La porta rossa. 70 anni di casa della cultura tra storia e storie

La porta rossa sta suscitando interesse e discussione. Ne sono testimonianza preziosa le recensioni di Fulvio Papi, Mario Vegetti e Carlo Sini che, data l’importanza e la qualità, voglio riportare anche  qui nel mio blog. Sono importanti anche alcune presentazioni che sono già state organizzate in città, al Gratosoglio e a Baggio. Altre sono in preparazione.

LA PORTA ROSSA: 70 ANNI TRA STORIA E STORIE
Nel libro di Capelli il senso profondo della Casa della Cultura
di Fulvio Papi

La porta rossa di Ferruccio Capelli, direttore della Casa della Cultura, è una ricostruzione storica di questa istituzione milanese nata nel 1946 e tuttora in piena attività con un programma che investe tutte le forme culturali emergenti sia a livello nazionale che internazionale.

È un libro nel quale la ricerca storica, pur sempre adeguata, non si arena nella descrizione di ‘fatti’ che hanno costituito la tessitura di settant’anni di vita della Casa della Cultura, ma ne coglie sia il senso puntuale che la ricchezza e la problematicità delle sue trasformazioni, adeguate ai cambiamenti culturali, sociali ed epocali del tempo contemporaneo. È del tutto corretto dire che l’autore riesce sempre a cogliere il senso che la Casa della Cultura riesce a dare al suo operare nel contesto, sempre più difficile da rappresentare, dei mutamenti del mondo contemporaneo. La prima osservazione che viene ovvio di fare è come una istituzione culturale abbia potuto riprodurre se stessa, replicando nella contemporaneità il senso e il metodo delle sue origini. La risposta dei Capelli è semplice e definitiva: la Casa della Cultura non ha mai rispecchiato se stessa in un contesto culturale statico e in una modalità operativa circoscritta, ha piuttosto trovato la sua identità in una apertura al mondo contemporaneo che in poche decine di anni è parso imparagonabile con il suo profilo precedente, a cominciare dalla trasformazione degli equilibri internazionali e degli assetti economici, passando per le fondamentali emergenze storiche e la caduta di sintesi filosofiche e storiche, per giungere alle nuove identità politiche e alle attuali modalità informatiche della comunicazione.

È un elenco che potrebbe allungarsi a una ulteriore citazione di temi, ma qui si vuole sostanzialmente evidenziare il divenire dell’intelligenza critica della Casa della Cultura e Capelli ne traccia la storia essenziale. Le origini della Casa della Cultura sono in un progetto che prendeva corpo nel pieno del periodo resistenziale a Milano. Banfi, Vittorini e Curiel – dirigente del Fronte della gioventù nella Resistenza, ucciso dai fascisti nel febbraio del 1945 – tracciarono in quei giorni il programma culturale da realizzare nel nostro paese – e, in particolare, nella nostra città – dopo la liberazione dal lungo periodo fascista sfociato in una collaborazione con l’occupazione nazista, soprattutto in funzione della repressione delle forme di resistenza che, già dalla fine del 1943, si diffondevano nel paese, dal Sud non ancora occupato dagli alleati al Nord, dai confini liguri e piemontesi con la Francia al Friuli e alla Venezia Giulia. Un filosofo, Banfi, che aveva rinnovato negli anni precedenti la scena di quel sapere in Italia, uno scrittore come Vittorini che aveva colto nella sua opera la realtà sociale e ideale del paese, uno scienziato, Curiel, che aveva come obiettivo l’affermazione di un razionalismo scientifico, del tutto in ombra nella dittatura fascista e nella tradizione idealista: furono questi i protagonisti di un’iniziativa di rinnovamento della cultura italiana e della sua diffusione nel paese.

Dopo la liberazione, due furono le realizzazioni che incarnarono questo originario progetto: la Casa della Cultura, inaugurata nella primavera del 1946, e la rivista ‘Politecnico’ diretta da Elio Vittorini. Con un’analisi veloce ma sempre puntuale, Capelli rievoca il periodo iniziale, inaugurato dal discorso d’apertura di Ferruccio Parri sul tema della cultura e della morale, e quindi aperto a tutte le iniziative filosofiche, scientifiche, economiche, artistiche che nascevano nella conquistata libertà del paese. La Casa della Cultura voleva riflettere la pluralità di linee tematiche che si propagavano nella cultura italiana, un clima culturale che bene si univa allo spirito della ricostruzione proprio dei primi anni del dopoguerra.

Anche dopo la crisi politica del 1948, questo patrimonio non andò disperso, e riuscì persino a superare le difficoltà che alla fine del ’49 sorsero con lo sfratto della Casa della Cultura dalla sede di via Filodrammatici 5. Furono due anni in cui le poche attività possibili venivano ospitate da altre sedi di enti milanesi. Nel 1951 la liberalità generosa della famiglia Usiglio regalò alla Casa della Cultura un ampio scantinato situato nel centro della città. Con difficoltà questa fu la rinascita della Casa della Cultura, fondamentalmente per l’opera di Rossana Rossanda, allieva di Antonio Banfi, che compì il ‘miracolo’ di garantire alla Casa della Cultura un suo spazio di libertà intellettuale nel quadro della cultura della sinistra italiana. Il ‘miracolo’ nasceva dal contenuto critico delle iniziative di Rossana Rossanda che riusciva a mantenere uno spazio proprio, libero, in un tempo in cui l’egemonia partitica del PCI a sinistra e la fortissima repressione della politica da parte del ministero degli Interni diretto da Scelba dall’altra potevano rendere più che difficile il mantenere la linea originaria della istituzione. La reazione unanime da parte di intellettuali comunisti e socialisti all’invasione sovietica della Ungheria nel ’56 fu la prova decisiva della libera autonomia di pensiero e di azione della Casa della Cultura, la sua stessa condizione di esistenza.

Questo il tratto iniziale ma fondamentale per tracciare poi la continuità di uno stile. È quanto fa brillantemente Capelli nel suo lavoro seguendo analiticamente tutte le vicende storiche salienti che dagli anni Sessanta ci hanno condotto sino ad oggi.

L’autore mostra una sensibilità storica e una informazione preziosa per attraversare questo periodo così accidentato e alla fine caratterizzato da un’espansione mondiale del neoliberismo, dalla nascita di nuove centralità storiche come la Cina, l’India, l’America del Sud, dai movimenti rivoluzionari (o riformisti) che sostenevano la possibilità di un nuovo mondo rispetto a quello che nasceva dagli effetti del mercato mondiale, dominato da investimenti alla ricerca di un facile profitto più che promotore di una evoluzione sociale positiva, e da un capitalismo finanziario che poi condusse alla crisi del primo decennio del nuovo secolo. La cultura reagì sostanzialmente male a fronte della nuova situazione: ‘suonò il piffero’ (per usare le parole di Vittorini) alla globalizzazione capitalista e alla sua ideologia individualista, o si chiuse in quell’orizzonte del post-moderno che allontanava il discorso teorico da ogni presa di posizione nei confronti del mondo storico.

Capelli analizza tutto questo processo con rara capacità sintetica ed espressiva, con l’abilità di mostrare come queste trasformazioni sollecitassero risposte pertinenti e critiche da parte dell’attività della Casa della Cultura. Sino ad oggi, quando l’intelligenza razionale e critica, la fedeltà all’antico metodo di pensiero, deve affrontare la pluralità di eventi storici e sociali che richiedono una disponibilità assoluta di analisi priva di una qualsiasi centralità interpretativa che non sia quella del metodo di lavoro. Capelli individua benissimo questo difficile gioco tra pluralità storico-culturale e unitaria continuità metodica, come un piano aperto di iniziative.

Aggiungerei solo un’osservazione. Oltre allo sguardo sullo svolgersi della temporalità, la Casa della Cultura potrebbe anche divenire il luogo della custodia e della interpretazione di quella straordinaria cultura europea del primo Novecento che è scomparsa, ma che rimane la vera identità di una storia europea conclusasi con il doppio suicidio della prima e della seconda guerra mondiale. È anche questo passato a rafforzare il nostro sforzo di mantenere e di diffondere la nostra identità.

Fulvio Papi

28 gennaio 2016

 

 

LA PORTA ROSSA PER TORNARE AL FUTURO
Nel libro di Capelli l’umanesimo illuminista delle origini e di oggi
di Carlo Sini

La porta rossa di Ferruccio Capelli è davvero un piccolo grande libro. Scritto per celebrare i 70 anni della Casa della Cultura di Milano, ha il pregio straordinario di riuscire a far convergere in una storia molto particolare il senso e la trama di un intero orizzonte di vicende nazionali e internazionali che in questo lasso di tempo hanno attraversato e spesso anche sconvolto le nostre vite.

Si comincia, naturalmente, con le vicende dell’esordio, per molti motivi le più appassionanti, sia per i pochi che, magari giovanissimi, ne furono contemporanei o addirittura testimoni, sia per coloro che oggi ne sanno ormai pochissimo o meno di niente. Le radici della Casa della Cultura nascono infatti nel mezzo della lotta partigiana, come generoso e coraggioso progetto culturale elaborato durante la clandestinità da Antonio Banfi, Eugenio Curiel ed Elio Vittorini. Il progetto trova la sua realizzazione il 16 marzo 1946, quando Ferruccio Parri, ex comandante partigiano e ora primo Presidente del Consiglio della nuova Italia, inaugura la prima sede della associazione culturale. Essa trova espressioni parallele ed emblematiche nella famosa rivista di Vittorini, “Il Politecnico”, e nella rivista di Banfi “Studi filosofici”, vero crogiuolo per la formazione di giovani studiosi. Entrambe, scrisse allora Vittorini, sono l’espressione “di un umanesimo radicale e completo”.

In questa ammirevole formula sono già concentrate le virtù, le avversità e le fortune della Casa della Cultura. Un umanesimo di stampo illuminista, non retorico ma concretamente attivo su tutto il fronte della conoscenza e della scienza; radicale perché connesso profondamente con la lotta politica in favore delle classi lavoratrici e proletarie. Ma i tempi erano oscuri e non poco tempestosi. Capelli li rievoca con grande puntualità ed efficacia.

In senso internazionale, si diffondevano come tentacoli le ambigue e tenebrose vicende della guerra fredda; su scala nazionale spirava il cosiddetto “vento del Nord”, cioè il tentativo di realizzare nelle regioni settentrionali gli ideali più avanzati della guerra partigiana, con profondi quanto occasionali interventi nella società civile e nell’economia. La Casa della Cultura rappresentava il contesto culturale alto e magnanimo di questo impulso verso un reale rinnovamento della società italiana. L’opposizione dei ceti e dei partiti conservatori fu naturalmente fortissima, ma il punto decisivo accadde, come si sa, con la dura condanna del Partito Comunista, attraverso la rivista “Rinascita” e di Togliatti in persona: un movimento culturale che Togliatti e altri dirigenti del Partito giudicarono intellettualista, borghese, elitario, contrario agli interessi storici delle masse popolari, meglio rappresentati da una “cultura nazionale” che si richiamasse per esempio molto più a De Sanctis e a Labriola che non a Sartre e agli intellettuali parigini. L’esito fu disastroso: “Il Politecnico”, dopo l’uscita di Vittorini dal Partito Comunista, cessò ben presto di esistere e analogamente cessò le pubblicazioni anche “Studi filosofici”. Alla fine del 1949 la Casa della Cultura chiuse i battenti.

Riflettere su questa vicenda con il senno di poi è ovviamente facile, ma sarebbe ingenuo e soprattutto ingeneroso non tener conto delle difficilissime situazioni che travagliarono in quei decenni l’Europa, l’Italia e tutto il mondo industrializzato. Costretto a una ferrea dipendenza rispetto all’Unione Sovietica, circondato dalla reazione implacabile degli interessi capitalistici e dalle oscure manovre dei servizi segreti internazionali, obbligato a crescere sì esponenzialmente nelle occasioni elettorali, ma anche a controllare e stabilire certi limiti e modi di ascesa politica nel rispetto di strategie più grandi dei nostri orizzonti nazionali, il Partito Comunista non poteva che avvitarsi in una politica culturale spesso insincera, di mera facciata, di prudente ipocrisia e di continua allerta nei confronti delle sue stesse più creative avanguardie intellettuali. I necessari, o ritenuti tali, tatticismi, per esempio nei confronti della Democrazia Cristiana, non di rado prevalevano sulla libertà di espressione rivendicata dagli esponenti della cultura di sinistra. Forse non era allora possibile altra linea politica; certo fu proprio questa linea a segnare alla lunga la crisi e poi la rovina totale del massimo partito marxista in Europa: una catastrofe alla quale abbiamo assistito negli ultimi decenni e che oggi può dirsi totalmente, e anche amaramente, compiuta. Ma la Casa della Cultura si salvò.

Essa rinacque nel 1951, non senza l’interessamento indiretto dello stesso Togliatti e soprattutto per l’opera intelligente e accorta di Rossana Rossanda, giovane allieva di Banfi: troppo prezioso e urgente era il lavoro di diffusione critica e di innalzamento culturale che la Casa della Cultura aveva avviato a Milano, la capitale morale della giovane repubblica, innalzamento che era ancor più in grado di promuovere nel futuro. Naturalmente le scelte di fondo furono questa volta molto più elastiche, accorte e consapevoli; coscienti cioè dell’inevitabile divorzio che spesso si genera tra le esigenze immediate della politica e le visioni invece libere e lungimiranti della riflessione culturale. Cominciò così una nuova storia. Con una apertura a trecentosessanta gradi su tutta la cultura di stampo progressista, attraverso collaborazioni con il Piccolo Teatro, con la Scala e con i maggiori intellettuali italiani ed europei, la Casa della Cultura si impose come luogo di dibattiti liberi e spesso di qualità eccelsa, in mezzo alla sorda ostilità del mondo conservatore milanese e della stampa reazionaria del tempo, a cominciare dal “Corriere della sera” di quegli anni.

Ma una nuova tempesta era nell’aria ed esplose alla fine del 1956, quando i carri armati sovietici invasero Budapest. Ricorda Rossanda che quando l’ineffabile Alicata (che già si era segnalato nella prima condanna di Vittorini e Banfi) sostenne alla Casa della Cultura che a Budapest i russi stavano difendendo l’indipendenza dell’Ungheria, “dalla sala si alzò un ruggito”. I programmi della Casa della Cultura seppero far fronte alla nuova situazione che registrava la frattura drammatica delle forze politiche di sinistra. Per tutto il corso degli anni Sessanta i responsabili della associazione milanese continuarono la loro preziosa opera di costruzione e annodamento dei maggiori fili della ricerca culturale, in tutti i campi del sapere, delle arti e della letteratura e attraverso l’opera di grandi protagonisti che Cappelli descrive e ricorda al lettore con sapienza ed efficacia. Ormai era diventato chiaro che il programma della Casa della Cultura, nato dalla comune lotta antifascista, aveva proprio in queste radici il suo primo e il più durevole fondamento, che di fatto, nel corso dei decenni successivi, non venne mai smentito.

Capelli accompagna il lettore attraverso le vicende degli anni Sessanta e Settanta, dei cosiddetti anni del grande benessere e della crescita tumultuosa, sino al lungo crepuscolo del berlusconismo e al suo liberismo ingannevole e illusionistico; rievoca i contraccolpi nati dagli sconvolgimenti seguiti alla caduta del muro di Berlino e dagli anni di piombo sino all’odierna crisi economica e politica mondiale, tuttora assai virulenta. Le antiche figure degli intellettuali impegnati sono scomparse da tempo e la loro stessa funzione, negli scenari del presente, sembra essere diventata obsoleta. La politica si è sempre più ridotta ad amministrazione spicciola dell’esistente: quando non corrotta, essa è nondimeno miope o meramente pragmatica. Il divorzio della politica con la grande cultura è da tempo sotto gli occhi di tutti: l’unica cultura politica che persiste è quella volta alla cattura del consenso e alla esibizione mediatica. Poi ci sono i fenomeni della cultura di massa, mentre si impone la spettacolarizzazione di ogni iniziativa come condizione della sua stessa esistenza o supposta efficacia. Nel contempo le risorse per la cultura divengono ogni giorno più scarse e l’attenzione del pubblico più svagata, dispersa, frammentata e soprattutto, in larga misura, mercificata. Come può difendersi, in un simile clima, un’associazione come la Casa della Cultura? Come può tener fede alla sua storia e alle sue finalità morali e sociali? Come può sopravvivere materialmente (e il problema ha segnato momenti anche drammatici, per fortuna e per merito ampiamente superati)?

Ecco le domande che Capelli affronta con grande trasparenza e coraggio alla fine della storia che ha così calorosamente e precisamente narrato. La risposta ha un titolo quanto mai suggestivo e interessante; esso suona “Ritorno al futuro”. In sostanza: riportare nelle nuove condizioni del presente e del futuro quello spirito illuminista, quel razionalismo critico che fu l’ispirazione prima dell’intera impresa e la visione fondamentale dei suoi maestri. Si tratta di stare criticamente dentro il grande cambiamento; si tratta di riproporre quel nuovo umanesimo che fu, scrive Capelli, “l’antica lezione di Banfi, ovvero lo sforzo tenace per l’interazione con la cultura progressista dell’Europa e del mondo intero”. Di fronte agli innumerevoli temi e problemi del presente, di fronte ai vertiginosi progressi delle scienze, in particolare agli orizzonti futuri della biologia da una lato e dell’economia dall’altro, di fronte alle nuove sfide che nascono dai continui progressi tecnici della rete, di fronte agli esperimenti più desueti delle arti e delle lettere occorre rinnovare il metodo dell’analisi e della discussione razionale. Un programma audace e lungimirante e proprio per questo davvero attuale e a suo modo imprescindibile. Bisogna, dice Capelli, “contribuire a ricostruire una nuova enciclopedia della contemporaneità”. Formula e progetto a mio avviso esemplari. Essi evocano le radici “filosofiche” della modernità e le ripropongono come compito della cultura di tutti, di oggi e di domani. La Casa della Cultura, con la sua porticina rossa nel cuore di Milano, è ancora lì, fermissima, che chiama.

Carlo Sini

25 marzo 2016

LA PORTA ROSSA: 70 ANNI TRA STORIA E STORIE
Nel libro di Capelli il senso profondo della Casa della Cultura
di Mario Vegetti

Uno scrigno di variegate emozioni, quella cantina su cui si apre la porta rossa di Via Borgogna. Ci andai da liceale per la prima volta nel ’53, con i giovani di Unità popolare. Guidati da Piero Caleffi, un ex comandante partigiano, partecipavamo alla battaglia appassionata contro la “legge truffa”, un iniquo dispositivo maggioritario destinato ad alterare i risultati elettorali con un ingente premio di maggioranza. Le sinistre, unite in una lotta rigorosamente proporzionalista, riuscirono a non far scattare il premio. Già, erano cose di mezzo secolo fa…Veniva in via Borgogna la mia ragazza di allora, figlia anche lei di un capo partigiano. Un paio di anni dopo, altre emozioni, questa volta filosofiche. Da universitario pavese, partecipavo ai grandi incontri, organizzati da Rossanda e dal mio primo maestro, Enzo Paci, con personaggi come Sartre, padre Van Breda, i grandi architetti da Rogers a Alvar Aalto. Mi accompagnava allora la mia nuova fidanzata, che da lì a poco sarebbe diventata mia moglie (e cinquant’anni dopo la vice-presidente della Cantina). Anche gli anni Ottanta non furono privi di emozioni, questa volta però più scivolose. Era il clima della “crisi delle ideologie”, sembrava possibile pensare a un nuovo marxismo libero dai vincoli dell’ortodossia, per alcuni anche a un comunismo non burocratico. Ero un giovane professore, e dialogavo di epistemologia e dell’idea di progresso con gli ancora più giovani Marco Mondadori, Salvatore Veca, Giulio Giorello. Su quel cielo incombeva però la nube tossica del craxismo, con il suo alone anticomunista e liberal-liberista. Quanto a me, restavo ancora per mia fortuna du côté de chez Rossanda, collaborando con il suo giornale, il Manifesto (oltre che, per altri aspetti, con la stimolante esperienza di Alfabeta).
Tutto questo per dare una rapida impressione dei tanti ricordi che ha suscitato in me (e chissà in quanti altri) l’intelligente saggio che Ferruccio Capelli, l’attuale direttore, ha scritto in occasione dei settant’anni della Casa della Cultura (La porta rossa. 70 anni di Casa della Cultura fra storia e storie, ediz. casa della cultura, Milano 2016, 159 pagine, 12 euro). Il libro è prezioso per la capacità di Capelli di usare la microstoria della Casa della Cultura come una sorta di aleph attraverso il quale far apparire, e rendere perspicui, vividi scorci della storia politico-culturale di Milano, e oltre ad essa dell’Italia, nella seconda metà del Novecento. Ne isolerò quattro scene, che mi sembrano cruciali nella ricca ricostruzione di Capelli.
I scena: la grande Milano della Resistenza (’46) . In un’epoca lamentosa come la nostra, in cui le croniche “crisi” valgono da alibi per far naufragare nell’impossibilità qualsiasi respiro progettuale, riesce quasi impossibile immaginare le straordinarie energie morali e intellettuali di quel gruppo di intellettuali milanesi che compresero che senza una nuova cultura la stessa liberazione dal fascismo sarebbe stata incompiuta. Il progetto fu varato, già durante la guerra, all’interno dell’organizzazione clandestina del PCI, da Banfi, Vittorini e Curiel (che sarebbe caduto poco dopo). E la sua realizzazione fu inaugurata, allora in via Filodrammatici, con un discorso di Ferruccio Parri, il 16 marzo del ’46. Furono coinvolti nell’impresa Formaggio, Treccani, Grassi, Strehler, e tanti altri intellettuali milanesi: probabilmente la migliore concentrazione di intelligenza e di innovazione culturale che questa città abbia mai conosciuto.
II scena: il protagonismo del PCI (dal ’48 agli anni ’60). La scena si svolge sotto l’egida del Partito comunista italiano: lo straordinario caso, unico in Europa, di un grande partito capace di agire come agenzia di educazione politica di massa, come promotore di cultura ad alto livello, e anche come portatore di un suo preciso orientamento intellettuale. Fu proprio quest’ultimo – ispirato allo storicismo della tradizione italiana – a entrare in conflitto con l’impronta razionalista e illuminista, aperta alle scienze, che Banfi e Vittorini avevano conferito al progetto sia della Casa della Cultura sia del Politecnico. Il conflitto tra il Partito e i fondatori portò a un’interruzione dell’attività del centro milanese (’49); ma nel ’51 fu ancora il PCI, forse lo stesso Togliatti, a promuoverne la riapertura, affidando la gestione della nuova sede – da allora in poi in Via Borgogna – alla giovane Rossana Rossanda, allieva di Banfi e funzionaria del Partito. Il decennio della direzione di Rossanda, e in parte anche quello successivo, videro la Casa della Cultura al centro di quella che si può considerare la stagione aurea della cultura milanese del dopoguerra. I suoi ospiti andavano da Musatti a Fortini, dagli architetti del trio BPR al musicologo Rognoni, da Strehler a Calamandrei, da Ludovico Geymonat ai filosofi che facevano riferimento alla Scuola di Milano: fu un’epoca davvero straordinaria, ricca di ritrovate certezze e di speranze per un futuro di progresso e di illuminata intelligenza.
III scena: il pluralismo e i suoi rischi (anni ’80). Fu l’epoca della cosiddetta “crisi dell’ideologia”, che significava poi in buona sostanza perdita della leadership politico-culturale del PCI e logoramento della capacità del marxismo di fungere da orizzonte di riferimento complessivo. C’era un aspetto positivo, la freschezza dell’apertura di nuovi orizzonti, il senso di un nuovo inizio. Un ruolo centrale fu giocato dagli interessi per la nuova epistemologia: insieme con i giovani filosofi milanesi e ginevrini, come Ceruti e Bocchi, arrivavano in via Borgogna personaggi di rilievo come Prigogine, Varela, Morin; si discuteva di Thom e Petitot. Lo stesso marxismo appariva ora più come un territorio da esplorare, magari con l’apporto dell’antropologia strutturalista francese, che come un paradigma già noto da coniugare. Ma era anche alle porte il post-modernismo, l’abbandono come relitti obsoleti delle visioni generali della storia e della conoscenza (schernite come le “grandi narrazioni”). L’impresa illuministica, nel cui segno si era aperta la Casa della Cultura, appariva come un’illusione anacronistica e pericolosa. Nella crisi culturale degli anni ’90, uno dei pochi segnali di resistenza dietro la porta rossa era offerto dai corsi di filosofia organizzati fa Fulvio Papi, nella loro tenace fedeltà alla concezione banfiana della cultura e delle sue responsabilità morali e sociali.
IV scena: e ora? Il nuovo secolo. Capelli – che di questa fase è stato il protagonista tanto risoluto quanto prudente – individua il punto di svolta negli eventi dell’estate del 2001: il G8 di Genova, le Torri gemelle. Un imporsi violento del problema della globalizzazione, delle forme di resistenza (come il Forum di Porto Alegre), della minaccia terroristica, del confronto con il mondo islamico. Su questi temi, la Casa della Cultura, racconta Capelli, svolse il suo ruolo di punto d’incontro, di discussione, di riflessione, un ruolo che tornò a rendere la sua presenza significativa nella vita politico-culturale della città.
Ma la cultura del nuovo secolo non offre un terreno propizio alla missione della cantina di via Borgogna. Il rumore assordante della rete, la chiacchiera informe dei talk-show, le grida dei populismi, il silenzio delle idee: difficile in questo contesto soverchiante continuare a testimoniare di un’idea di cultura improntata allo spirito illuministico, al razionalismo critico, alla responsabilità pubblica del sapere. Difficile perché supremamente inattuale. Ma, proprio per questo, necessario, se si vuole guardare avanti senza illusioni ma anche senza disperazione, come indica Capelli alla fine del suo libro prezioso, e vorrei dire indispensabile per chi abbia a cuore la vita politica e culturale della città. Un piccolo epigramma di Franco Fortini può, senza enfasi, riassumere il senso di questo impegno: “Insisto, resisto/ da critico onesto”.

Mario Vegetti

Pubblicato in La scuola di Milano ; n.1 viaBorgogna3 il magazine della Casa della Cultura

UN’ISOLA BENEDETTINA DI RESISTENZA
I 70 anni della Casa della Cultura nel libro di Capelli

di Giovanni Carosotto

La pubblicazione di Ferruccio Capelli [Ferruccio Capelli, La Porta Rossa. 70 anni di Casa della Cultura tra storia e idee, edizioni casa della cultura, Milano 2016], uscita in occasione dei settanta anni di vita de La Casa della Cultura di Milano, non si presenta affatto come testo puramente celebrativo, seppure nei confronti di un’istituzione altamente meritoria, che ha segnato positivamente la vita culturale milanese del secondo dopoguerra; né, nonostante il sottotitolo, come una semplice ricostruzione storica dell’istituzione, la cui vicenda, per i progetti, i nomi dei protagonisti, nonché per i contenuti affrontati nel corso dei decenni in contemporanea a continue, quasi sempre drammatiche, svolte storiche, è già di per sé esaltante. È soprattutto un testo di battaglia, militante, senza peraltro che tale caratteristica attribuisca allo studio qualsiasi atteggiamento retrò o nostalgico.

Conviene sgomberare subito il campo da possibili fraintendimenti: poiché la storia della Casa della Cultura è stata, nel secondo dopoguerra, in forte relazione con il percorso politico-culturale del Partito Comunista italiano -sia pure, come avremo modo di notare, con un’assoluta indipendenza- ci si potrebbe aspettare una rivendicazione di tipo identitario, una difesa a oltranza di ragioni ritenute decisive ad onta del loro esplicito anacronismo nell’epoca della globalizzazione. Niente di più distante dall’atteggiamento di Capelli il quale, da direttore degli ultimi sedici anni della Casa della Cultura, ha saputo non solo interagire e accettare quali sfide le nuove trasformazioni, ma ha dimostrato, con alcune iniziative, di saperle anche anticipare. Il che non è solo un merito intellettuale, ma rende conto di come, in un contesto socio-culturale che sembrerebbe privare l’istituzione milanese di qualsiasi rilevante ruolo nella formazione dell’opinione pubblica, essa ha potuto proseguire con successo la propria esperienza.

Il senso della pubblicazione sta proprio nel difendere il carattere necessario della cultura, unico strumento idoneo a creare un’opinione pubblica consapevole rispetto alle potenti trasformazioni che interessano il mondo contemporaneo. Una convinzione della cui inattualità Capelli è assolutamente consapevole; inattualità motivata da una deriva del dibattito pubblico, all’interno del quale viene negato qualsiasi valore alla riflessione consapevole, approfondita, disponibile al confronto con le posizioni eventualmente antagoniste. Prevale oggi -anzi, in molti casi viene teorizzata esplicitamente- una tendenza alla semplificazione, al ragionamento schematico, che evita il ricorso alla contestualizzazione storica e all’analisi interpretativa, per proporre soluzioni, nei confronti di problematiche complesse, tanto semplici quanto inefficaci.

Un po’ oltre la meta dello studio in oggetto, Capelli propone una significativa definizione di cultura, che dà senso alle sue argomentazioni: “La cultura, alla fin fine, è un tentativo di decifrare e di dare ordine ai fenomeni del mondo e di tracciare, se e quando possibile, qualche indicazione utile per il futuro”. Un compito più necessario negli anni recenti, laddove sono in corso trasformazioni così imponenti la cui logica sfugge agli stessi protagonisti della politica mondiale. L’esperienza della Casa della Cultura -ancora di più forse negli ultimi tempi- è lì a dimostrare quanto la cultura, nel senso che abbiamo appena indicato, sia indispensabile; ma, soprattutto, quanto tale considerazione sia, nonostante l’intervento in senso contrario della maggior parte dei media (una perversa operazione di “pedagogia del consenso”), pienamente consapevole ai cittadini, quando debitamente informati; presso i quali prevale il desiderio di capire, di orientarsi, di entrare in dialogo con le personalità intellettuali dei più vasti campi disciplinari, nella volontà di non farsi irretire in ideologie e criteri di spiegazione semplificanti. Lo scopo che si prefigge la Casa della Cultura è proprio quello di creare senso critico, di stimolare la volontà di approfondimento e di interpretazione, e non quella di confermare gli interlocutori nelle proprie posizioni identitarie.

Ciò che sembra maggiormente preoccupare Capelli è che tale scetticismo nei confronti della cultura, il considerarla irrilevante nella ricerca di consenso presso l’opinione pubblica, sia stato fatto proprio dallo stesso personale politico della sinistra. Nella “sinistra light […] passavano in secondo piano insediamento sociale, chiarezza programmatica, ancoraggio ideale […] gli staff dei leader si riempivano di esperti di comunicazione e di sondaggi, e la discussione si concentrava sulla efficacia della presenza sui media”. Una considerazione dolorosa, severa; ma, soprattutto, un dato di fatto che ha posto la Casa della Cultura di fronte a una sfida difficile da superare.

Non era certo la prima volta che l’istituzione si trovava ad affrontare una situazione di difficoltà; ma, subito dopo la guerra e nei decenni successivi, l’idea che la cultura fosse un movimento d’elaborazione d’idee che potesse fare da volano alla politica e darle credibilità era un dato acquisito. C’era semmai da ritagliarsi un ruolo di effettiva indipendenza rispetto alle logiche partitiche che intendevano sottoporre le istituzioni culturali a un parziale controllo, senza che nessuno mettesse in dubbio la necessità della loro esistenza. Per poter continuare a esistere e a incidere nell’attuale sfavorevole, nuovo contesto, senza rinunciare ai propri obiettivi, la Casa della Cultura ha ritenuto di dover valorizzare una relazione di carattere critico con i nuovi fenomeni; un tentativo di comprendere le motivazioni profonde della svolta in atto, della indisponibilità delle logiche del potere a lasciarsi coinvolgere da confronti di ordine culturale.

Capelli definisce tale posizione “umanesimo razionalista d’impronta illuministica non dogmatico”, erede del progetto dei “padri fondatori” della Casa della Cultura: Antonio Banfi, Elio Vittorini e Eugenio Curiel. L’idea che la cultura dovesse avere un impegno pratico era convinzione di tutti, e trovava nel Galilei studiato da Banfi un riferimento ideale decisivo. Tre personaggi dalle idee convergenti ma esponenti di campi del sapere differenti (dalla filosofia, alla letteratura e alla scienza), uniti dall’esperienza della Resistenza e da un atteggiamento insofferente per ogni forma di dogmatismo. La Casa della Cultura nasce infatti come progetto già alla fine della guerra, negli stessi ambiti della Resistenza, nella convinzione che la ricostruzione del paese potesse positivamente realizzarsi solo attraverso un profondo rinnovamento culturale.

La cogenza con il Partito Comunista italiano poteva costituire un limite all’attività della Casa della Cultura, rinchiuderla in un orizzonte all’epoca in qualche modo giustificato ma che, alla lunga, ne avrebbe pregiudicato l’impatto ad ampio spettro sulla vita della città. Possibilità tutt’altro che remota con l’inasprirsi della guerra fredda, quando le posizioni di molti intellettuali tra i più creativi tendevano ad irrigidirsi. E non c’è dubbio che non furono i momenti migliori della storia della Casa della Cultura, quelli in cui i rapporti con il partito erano più espliciti. Ma fin da subito, e anche negli anni di maggiore tensione, questo rischio fu sapientemente evitato. Quando la direzione dell’istituzione fu in mano a Rossana Rossanda, per esempio, vennero sempre intensificati i rapporti con le altre componenti della sinistra, e in particolare con i socialisti. Anche nel momento della più aspra divisione, in particolare a seguito delle vicende ungheresi del 1956 -quando persino Antonio Banfi si lasciò irretire da una logica manichea-, mai venne meno alla Casa della Cultura questo confronto con i socialisti. La sede di via Borgogna fu luogo di dibattito, di confronto fra qualsiasi posizione progressista, compresa, negli anni successivi, quella cattolica. Confronto che non venne mai meno anche quando, con l’esperienza dei governi di centro-sinistra, la frattura politica tra comunisti e socialisti divenne di fatto irreversibile. Coloro che gestirono la Casa della Cultura dopo la scomparsa dei fondatori, e in particolare lo psicoanalista Cesare Musatti, che ne tenne la presidenza per circa vent’anni, agirono in piena continuità con queste intenzioni.

Ma la grande svolta storica, che rischiava di rendere superflua l’azione della Casa della Cultura, fu la fine della Guerra fredda. Un lungo processo storico, probabilmente degenerativo che, come abbiamo detto all’inizio, ha reso la questione della cultura irrilevante nella formazione dell’opinione pubblica, nella vita dei partiti, nella ricerca del consenso, relegandola a un gretto specialismo, sostanzialmente ininfluente. Non è un caso che la storia dei primi trent’anni, forse la più esaltante per chi ricorda con stima e entusiasmo intellettuale le straordinarie figure della cultura italiana che frequentavano l’associazione, occupi una parte relativamente minima del testo in oggetto. A partire dal quinto Capitolo, siamo già immersi nella cupa atmosfera della fine degli anni Novanta, successiva alla tragedia della ex Jugoslavia e in procinto di conoscere i drammatici eventi dell’undici settembre 2001. Non è però secondario rilevare come, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, in Casa della Cultura il tema della crisi era già emerso. Si tennero i primi dibattiti sulla crisi del marxismo, si introdusse la teoria della complessità, si dibatté la questione di genere. Un’intuizione di quello che doveva essere un radicale cambio di paradigma, che la Casa della Cultura ha dimostrato di padroneggiare adeguatamente.

Da questo punto di vista, la direzione di Capelli ha promosso un sottile lavoro che ha proceduto in due direzioni parallele ma, nello stesso tempo, fittamente intrecciate. Da una parte ha messo a nudo e dibattuto, senza sconti, tutti i problemi relativi all’identità storico-culturale della sinistra. Dall’altra ha analizzato, evitando qualsiasi scorciatoia interpretativa, i nuovi fenomeni della contemporaneità, in modo tanto più articolato e approfondito quanto più essi potevano apparire estranei agli originali riferimenti della istituzione.

Il primo aspetto ha voluto in parte contrapporsi alla assoluta smobilitazione, e in alcuni casi a un vero e proprio cambio di campo, attuato improvvisamente da esponenti dei vertici della sinistra comunista; in modo così affrettato e poco credibile, anche nelle motivazioni culturali, da lasciare disorientata la base e il gruppo sociale di riferimento.

La presa di distanza dalla tradizione più dogmatica della sinistra, non ha impedito alla Casa della Cultura di mantenere salda la discussione sull’antifascismo, inteso come valore fondante della democrazia repubblicana. Sia chiaro: ancora una volta non si è trattato di sposare una tesi predeterminata, ma di opporsi alle semplificazioni dominanti che rifiutavano il confronto storiografico e si sottraevano alla possibilità dell’interpretazione. L’esigenza è nata proprio dallo scadimento in questo senso del dibattito politico, in particolare a seguito delle pubblicazioni dei libri di Giampaolo Pansa. Ciò che sorprende l’autore è, soprattutto, il silenzio da parte dei post comunisti: “Si dimentica il fatto che, nonostante legami storici perniciosi e narrazioni ideali che le dure repliche della storia hanno smontato, quel pezzo di sinistra italiana ha pur sempre qualcosa da rivendicare con orgoglio. In primis, l’avere contribuito alla riconquista della libertà. Per quanto nel dopo 1989 possa sembrare strano, la libertà in Italia (e in Occidente) è stata riconquistata -e difesa- dall’insieme delle forze che hanno fatto la Resistenza, comunisti compresi. Non da Dino Grandi e affini. Così è andata la storia”.

Di fronte a questa intollerabile semplificazione del linguaggio politico, l’iniziativa più significativa -anche perché periodica, evolventesi nel corso degli anni- è stata l’istituzione, a partire dagli anni 2010-2011, della “Scuola di Cultura politica”; attiva da ottobre a maggio, impegna i corsisti un fine settimana ogni mese, con lo scopo di organizzare un lavoro orientato “allo scavo analitico e all’approfondimento che richiede ai corsisti tempo, disponibilità all’ascolto e alla rielaborazione”. I docenti del corso, che si rinnova ogni anno, sono studiosi italiani e internazionali prestigiosi. Ciò che ha maggiormente sorpreso di questa iniziativa è stato il suo deciso successo: “i cittadini, tra cui molti giovani, hanno accolto con vivo interesse la proposta: in cinque anni un migliaio di iscrizioni, con alcuni corsisti che hanno seguito anche un percorso pluriennale. E tanti partecipanti, dopo il percorso formativo, hanno scelto di impegnarsi, in vari modi, nella vita pubblica”.

Analogo successo hanno avuto le iniziative dedicate ad Antonio Gramsci, conclusesi con un’opera teatrale sul politico comunista, creata da un greppo di giovani, messa in scena per la prima volta proprio alla Casa della cultura e poi a Roma. “Essa -salvo segnalazioni non pervenute- risulta l’unica operazione di qualche rilievo che, durante il 2007, si sia proposta di dare rilevanza e senso alla celebrazione dei settant’anni dalla morte di Antonio Gramsci, per l’appunto quell’autore in Italia ormai praticamente sconosciuto”.

 Per quanto riguarda invece l’approfondimento delle nuove tematiche che interessano il mondo contemporaneo, esso ha preso avvio dal confronto con la retorica dello “scontro di civiltà”, che all’epoca sembrò un approccio ermeneutico vincente alla geopolitica. Una svolta per certi versi cruciale, per Capelli, è stata la discutibile decisione da parte delCorriere della Sera, allora diretto da Ferruccio de Bortoli, di offrire allegato al quotidiano un testo di Oriana Fallaci sull’Islam. Gli effetti di quell’iniziativa furono devastanti, in quanto valorizzarono una mentalità combattente che ancora una volta metteva da parte qualsiasi tentativo di comprensione articolata. “Fu in questo scenario che la Casa della Cultura prese una decisione che si rivelò cruciale per la sua attività futura, ovvero di profondere tutte le sue energie possibili per un ostinato richiamo alla ragionevolezza e al dialogo tra le culture e le civiltà. Un centro culturale fondato nel nome del razionalismo critico, trasudante da ogni angolo la lezione del pensiero illuminista, non poteva ritrarsi dinnanzi a una sfida culturale di quella portata”. È impressionante l’alto numero di iniziative da allora dedicate ai temi connessi al rapporto tra civiltà: le relazioni internazionali, il nuovo protagonismo della religione nell’orizzonte geopolitico, il problema del rapporto con le altre culture. E a dibattere su ciò sono stati chiamati “filosofi, antropologi, teologi, studiosi di geopolitica e di relazioni internazionali”. Nonostante “la casa della Cultura non era mai stata espressione di un laicismo autoreferenziale e intransigente”, la centralità del tema religioso rappresentò in qualche modo una novità, affrontato nel pieno rispetto degli interlocutori, senza rinunciare all’approccio illuministico. Sull’esperienza della Cattedra dei non credenti, organizzata a Milano dal cardinale Martini, la Casa della Cultura organizzò i cicli di incontri Per il dialogo, che vide anche la partecipazione del cardinale Kasper, e I dubbi dei non credenti.

Il confronto tra religioni, e fra credenti e non credenti, non poteva richiamare l’attenzione su altri due temi decisivi: la questione dell’altro e il problema della soggettività, intesa come esperienza di relazione in grado di prendere le distanze dalle illusioni identitarie. Momento importante nella storia culturale di Milano fu, a proposito, l’intervento alla Casa della Cultura di Tzevan Todorov.

Siamo costretti a sorvolare su molte altre tematiche affrontate negli ultimi vent’anni dal centro culturale milanese, per contrastare un’emergenza epocale, in cui sembra prevalere la mancanza di senso e un agire di carattere nichilistico. Ha ragione Capelli a citare, con orgoglio, la definizione che Mario Vegetti ha dato della Casa della Cultura, quale “isola benedettina di resistenza”. Due le direzioni per combattere la mancanza di senso: opporsi alla deriva tecnocratica del sapere e reagire nel contempo alla crisi della cultura umanistica. Capelli parla proprio della necessità di un “nuovo umanesimo”, fondato sulla razionalità illuministica, un “illuminismo per tutti”, per citare il bello slogan coniato da Salvatore Veca proprio in occasione del settantesimo anniversario.

Tale proposito motiva l’attenzione recentemente dedicata alla tematica della scuola e alla deriva di carattere tecnocratico che la coinvolge, semplificante e ostile alle ragioni dell’interpretazione e della riflessione; scuola le cui finalità formative dovrebbero in fondo coincidere con quelle che Capelli attribuisce alla cultura nel suo insieme. Sul sito della Casa della Cultura, dove è possibile recuperare per altro in formato video e in formato audio buona parte degli interventi, è possibile constatare inoltre una programmazione particolarmente attenta all’arte e alle tematiche estetiche. Nella consapevolezza di come anche tali problematiche-considerate giustamente un patrimonio conoscitivo tanto fondamentale quanto altri ambiti dell’esperienza umana- contribuisca a creare resistenza intellettuale verso la tendenza alla schematizzazione, alle facili illusioni identitarie, alla rinuncia a voler comprendere e agire in modo consapevole e attivo nella realtà.

Pubblicato sul numero di settembre de L’Acropoli, rivista bimestrale diretta da Giuseppe Galasso