spalle - come correttamente sostiene Scandurra - il peso di queste responsabilità, allora un buon uso della tecnica semmai potrebbe aiutarli a migliorare le condizioni delle nostre città e dei nostri disastrati territori" (p. 63). Ma possiamo davvero attribuire all'urbanistica - intendiamo dire al progetto urbano e territoriale, a ciò che concretamente gli urbanisti fanno e possono fare nel quotidiano con le frecce spuntate che hanno a disposizione, la miriade di norme contraddittorie con cui hanno a che fare, i tortuosi percorsi burocratici e le 'forche caudine' degli organi amministrativi attraverso cui i progetti devono passare (commissioni, uffici tecnici, consigli, assessorati), con quella debolezza scientifica che caratterizza il loro sapere spesso inadeguato a contrastare le pressioni della politica e della società ma anche a interpretare criticamente e in una prospettiva progettuale la realtà e le aspettative sociali - la causa di questo finimondo? Non sarà giunto il momento di riconsiderare e ricondurre l'attività dell'urbanista in un alveo, certo ampio e di significativa importanza per tutti noi, senza immaginare che possa essere onnicomprensivo della vita delle città e delle sue comunità - cosa che invece talvolta nel corso del Novecento si è avuto la presunzione di fare - restituendo alla politica, all'economia e, più in generale, alla società responsabilità più ampie che gravano anche sulle loro spalle? L'urbanistica - osserva Scandurra - è una pratica relativamente giovane che "non ha raggiunto il grado di maturità che permette alla fisica o alla chimica, per esempio, di svilupparsi in modo autonomo, al riparo delle influenze ideologiche e culturali" (p. 86). Tuttavia, e forse proprio per questo, non sarà il caso non tanto di definire una tecnica urbanistica - cosa che è stata tentata per tutto il corso del secolo scorso -, ma almeno di mettere ordine in un magmatico sapere facendo tesoro, laicamente, dell'esperienza, delle ricadute concretamente misurabili nelle città e nei territori di certe scelte, approcci, metodi, anche indipendentemente da una particolare visione politico-culturale della società? Ora, per fare qualche esempio banale, che il consumo di suolo abbia una serie di conseguenze negative è noto e dimostrabile, checché ne dicano alcuni mistificatori; che l'eccessiva edificazione di certe aree comporti l'alterazione di equilibri idrogeologici e sia la migliore premessa a certi disastri che difatti regolarmente avvengono, pure; che la dispersione dell'edificato sul territorio sia, tra le altre cose, la precondizione all'uso dell'automobile e, di conseguenza, alla produzione di agenti inquinanti dell'aria, anche. Allora, non è forse giunto il momento per gli urbanisti, ma anche per i politici e gli amministratori che rappresentano tutti noi, di fondare il proprio operare su fatti concreti, di riconoscere e discernere il grano dal loglio; di isolare, come avviene in ambito medico, chi cura il cancro con acqua e zucchero da chi, onestamente, fonda il proprio lavoro su tangibili basi scientifiche o almeno su pratiche oggettivamente 'buone' per tutti?

 

Un'introduzione alle tesi di Ilaria Agostini (e qualche elemento di discussione)

Tra le questioni che Enzo Scandurra considera aperte e sulle quali una riflessione urbanistica, ma anche della società nel suo insieme, meriterebbe ulteriori e tangibili approfondimenti, c'è quella della bellezza delle città e del territorio (che l'autore non immagina sganciata dalle virtù civiche delle comunità); quella delle periferie (non solo fatto geografico ma prima di tutto sociale dove "le disuguaglianze, la miseria, la marginalità e, infine, l'abbandono" la fanno da padroni) (p. 76); il tema della partecipazione (idealmente pratica bella e condivisibile, nei fatti spesso strumento per oliare ingranaggi di meccanismi governati altrove); le pratiche di resilienza e rigenerazione (termini di moda nel dibattito urbanistico utilizzati - sostiene l'autore - al di là del loro vero significato). Il saggio di Ilaria Agostini, invece, muove dal controverso rapporto tra urbanistica ed ecologia. Per Agostini, l'ecologia chiama, senza ombra di dubbio, "l'urbanista a pianificare città e territori secondo principi improntati all'accudimento dell'habitat per il suo integro e migliorato tramando, alla costruzione di fertili relazioni tra individuo, società e il loro comune ambiente, alla ricerca di un rapporto virtuoso tra produzione di materie necessarie alla vita e riproduzione del vivente" (p. 89). Cose su cui non si può che concordare che, tuttavia, nei fatti contrastano duramente con la realtà in cui siamo immersi. Spessissimo, infatti, le trasformazioni urbane e territoriali che avvengono intorno a noi o di cui quotidianamente leggiamo sui giornali sono l'esito di scelte fondate su principi assai distanti da questi, primo tra tutti quello della valorizzazione della rendita immobiliare e fondiaria. Pensiamo agli interventi urbanistici più importanti che sono stati realizzati nelle città italiane negli ultimi decenni. Oppure al dibattito sul futuro delle grandi aree in disuso presenti in molte realtà urbane (stabilimenti industriali, caserme, scali ferroviari). Facilmente ci accorgeremo che più che di 'accudimento dell'habitat', più che di 'rapporto virtuoso tra produzione di materie necessarie alla vita e riproduzione del vivente', ciò di cui più comunemente si parla sono i metri cubi edificabili in una melensa retorica condita dai mantra della 'smart city', della 'sostenibilità' o da quello - dicevamo prima - della 'partecipazione'.

Non che di questioni ecologiche non si parli, intendiamoci. Non c'è progetto architettonico o urbano che la stampa non presenti come 'green' ma nei fatti - frequentemente complici certi 'esperti' di paesaggio che non fanno che imbellettare il cemento con il verde - assistiamo a quello che Ilaria Agostini definisce il "tradimento del pensiero ecologista" (p. 107), ovvero a una "traduzione amministrativa delle istanze ecologiche che […] non rimette in discussione la 'spirale espansionistica' del modello capitalista, né mira 'a una pacificazione dei rapporti con la natura o alla riconciliazione'" (p. 108). Insomma, per l'autrice sembra "legittimo chiedersi se [l'urbanistica] si sia infine ridotta a mero strumento a disposizione della rendita fondiaria ed edilizia, del capitale finanziario" (p. 112) che tutto persegue tranne il bene comune e quali possano essere le vie d'uscita da questa situazione. Il primo passo da compiere sembra essere quello in difesa del suolo a partire da una riattribuzione di senso al concetto stesso. "Rendere dignità filosofica al suolo - sostiene Agostini - corrisponde a conferire centralità a 'esperienza e memoria' in esso contenute e a fornire la basi teoriche per nuovi progetti territoriali in chiave ecologica" (p. 101). Un approccio che ci faccia guardare al "territorio non costruito [non più come] puro supporto per l'espansione urbana, tramutando[lo] in specifico oggetto di tutela e di progetto, orientato al mantenimento e alla riproduzione dei caratteri di pregio paesaggistico-ambientale" (p. 103). Una vera e propria presa di coscienza collettiva, dunque, che non potrà maturare se non supportata da una battaglia politico-culturale a tutto campo. Condotta dai professionisti più responsabili che, analogamente al giuramento di Ippocrate dei medici, dovrebbero impegnarsi a "usare la propria scienza soltanto a vantaggio dell'umanità, dello 'spazio comune' e dell'interesse collettivo" (p. 113). Condotta dagli amministratori più seri evitando, pur con sacrifici per le casse comunali, di percorrere "a braccetto coi potentati economici la strada della valorizzazione monetaria del territorio, o meglio, dei terreni" (p. 115) e dunque, in sostanza, bloccare o almeno contenere il consumo di suolo. Condotta dagli imprenditori più illuminati sfuggendo da quel "circolo vizioso [in cui per ragioni finanziarie] le imprese costruiscono solo per poter continuare a costruire" e non per rispondere a effettive esigenze della società (p. 116). Condotta dai gruppi spontanei di cittadini che, sempre più frequentemente, "lavorano per ampliare la consapevolezza che lo sperpero di terreno agricolo non solo costituisce la sottrazione di un bene comune raro, ma in termini ecologici 'rappresenta la predisposizione di un danno certo'" (p. 131). Condotta infine dai politici più vocati al perseguimento del bene collettivo definendo leggi che, contrariamente a quanto sta accadendo, vadano nella direzione di evitare di "prevedere quote di territorio agricolo 'consumabili' inserite ineluttabilmente nella 'catena produzione-consumo-spreco-distruzione'" (p. 133). Insomma, per Ilaria Agostini - come, peraltro, per Alberto Asor Rosa che la stessa cita più volte nel testo - "la difesa del territorio è un'attività schiettamente politica, nella quale analisi e progetto, riflessione critica e mobilitazione sono saldamente congiunte" (p. 127).

Il passo successivo che Agostini ci indica per ritrovare un equilibrio tra città e campagna, tra economia, ambiente e società sembra agire su due registri. Il primo prende le mosse da esperienze di portata limitata ma - ritiene l'autrice - assai significative, come quelle "rurali microterritoriali mirate - scrive - a una nuova, inedita coalizione tra cittadini e neorurali che avrebbe potuto favorire un processo di rifondazione dell'urbano e, al contempo, di rinascita delle campagne" (p. 94). Lewis Mumford, Patrick Geddes, Ivan Illich, Gandhi e altri ancora sono le stelle polari che la guidano nella sua riflessione dal punto di vista teorico che va anche alle radici del movimento ecologista. Di fondo, quella che Agostini porta avanti è una forte critica alla metropoli o, meglio, alla "megalopoli, 'né urbana né rurale', [che - afferma -] non concede spazio alla comunità e alla socialità, ma coagula ghetti ed enclaves dove agiscono processi di privatizzazione, esclusione ed espulsione" (p. 98). Quella che, al contrario, immagina per il futuro dell'umanità è "una società conformata al proprio ecosistema […] capace di mettere in atto tecniche e politiche virtuose" (p. 99) in grado di reggersi su quelle risorse locali sempre più trascurate a favore di prodotti di territori lontani, sfruttati come lo sono spesso le loro popolazioni. Un'azione di contrasto alla marginalità a cui sono sempre più evidentemente costrette anche le aree interne del nostro Paese fondata sulla "cura e la manutenzione capillare dei luoghi" (p. 95) e, contemporaneamente, sul fronte opposto - questo è il secondo registro della riflessione di Agostini - un'azione di riappropriazione delle città e dello spazio pubblico da parte dei cittadini e nel nome del diritto alla cittadinanza. Su questo fronte è a Simone Weil, Hannah Arendt e Françoise Choay che Ilaria Agostini guarda. "Lo spazio comune (città, edifici collettivi, giardini, piazze ecc.), grazie alla sua permanenza, obbliga - sostiene l'autrice - al ricordo di comportamenti sociali e ha la facoltà di 'promuovere un sistema di valori giuridici e morali' nel tempo" (p. 144). Ciò che va contrastato - secondo Agostini - è la privatizzazione dello spazio pubblico, la limitazione all'accesso nelle città o in certe loro aree, l'omologazione e lo sfruttamento commerciale dei centri storici, la vendita delle case popolari e la svendita delle grandi proprietà pubbliche inutilizzate che, al contrario, dovrebbero diventare occasioni per rifondare urbanità. Come per il territorio, la ricetta proposta dall'autrice è quella di far tesoro dei movimenti, delle azioni, delle esperienze che vengono "dal basso", ovvero di quelle pratiche proattive che, più o meno spontaneamente, stanno prendendo corpo in alcuni contesti indicando la presenza di un sapere critico diffuso e, al tempo stesso, il desiderio e la possibilità di una rotta diversa.

 

Conclusioni

Anche il saggio di Ilaria Agostini, pur solido nelle sue argomentazioni, si presta a più d'una considerazione. Potremmo chiederci, per esempio, se davvero tutto ciò che viene "dal basso", e magari abbia una natura "antagonista" rispetto al sistema, sia davvero, per sua natura, positivo e vada nella direzione che l'autrice auspica e, qualora così non fosse, come potremmo fare per discernere democraticamente e in modo universale tra ciò che ci appare giusto e ciò che a livello collettivo può essere considerato sbagliato. Oppure se la vita nelle piccole comunità rurali, dal punto di vista sociale, accanto ai vantaggi che l'autrice esplicita, non abbia anche qualche evidente controindicazione sul fronte, per esempio, delle libertà personali e del controllo sociale. O, ancora - come per Scandurra - se la situazione oggettivamente critica di città, parti di città, territori e paesaggi sia proprio tutta riconducibile all'azione dell'urbanistica e dell'urbanista, alle sue matrici culturali e alle sue azioni progettuali, o non sia invece l'esito di processi assai più complessi dove questa disciplina e chi la pratica hanno un ruolo significativo ma, nei fatti, oggettivamente limitato, forse anche fin troppo circoscritto. Al netto di questo e altro ancora, tanto il saggio di Ilaria Agostini quanto quello di Enzo Scandurra sono un utile e generoso supporto a una riflessione su quale città, quale territorio, quale paesaggio vorremmo per noi e per chi verrà dopo di noi e, di conseguenza, quale urbanistica crediamo necessario praticare. Sicuramente "l'ampliamento dello sguardo interpretativo [proposto in questo libro] contribuisce a ricollocare la materia urbanistica oltre la dimensione meramente tecnica che la vuole in ruolo ancillare rispetto al potere economico, a riconnotare socialmente il mestiere dell'urbanista, a collocarne l'azione in un quadro di consapevolezza ecologica ed etico-politica [in cui] nuove sintesi e nuovi linguaggi potranno […] arricchire la povertà d'idee del presente" (p. 170).

Renzo Riboldazzi

 

 

 

Note
1) L'iniziativa è patrocinata dall'Istituto Nazionale di Urbanistica e dalla Società Italiana degli Urbanisti e si svolge con la collaborazione dell'Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Milano e dell'Ordine degli Ingegneri della Provincia di Milano.

2) Ilaria Agostini architetto, dottore di ricerca, è ricercatrice in Pianificazione e progettazione urbanistica e territoriale presso il Dipartimento di Beni Culturali dell'Università di Bologna. Oltre che in questo ateneo, ha insegnato alla Facoltà di Architettura dell'Università degli Studi di Firenze, alla Facoltà di Agraria dell'Università degli Studi di Perugia, all'Institut d'Architecture-Université de Genève e alla Universidade Federal de Minas Gerais (Brasile). Dal 2015 è membro del collegio dei docenti del dottorato di ricerca in Ingegneria dell'architettura e dell'urbanistica dell'Università di Roma "La Sapienza". Tra i suoi ultimi libri: Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana (prefazione di Vandana Shiva, Ediesse, 2015); (a cura di), Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014 (Aión, 2016); (a cura di), con Piero Bevilacqua, Viaggio in Italia. Le città nel trentennio neoliberista (manifestolibri, 2016); con Enzo Scandurra, Lidia Decandia e Giovanni Attili, La città e l'accoglienza (manifestolibri, 2017); (a cura di) Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell'Emilia-Romagna (prefazione di Tomaso Montanari, Pendragon, 2017); con Enzo Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018). Per Città Bene Comune ha scritto: Spiragli di utopia: Lefebvre e lo spazio rurale (1 febbraio 2019).
3) Enzo Scandurra, già Ordinario di Urbanistica, ha insegnato Sviluppo Sostenibile per l'Ambiente e il Territorio all'università La Sapienza di Roma, dov'è stato direttore di Dipartimento e coordinatore del Dottorato di Ricerca in Ingegneria per l'Architettura e l'Urbanistica. Membro del consiglio scientifico di diverse riviste nazionali e internazionali, è tra i soci fondatori della Società dei Territorialisti e collabora a "il manifesto". Tra i suoi ultimi libri: Vite periferiche (Ediesse, Roma, 2012); Il pianeta degli urbanisti e dintorni (con G. Attili, a cura di, Derive Approdi, Roma, 2012); Pratiche di trasformazione dell'urbano (con G. Attili, Franco Angeli, Roma, 2013); Recinti urbani. Roma e luoghi dell'abitare (Manifestolibri, Roma, 2014); con I. Agostini, G. Attili, L. Decandia, La città e l'accoglienza (manifestolibri, 2017); Fuori squadra (Castelvecchi, 2017); Exit Roma (Castelvecchi, 2019). Per Città Bene Comune ha scritto: La strada che parla (26 maggio 2017); Dall'Emilia il colpo di grazia all'urbanistica (19 ottobre 2017).
4) Per un'utile introduzione al dibattito, v. anche: G. Consonni, In Italia c'è una questione urbanistica? (15 giugno 2018); F. Indovina, Non tutte le colpe sono dell'urbanistica (14 settembre 2018); D. Patassini, Urbanistica: una pratica più che una disciplina (14 dicembre 2018).

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

03 MAGGIO 2019

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019:

C. Saragosa, Aree interne: da problema a risorsa, commento a. E. Borghi, Piccole Italie (Donzelli, 2017)

R. Pavia, Questo parco s'ha da fare, oggi più che mai, commento a: A. Capuano, F. Toppetti, Roma e l'Appia (Quodlibet, 2017)

M. Talia, Salute e equità sono questioni urbanistiche, commento a: R. D'Onofrio, E. Trusiani (a cura di), Urban Planning for Healthy European Cities (Springer, 2018)

M. d'Alfonso, La fotografia come critica e progetto, commento a: M. A. Crippa e F. Zanzottera, Fotografia per l'architettura del XX secolo in Italia (Silvana Ed., 2017)

A. Villani, È etico solo ciò che viene dal basso?, commento a: R. Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città (Feltrinelli, 2018)

P. Pileri, Contrastare il fascismo con l'urbanistica, commento a: M. Murgia, Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi, 2018)

M. R. Vittadini, Grandi opere: democrazia alle corde, commento a: (a cura di) R. Cuda, Grandi opere contro democrazia (Edizioni Ambiente, 2017)

M. Balbo, "Politiche" o "pratiche" del quotidiano?, commento a E. Manzini, Politiche del quotidiano (Edizioni di Comunità, 2018)

P. Colarossi, Progettiamo e costruiamo il nostro paesaggio, commento a: V. Cappiello, Attraversare il paesaggio (LIST Lab, 2017)

C. Olmo, Spazio e utopia nel progetto di architettura, commento a: A. De Magistris e A. Scotti (a cura di), Utopiae finis? (Accademia University Press, 2018)

F. Indovina, Che si torni a riflettere sulla rendita, commento a: I. Blečić (a cura di), Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo (FrancoAngeli, 2017)

I. Agostini, Spiragli di utopia. Lefebvre e lo spazio rurale, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018)

G. Borrelli, Lefebvre e l'equivoco della partecipazione, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018); La produzione dello spazio (PGreco, 2018)

M. Carta, Nuovi paradigmi per una diversa urbanistica, commento a: G. Pasqui, Urbanistica oggi (Donzelli, 2017)

G. Pasqui, I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza, commento a: L. Gaeta, La civiltà dei confini (Carocci, 2018)

 

 

 

 

 

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