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La proposta teorica di Ivan Blečić e di Arnaldo Cecchini - contenuta nel loro Verso una pianificazione antifragile. Come pensare al futuro senza prevederlo (FrancoAngeli, 2016) - ha il pregio di essere robusta e compatta e di seguire un filo logico non solo coerente, ma che si dipana producendo via via interessanti incrementi di significato.
Partiamo da quella che, nell'interpretazione che ne fornisco, è la radice del loro discorso, un concetto a me particolarmente caro, di cui ho cercato di analizzare il significato epistemologico in un libro del 1997 (1): quello di confine. "[…] per la città - scrivono i due autori - il problema del limite è sempre esistito, ma forse ora, in questo inizio di millennio, per la prima volta, assume dimensioni non solo locali e non solo per brevi periodi. Molte città, la stragrande maggioranza di esse, si sono estinte per aver distrutto il loro ambiente, le condizioni della loro sopravvivenza, per autofagia, in una parola - come abbiamo detto - si sono rivelate fragili. Dunque il rispetto di alcune soglie è sempre stato imprescindibile; al più la città che, per sua natura, ha sempre cercato di superare i limiti dell'ambiente circostante ne ha forzato le dimensioni con le conquiste, l'espansione territoriale e commerciale" (pag. 78). Il presupposto dunque è che un corretto concetto di crescita e sviluppo, per la città ma anche per qualsiasi sistema complesso, non può essere incondizionato e senza limiti, ma esige l'inserimento all'interno di un orizzonte con un confine ben definito.
Questa esigenza è di natura non solo concettuale, ma percettiva. Come infatti sottolinea Vallortigara: "Il mondo visivo delle specie che possono focalizzare la luce per formare immagini deve essere caratterizzato dalla presenza di figure segregate e ben distinte rispetto allo sfondo. Date le proprietà della luce, ci sono pochi modi per ottenere ciò. Un modo, generalissimo, è di ricavare margini o bordi laddove la stimolazione fisica rileva delle differenze. Il problema naturalmente è che in molte circostanze tali variazioni fisiche possono essere assai poco nette, per non dire indistinte, oppure possono essere presenti solo a tratti (pensate a un animale che si muove nel fitto del fogliame). Ecco allora che per mezzo della selezione naturale sono stati messi a punto dei meccanismi di interpolazione che, usando regole piuttosto semplici basate sulle regolarità statistiche dell'ambiente (similarità di colore, chiarezza e tessitura, continuità di direzione, movimento comune delle parti ecc.) estraggono, a uso e consumo dell'animale che ne ha bisogno, margini anche laddove non ve ne sono" (2). Dunque, per agire in modo appropriato ed efficace nel nostro ambiente, abbiamo bisogno di confini e margini. È un'esigenza talmente radicata e fondamentale da spingerci a vederli anche laddove non vi sono, come nel caso delle immagini olografiche, dove l'oggetto tridimensionale osservato non ha alcun corrispondente "fisico", o in quello delle famose figure a margini senza gradienti di Kanizsa. Fissiamo dunque questi che appaiono due presupposti fondamentali per comprendere il processo della visione: il bisogno di un confine, che ci consenta di separare una figura dallo sfondo e la tendenza alla chiusura di strutture aperte. Si tratta di esigenze talmente imprescindibili da dar corpo e conferire realtà fenomenica a pure costruzioni del nostro apparato percettivo, come appunto i margini illusori e gli oggetti completati amodalmente.
Un altro aspetto fondamentale da segnalare a proposito della visione è che il confine tra figura e sfondo può essere spostato, dando luogo a soluzioni alternative differenti, ma mai eliminato. È dunque dinamico, soggetto a variazioni e a dislocazioni diverse, a seconda delle propensioni e tendenze di colui che osserva, come evidenziano in modo preciso le diverse opzioni alle quali va soggetta la "lettura" delle cosiddette figure ambigue, ma non se ne può mai fare a meno.
Siamo di fronte ad aspetti che costituiscono i tratti distintivi della situazione di fronte alla quale ci pone la scienza contemporanea. Il primo, quello del confine e della sua mobilità, è introdotto in maniera esemplare da uno dei maggiori fisici del secolo scorso, Wolfgang Pauli, premio Nobel del 1945 per la scoperta del "principio di esclusione" che porta il suo nome, in uno scritto visionario del 1953 La lezione di piano, "una fantasia attiva sull'inconscio", dedicata a Marie-Louise von Franz, una psicoanalista svizzera, allieva e collaboratrice di Carl Gustav Jung, che è stata una delle più importanti esponenti della psicologia analitica del XX secolo. Si tratta di un testo non destinato alla pubblicazione e riemerso da poco, che è stato inserito nella traduzione italiana del celebre saggio di Pauli L'influsso delle immagini archetipiche sulla formazione delle teorie scientifiche di Keplero, apparso nel 1952 insieme al saggio di Jung La sincronicità come principio di nessi acausali e a un altro saggio inedito, dal titolo Moderni esempi di "Hintergrundsphysik". Nella nota editoriale di presentazione all'edizione italiana esso viene presentato come "uno scritto sorprendente, che ha il ritmo di una pièce teatrale di Ionesco, dove Pauli espone le sue congetture su fisica, psicologia, biologia" (3).
La metafora guida di questo scritto del 1953, come si evince già dal titolo, è quella del "suonare il pianoforte". Pauli la spiega così: "L'essere umano è simile a questo pianoforte: le note hanno un'altezza e un'intensità, le melodie sono figure che è possibile riprodurre e riconoscere in differenti tonalità poiché una tonalità si può trasformare in un'altra. Così come ci sono suoni gravi, medi e acuti, così nell'uomo esistono l'elemento istintivo o pulsionale, quello intellettuale o razionale e quello spirituale o sovrasensibile. L'intensità invece è la forza con cui le note agiscono sulla nostra coscienza" (4). Questa metafora serve a Pauli per chiarire quella che ritiene la novità più rilevante della teoria fisica così come si presenta alla luce degli sviluppi della meccanica quantistica: "La fisica moderna ha generalizzato la vecchia contrapposizione di soggetto conoscente e oggetto conosciuto nell'idea di una separazione (Schnitt) tra osservatore o dispositivo di misura da un lato e sistema osservato dall'altro. Mentre l'esistenza di una tale separazione è condizione necessaria per la conoscenza umana, essa [la fisica moderna] concepisce il punto (Lage) della separazione come relativamente arbitrario e frutto di una scelta condizionata da valutazioni di utilità, e dunque in parte libera" (5).
Il confine, dunque, anche in questo caso deve essere:
- imprescindibile e tale da fungere da linea di demarcazione: senza di esso e senza questa specifica funzione di demarcazione non sarebbe possibile, per un sistema qualunque, distinguersi dall'ambiente in cui vive, così come una figura si distingue dallo sfondo, e acquisire una specifica identità;
- poroso e tale da fungere da interfaccia con l'esterno e con l'altro: se non fosse così non sarebbe possibile lo scambio, in termini di materia, energia e informazione, tra il sistema vivente e il suo ambiente;
- mobile: L'osservatore può spostare avanti o indietro il confine che lo separa dal sistema osservato e questo spostamento determina, come si è visto nel caso della percezione visiva di una figura ambigua, un diverso modo di vederla e interpretarla.
Ne consegue che: "Gli osservatori o gli strumenti d'osservazione a cui la moderna microfisica deve far riferimento si differenziano in modo essenziale dall'osservatore indipendente della fisica classica. Per osservatore indipendente intendo un osservatore che non è necessariamente privo di un effetto sul sistema osservato, ma la cui influenza può essere eliminata attraverso opportune correzioni. In microfisica, invece, le leggi sono di un tipo tale che ogni incremento di conoscenza guadagnato con una misurazione viene necessariamente pagato con la perdita di altre conoscenze complementari. Ogni osservazione è allora un intervento di entità non esattamente quantificabile sia sul piano osservato che sull'apparato di osservazione, e interrompe la connessione causale tra i fenomeni che la precedono e quelli che la seguono. Questa interazione incontrollabile fra osservatore e sistema osservato che ha luogo in ogni osservazione rende impraticabile la concezione deterministica su cui si fonda la fisica classica. Questo gioco che segue regole predefinite, una volta avvenuta la libera scelta dell'osservatore tra dispositivi sperimentali che si escludono a vicenda, viene interrotto dall'osservazione selettiva; la quale, in quanto evento essenzialmente non automatico, può essere paragonata a un atto di creazione nel microcosmo o anche a una mutazione, ma in ogni modo con un risultato imprevedibile e incontrollabile" (6).
Una volta acquisita la duplice idea dell'imprescindibilità del confine e della sua mobilità, cardine, come si è visto, dei nostri processi percettivi e delle acquisizioni che ci provengono dalla ricerca scientifica contemporanea dobbiamo interrogarci sulla funzione epistemologica di questa idea applicandola al campo gnoseologico. Ne scaturisce quella che può essere concepita la base sulla quale Blečić e Cecchini costruiscono l'impalcatura del loro discorso: l'incertezza è la frontiera mobile della conoscenza: non è possibile liberarsene, la si può soltanto spostare. Essa costituisce certamente un limite, ma anche una risorsa per i nostri processi conoscitivi: si tratta di saperla maneggiare con cura.
La prima cosa da fare, per utilizzarla in modo appropriato e conveniente, è liberarsi da un'idea meramente predittiva e asettica della scienza. La possibilità per il ricercatore, sottolineata da Pauli, di spingere avanti o indietro il confine che lo separa dal sistema osservato e il diverso modo di vedere e interpretare quest'ultimo che ne consegue significa che noi non siamo osservatori passivi, ma interpreti ed agenti, per cui dobbiamo liberarci, come ci invitava a fare Bruno De Finetti, dal desiderio di "sapere come le cose andranno… come se andassero per conto loro! […] È un problema di decisione, non di previsione".
Questo è il punto: per l'uomo la previsione non è un fine, ma un mezzo, uno strumento per assumere decisioni efficaci, per cui si tratta di abbandonare l'idea unidimensionale di "previsione" per passare a quella più complessa di "strategia" e del ruolo attivo dell'osservatore. Il passaggio in questione segna quella che viene definita la pratica di costruzione degli scenari futuri, correttamente presentata come qualcosa di diverso dagli scenari in sé: "Lo scopo della pratica di costruzione degli scenari non è solo né prioritariamente la previsione, ma piuttosto la costruzione del senso e della conoscenza sulle possibili traiettorie future delle quali i soggetti che partecipano alla costruzione degli scenari si possono appropriare per mobilitarsi all'azione e per il coordinamento collettivo" (pag. 61).
Dall'impostazione della questione in questi termini seguono, a cascata, i punti sui quali viene incardinata la proposta teorica, e che possiamo così sintetizzare:
- l'attenzione va concentrata su ciò che razionalmente si può prevedere e che è funzionale alla pratica di costruzione degli scenari futuri. Questa è l'idea della previsione debole: "anziché prevedere che cosa e quando esattamente accadrà, si tratta di identificare la fragilità, la robustezza o l'antifragilità del sistema. E, nel tentare di intervenirvi o governarli, di capire che cosa li fragilizza, irrobustisce e antifragilizza (pag. 59);
- Il primo compito da assolvere, pertanto, è individuare le cause più ricorrenti della fragilità dei sistemi sociali: piani basati su previsioni fragili; eccesso di centralizzazione; efficienza e ottimizzazione, quando riducono l'opzionalità e rimuovono le salvaguardie e ridondanze protettive; specializzazione, che riduce la capacità di apprendimento del sistema e di suo adattamento ai mutamenti ambientali; semplificazione eccessiva, che non tiene conto della complessità: assenza della costruzione di consenso, l'ineguaglianza e l'iniquità (pagg. 63-64);
- Una volta identificati e auspicabilmente rimossi questi ostacoli si può cercare di appurare come rendere antifragile un sistema sociale mettendolo in grado di auto-stabilizzarsi. Per raggiungere questo obiettivo occorre in primo luogo rendersi conto che è antifragile il sistema che si rafforza, migliora, guadagna dalla fragilità delle sue componenti, che incorpora meccanismi di apprendimento dagli errori e che proprio per questo è in condizione non solo di resistere agli eventi catastrofici, ma di trasformarli in miglioramenti. A tal fine risultano indispensabili una forte coesione interna, e il possesso, da parte delle singole componenti, di capacità che consentano a ciascuna di esse di procedere per tentativi ed errori e di perfezionarsi per via di esperimenti e fallimenti locali;
- Quella delle competenze e delle capacità sulle quali poter contare diventa così una questione cruciale. A questo proposito i due autori denunciano giustamente la riduzione dell'istruzione superiore ai compiti di soluzione dei problemi concreti della società, attraverso la produzione del sapere esperto, con conseguente scomparsa di ogni riflessione critica sulla stessa forma e natura di questi problemi, e l'impossibilità di rilevare le effettive capacità di una persona se si assumono, come uniche variabili osservabili, le realizzazioni delle capacità, ossia i funzionamenti;
- Più in generale il tema che viene posto al centro dell'attenzione, anche sulla base di interessanti riflessioni di Carlo Ratti, direttore del Laboratorio Senseable City del MIT, è quello del diffuso uso ideologico del concetto di smart city che non riconosce la fondamentale importanza della smartness dei cittadini e sembra occuparsi esclusivamente di nicchie di utenti o di alcuni comportamenti degli utenti, omettendo di affrontare l'insieme dei problemi delle aree urbane. Non si tratta certo, a questo proposito, di assumere un atteggiamento negativo nei confronti delle tecnologie e di sottostimarne il ruolo e i benefici che possono apportare alla città. La questione va piuttosto fatta rientrare all'interno di una problematica generale che Vanni Maciocco e io abbiamo posto al centro di un nostro libro già nel 2009 (7). Siamo partiti dalla critica dell'illusione terapeutica dello spazio (propria anche del Movimento Moderno): "il miglioramento dell'urbs determina il miglioramento della civitas", che ha determinato un peggioramento dell'urbs proprio perché, essendo stata la civitas una sua subordinata, ha finito con lo smarrirne il senso. Con la civitas eterodiretta, a causa del retaggio del comando-controllo, della pianificazione sinottica, razional-comprensiva, si è determinato il venir meno di un suo efficace raccordo e di una sua dialettica positiva con l'urbs, con conseguente suo costante peggioramento, che l'ha resa passiva, frammentata, cristallizzata. Ciò ha prodotto il divorzio della civitas dall'urbs, in seguito al quale la città ha perso ogni rapporto significativo con il luogo, come contesto determinante di costumi, abitudini, mores, diventando di fatto non-place. Tutti i tentativi di ripristinare un rapporto con il luogo sono stati in qualche modo contagiati da patologie come l'estetizzazione, la tematizzazione, la segregazione, la scomposizione, la genericità che hanno falsato questo rapporto, rendendolo non dialogico, ma analogico, in quanto fortemente marcato da un approccio caratterizzato dalla mancata distinzione dal luogo medesimo e dall' abbandono in modo passivo a esso: è la città come parco tematico. Lo spazio urbano diventa così progressivamente una "città senza città", una non-città, un simulacro di città. Cosa fare, a questo punto, per recuperare la città e per costruire un nuovo rapporto tra urbs e civitas, anche se in modi necessariamente differenti da quelli tradizionali? L'idea che era alla base del lavoro comune di Maciocco e mio era che fosse giunto il momento di partire non più dall'urbs, ma dalla civitas tenendo conto del fatto, ormai impossibile da ignorare, che la prolungata fase di scollamento tra urbs e civitas ci ha lasciato una civitas dispersa, una cittadinanza passiva, frammentata, quasi cristallizzata, che non ha più la fluidità necessaria per trovare forme di coesione sociale adeguate alle esigenze attuali del progetto della città. In questa situazione per riattivare la civitas non si può che partire dalle situazioni nelle quali questa fluidità sociale ancora esiste, dove sono presenti embrioni di civitas, cellule staminali di cittadinanza che si manifestano con pratiche sociali inedite. Queste situazioni sono gli spazi intermedi, che si presentano in molte forme che tornano ad associare urbs e civitas - spazi fisici e spazi di possibile coesione sociale - in modi inediti, attraverso pratiche sociali dello spazio non convenzionali, come avviene in alcune periferie e banlieue, ma anche in spazi della città che sono in attesa di altri significati. Qui, attraverso il progetto, attraverso politiche e pratiche inedite, innovative, non convenzionali, possono emergere nuove figure socioterritoriali che danno corso a una dimensione cooperativa, interattiva e connettiva del progetto della città, dove hanno un ruolo significativo tutte le dimensioni della conoscenza (esperta, empirica, argomentativa, narrativa, ecc.). In questo spazio intermedio è cruciale il ruolo dei soggetti senza voce o soggetti di confine, che li abitano e che comprendono persone e "oggetti di confine" (8), ovvero oggetti concreti o astratti, con diversi significati in differenti mondi sociali, la cui creazione e gestione diviene processo chiave per lo sviluppo e il mantenimento delle relazioni di coerenza tra contesti e spezzoni di società che si intersecano e si modificano. Sono marginali, ma sono tutte le minoranze della città, di una città che non si riconosce più in una qualche maggioranza e che ormai comprende in qualche modo soltanto minoranze. Occorre dunque assumere il concetto di minoranza come punto di vista esterno, per esempio quello degli immigrati, dei bambini, degli anziani e dei soggetti più deboli, che ci consente di vedere la città e quindi di progettarla in modo alternativo, con l'intento di scardinare qualsiasi metafora "implementativa", intesa come passaggio in qualche modo lineare di una politica dalla pianificazione all'attuazione. Questo il senso complessivo dell'analisi da noi proposta in People and Space.
- Anche in questo libro di Ivan Blečić e di Arnaldo Cecchini il tema del rapporto tra smart city e smartness dei cittadini viene trattato facendo esplicito riferimento alla "necessità di adottare un approccio basato sulle persone (people-centred): l'attenzione non deve essere posta esclusivamente sulla città, ma anche e soprattutto sulle molteplici e mutevoli interazioni tra la città e i diversi individui che la abitano. Ne deriva che le dotazioni urbane (materiali e immateriali) di una città non possono essere considerate una metrica adeguata per valutare il benessere dei suoi abitanti che dipende piuttosto dalle possibilità effettive che essi hanno di usare tali dotazioni per accrescere il proprio benessere" (pag 129). La questione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e del loro ruolo va dunque affrontata tenendo conto di questo metro di valutazione: "[…] un modo di considerare ed esprimere il ruolo attuale delle tecnologie potrebbe essere quello di networked city: tecnologie dell'informazione, ubiquitous computing, iperconnessione, Internet-of-Things, aggiungono lo strato di strumenti per la comunicazione, la raccolta di dati, l'elaborazione delle informazioni, l'automazione. Tecnologie che sono spesso usate dal basso per aggiungere smartness allo stato attuale delle tecnologie disponibili. Ma se vengono pensate e usate solo 'dall'alto' possono trasformarsi nel loro opposto" (pag. 99). E anche qui, a proposito di pianificazione "dall'alto" o "dal basso", non certo a caso, emerge come determinante la questione delle minoranze, presente in modo significativo attraverso l'invito a prendere nella dovuta considerazione "quei problemi che riguardano non solo l'utente di riferimento della pianificazione e della progettazione urbana tradizionale: maschio, in età produttiva, alla guida di un'auto, sano, tagliando fuori altre importanti parti della popolazione, le minoranze che tutte insieme fanno la stragrande maggioranza: bambini, vecchi, malati: per tacere delle donne che sono invece maggioranza di per sé (pag. 102). E ancora e in modo più esplicito e incisivo: "Il focus sull'obiettivo della promozione della capacità degli abitanti più svantaggiati si rivela particolarmente interessante e utile per la città nel suo complesso. Partire dalle esigenze e dai desideri negati (o compromessi) degli abitanti più svantaggiati consente, infatti, di innovare processi di sviluppo urbano, da un lato, e migliorare la qualità della vita urbana di tutti gli abitanti, dall'altro lato" (pag. 130).
- Un'ultima notazione interessante riguarda il riferimento all'importanza nella nostra vita dell'imprevisto, attraverso la valorizzazione di tutti quei luoghi che non siano attrezzati, come il centro commerciale ad esempio, contro la sua irruzione. Si tratta di un tema che ci porta a un'idea di pianificazione nella quale, a dispetto del complesso di significati usualmente associati a questo termine, ci sia spazio per una componente anarchica di imprevedibilità. Il perché ce lo spiega Morin: "L'anarchia non è la non organizzazione, ma l'organizzazione che si effettua a partire dalle associazioni/interazioni tra esseri che operano senza che ci sia bisogno di un comando o di un controllo che emani da un livello superiore. È così che si costituiscono le eco-organizzazioni. Ora questa anarchia senza controllo superiore costituisce un tutto che stabilisce il proprio controllo superiore. Meglio e peggio: questa anarchia di interazioni antagoniste/concorrenti crea gerarchie di fatto, ad esempio fra carnivori/erbivori e piante. Il che ci mostra come la componente anarchica, quando interviene fra esseri diseguali in termini di capacità e mezzi d'azione, crei essa stessa gerarchia, senza che questo inaridisca la fonte anarchica. Allo stesso modo, nelle società dei mammiferi le interazioni "anarchiche" fra individui maschi in competizione fra loro (per il cibo, per le femmine, per il potere) trasformano l'anarchia competitiva nel suo contrario, cioè in una gerarchia di dominio/subordinazione tra individui. Il modo ancora più generale e profondo, è l'anarchia il principio primo dell'organizzazione vivente, nel senso che è lei che produce la vita. È dal disordine termodinamico che nascono le organizzazioni turbolente/omeostatiche" (9). Ecco perché "la nozione di gerarchia deve essere posta in una costellazione che comprende anche le nozioni di eterarchia, poliarchia, anarchia, con le quali stabilisce rapporti complessi (complementari, concorrenti, antagonisti)"(10).
- In modo più lieve, ma non per questo meno incisivo, il tema è trattato nel finale del film di Benigni dedicato a Pinocchio. "Pinocchio, diventato finalmente ragazzo vero, torna a scuola, segue i suoi compagni e saluta Geppetto ma, proprio un attimo prima che tutto si concluda, la sua ombra si distrae per seguire una farfalla, e se ne va dietro quella in cerca di nuove avventure. Nell'eco di Peter Pan che perde la sua ombra, il Pinocchio di Benigni non perde la sua natura irriducibilmente libera e ribelle, qualcosa gli resta, per fortuna, è dunque quel Pinocchio 'uno e bino' che Garroni ha studiato" (11). La morale è chiara: Pinocchio, diventato finalmente ragazzo-scolaro modello, non può essere completo senza il burattino-monello che era fino a poco prima. L'ombra che si distacca dal suo corpo e se ne va per conto proprio per inseguire la farfalla-curiosità e immaginazione è sintomo ed espressione di quella che possiamo chiamare la sua insopprimibile indisciplina creativa. La creatività è sempre e necessariamente privata ed eversiva, perché emerge nella rottura della nostra continua ricerca di senso, in un territorio nel quale sperimentare la provvisorietà degli equilibri raggiunti per generare ciò che è assente, per dare corpo al possibile. Essa viola le norme stabilite e condivise, va alla ricerca di nuove frontiere e quindi oltrepassa e abbatte i confini stabiliti del "pensiero corretto", si pone in antitesi e in contrapposizione rispetto alla razionalità corrente ed egemone, dilatandone gli orizzonti. Per raggiungerla è pertanto necessario allontanarsi da tutte quelle pratiche funzionali che tendono a reificarla e a trattarla come un'entità concreta per poi poterla prescrivere: per questo Pinocchio deve restare anche burattino e la sua storia non si può concludere facendone l'emblema di questa creatività reificata e incarnata nello scolaro modello. È proprio questa indisciplina creativa a rendere l'uomo libero, a farne il dominus del suo universo interiore.
- Così, facendo un uso originale e creativo dei concetti di antifragilità e di cigno nero - un evento di bassissima probabilità, ma di magnitudo ed effetti enormi - entrambi proposti da Taleb, Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini riescono a dare forma, come loro stessi affermano, alla rielaborazione, all'approfondimento, allo sviluppo e alla revisione dei percorsi di ricerca e di sperimentazione da loro condotti negli ultimi anni facendoli rientrare all'interno dell'idea di pianificazione antifragile. Questo itinerario prende dunque avvio dalla serrata critica che Nassim Taleb ha sviluppato al concetto di probabilità e alla distribuzione statistica normale di Gauss (la famosa curva del valor medio), sottolineando l'importanza di quegli eventi rarissimi che modificano l'intero assetto di un sistema in modo impredicibile ed irreversibile, come l'11 settembre e le crisi finanziarie del '29 e del 2006, la catastrofe di Fukushima, i rivolgimenti nel Medio Oriente, il dramma siriano e si pone, per alcuni versi, sulle orme del già citato Bruno De Finetti e del suo agilissimo e lucidissimo saggio "L'Invenzione della Verità" (scritto a 28 anni). L'esito che ne scaturisce è un approccio alla pianificazione che anziché rifuggire l'idea di incertezza ne fa, come si è detto, il punto d'incontro tra scienze fisiche, matematiche e fisiche, epistemologia, teorie della mente e urbanistica, un luogo teorico il cui obiettivo non è tanto quello di calcolare e predire, ma di gestire e valutare, utilizzando ciò che ragionevolmente si può prevedere e, soprattutto, tenendo conto del fatto un osservatore che abbia raggiunto un buon grado di competenza e capacità nell'analisi del sistema degli eventi o addirittura sia attore di questi sarà in grado di offrire una valutazione di ciò che potrà accadere ben diversa da quella della maggior parte degli altri. Ecco perché per ritornare ad avere un interscambio positivo tra urbs e civitas che migliori, congiuntamente, l'una e l'altra è importante incrementare la diffusione di queste competenze e capacità attraverso una maggiore attenzione ai sistemi dell'istruzione a tutti i livelli e ponendo fine al mortificante stato di degrado in cui versano le nostre scuole e le nostre università anche in seguito ai selvaggi tagli di risorse che hanno dovuto subire negli ultimi anni. Si tratta di una deriva assai pericolosa, proprio per la natura stessa della democrazia, che costituisce il suo "marchio di fabbrica" esclusivo, quando è vera: essa, come sottolinea Castoriadis, "è quel regime che rinuncia esplicitamente a ogni garanzia ultima e che non conosce altra limitazione che la sua autolimitazione. Ovviamente, essa può trasgredire questa autolimitazione, come è spesso successo nella storia, e può quindi inabissarsi o ribaltarsi nel suo contrario. Ciò significa che la democrazia è il solo regime politico tragico, è il solo regime che rischia, che affronta apertamente la possibilità della propria autodistruzione" (12). Per questo, per sopravvivere e per uscire indenne dal pericolo insito nella propria autolimitazione, ha bisogno di una forte consapevolezza e di una conoscenza non solo robusta e rigorosa, ma capillarmente diffusa.
In conclusione, per riassumere il senso complessivo della proposta teorica di Ivan Blečić e di Arnaldo Cecchini, mi sia consentito, al fine di sottolineare ulteriormente la mia profonda sintonia con l'approccio e il punto di vista dei due autori, fare riferimento alla conclusione della mia ultima pubblicazione (13): "Nell'indisciplina creativa, che prende atto del senso della realtà e dei suoi vincoli, ma la sa coniugare con il senso della possibilità e con la capacità di vedere e pensare il mondo altrimenti, risiede la natura progettuale dell'uomo, che non si limita a vivere nell'ambiente in cui è inserito, ma lo sa plasmare e modificare, pur rispettandolo. Per questo aspetto, dunque, la visione rimanda al progetto, al desiderio di cambiamento e di innovazione che esso esprime. D'altro canto però la visione è anche capacità di filtrare e rivivere la realtà esterna attraverso l'immaginazione e le emozioni, sentimento profondo di partecipazione e di coinvolgimento nei destini del contesto in cui si è inseriti, unidualità tra l'universo interiore e l'ambiente, e quindi desiderio radicato di prendersi cura di quest'ultimo, tutelandone e valorizzandone i tratti distintivi e la specifica bellezza. Per questo secondo aspetto essa si riferisce alla tutela ed esprime quel genuino bisogno di tradizione autentica e di rispetto dei suoi valori che Mahler ha sintetizzato con estrema efficacia in un celeberrimo e citatissimo aforisma: 'tradizione è la custodia del fuoco, non l'adorazione della cenere'. Se la si intende in questo senso la tutela del patrimonio che essa custodisce e ci trasmette non può essere considerata estranea all'innovazione e in antitesi con essa". Ed è proprio questo, a mio avviso, il messaggio finale che possiamo ricavare dalla lettura di questo stimolante libro e di cui dobbiamo far tesoro, radicandolo nella nostra mente.
Silvano Tagliagambe
Note
(1) S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, Il Saggiatore, Milano, 1997. (2) G. Vallortigara, Cervello di gallina. Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 29. (3) W. Pauli, Psiche e natura (1952), tr. it., Adelphi, Milano 2006, p. 9. (4) Ibidem, pp. 167-168. (5) Ibidem, p. 118. (6) Ibidem, pp. 119-120. (7) G. Maciocco, S. Tagliagambe, People and Space. New Forms of interaction in City Project, Springer-Verlag Berlin, Heidelberg, New York 2009. (8) S. L. Star and J.R. Greisemer, Institutional Ecolology, 'Translations' and Boundary Objects, in 'Social Studies of Science', 1989, 19:387-420, p. 393. (9) E. Morin, Il metodo anarchico, in L. Guzzardi, a cura di, Il pensiero acentrico. L'irruzione del caos nell'impresa conoscitiva, elèuthera, Milano, 2015, pp. 26-27. (10) Ibidem, p. 27. (11) O. Martini, Dare corpo. Idee scorrette per una buona educazione, #graffi, 2015, p. 131. L'opera di Emilio Garroni alla quale si fa riferimento è Pinocchio uno e bino, Laterza, Roma-Bari, 1975. (12) C. Castoriadis, La logica del magma, in Il pensiero acentrico, cit., p.71. (13) S. Tagliagambe, Lo sguardo e l'ombra, Castelvecchi, Roma, 2017, pp. 43-44.
N.d.C. Silvano Tagliagambe, professore emerito di Epistemologia del progetto dell'Università di Sassari, ha insegnato Filosofia della Scienza nelle università di Cagliari, Pisa, Roma "La Sapienza" e Sassari. Tra le sue pubblicazioni: Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello (Raffaello Cortina, 2002); Come leggere Florenskij (Bompiani, 2006); Lo spazio intermedio (Università Bocconi Editore, 2008); con G. Maciocco, People and Space. New Forms of interaction in City Project (Springer-Verlag, 2009); Identità personale e neuroscienze, in S. Rodotà, M. Tallacchini, Trattato di Biodiritto. Ambiti e fondi del Biodiritto (Giuffré, 2010, pp. 323-360); con A. Malinconico, Pauli e Jung. Un confronto su materia e psiche (Raffaello Cortina, 2011); con D. Antiseri e P. Maninchedda, La libertà, le lettere, il potere (Rubbettino, 2011); Il cielo incarnato. L'epistemologia del simbolo di Pavel Florenskij (Aracne, 2013); con A. Malinconico, Jung e il Libro Rosso. Il Sé come sacrificio dell'io (Moretti&Vitali, 2014).
Del libro oggetto di questo commento - Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini, Verso una pianificazione antifragile. Come pensare al futuro senza prevederlo (FrancoAngeli, 2016) - si discuterà alla Casa della Cultura martedì 2 maggio, alle 18, in un incontro a cui, oltre agli autori, interverranno Corinna Morandi - professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano -, Maurizio Tira - professore ordinario di Tecnica e pianificazione urbanistica nonché Rettore dell'Università degli Studi di Brescia - e Andrea Villani - già direttore del Centro Studi Piano Intercomunale Milanese e docente di Economia urbana all'Università Cattolica di Milano.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 28 APRILE 2017 |