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Il libro di Patrizia Gabellini - Le mutazioni dell'urbanistica. Principi, tecniche, competenze (Carocci, 2018) è ricco di riflessioni, interpretazioni, indicazioni, esperienze, ma anche di interrogativi intorno a quanto non ancora traducibile in proposte compiute. Nel testo si svelano i tratti di un passato comune e alcuni portati irrinunciabili dell'urbanistica; quelli della contemporaneità e delle sue sfide complesse; quelli di un futuro da costruire con spirito critico e senso di responsabilità.
Se alle domande poste da Gabellini non sempre è facile rispondere, è semplice e coinvolgente seguirla nello svolgimento dei temi, per la chiarezza e l'incisività delle argomentazioni. Molte sono da acquisire, come quadri sufficientemente stabili, da cui partire per implementare pratiche e approfondire indagini. Mi riferisco alle scelte delle parole 'urbanistica' ("non stanca inerzia") e 'mutazione', "che sostituisce elementi vitali", ma anche al riconoscimento delle condizioni urbane, al ruolo dell'urbanista, agli orizzonti della rigenerazione e della resilienza, ai rapporti tra piano e progetto, ai compiti della politica e a quelli della tecnica. Altre questioni sono trattate in forma di dilemmi, seppure con indicazioni di stato e di prospettiva, come nel caso degli standard. Altre mi sembrano da esplorare ancora e di più, considerandone le ricadute nella formazione dei piani; nella loro efficacia e nei loro effetti, soprattutto quelli non auspicati; nel coinvolgimento delle popolazioni e delle imprese; nel funzionamento della filiera pubblica: mi riferisco in particolare a 'paesaggio'/'paesaggi'.
Per un mio contributo, nella lettura del libro ho seguito con attenzione i pensieri raccolti nel testo, confrontandomi con pratiche e riflessioni che quotidianamente s'intrecciano nelle mie attività di professionista, dedicato da ormai trent'anni alla "missione impossibile" dell'urbanistica, e come presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, nel cui ruolo ho svolto già due interi mandati. In tali esperienze, mentre giungo a convinzioni, mi trovo a doverne verificare la tenuta e a metterle in discussione. Grazie a un quadro stabile dei valori di riferimento, questo "va e vieni" sembra permettere, nel dialogo e nel confronto con sé stessi, con i colleghi, l'amministrazione pubblica, gli operatori economici e i cittadini, la costruzione delle competenze che Gabellini elenca in chiusura del testo: quelle capacità di resistenza, di trattamento dell'emergenza, di de-settorializzare e di integrare, che, unite all'innovazione del discorso, permettono all'urbanista di interpretare il proprio ruolo. Un ruolo sicuramente caratterizzato da "solitudine", ma forte della deontologia che lo disciplina ("un sistema di valori riferito alla competenza") e dell'attitudine ad assumersi responsabilità, "per molti versi anche condizione di convivenza civile". Sono tratti che Gabellini identifica come tipici di "chi opera in una prospettiva riformista", necessari "per mantenere aperto uno spazio di azione e riflessione sui temi difficili e controversi riguardanti le scelte per città e territori, andando oltre l'incertezza del ruolo, inteso come interfaccia tra il singolo e ciò che la società si può aspettare da chi ricopre una determinata posizione".
L'impegno dell'Istituto Nazionale dell'Urbanistica
Il titolo del XXX Congresso dell'Istituto Nazionale di Urbanistica (5 aprile 2019, Riva del Garda) è stato Il governo della frammentazione. Quando l'ho proposto, ho dovuto fare i conti con le reazioni poco favorevoli che incontrava, per il portato negativo che ne veniva colto. L'intento a base della scelta era, invece, costruttivo, a favore di uno spazio, quello dei luoghi ma anche e di più quello della disciplina, entro il quale muoversi da qui in avanti, ove non vi è modo di aggiustare o rammendare, ma è meglio recuperare (rigenerare), eliminare, ideare. Il Congresso è stato accompagnato dalla VII Rassegna Urbanistica Nazionale, per la necessità di descrivere l'Italia, un mosaico di differenze che ne possono fare una nazione unita anche nella valorizzazione dei diversi contesti e nella redistribuzione dei patrimoni materiali e immateriali su tutto il territorio. È qui il portato politico dell'Istituto, dell'impegno in un programma rigoroso ma non chiuso, per proporre strumenti utili alla società civile e all'azione istituzionale: un nuovo modo di fare urbanistica per un nuovo modello di sviluppo. Anche il linguaggio deve poterne essere una componente di forza: un linguaggio competente, ma attento alla reciprocità e alla comunicazione, senza cedimenti all'indietro e lontano dell'autoreferenzialità che, per e nel piano pubblico, incide sulla capacità di farsi intendere. Ritengo praticabile riorientare la cultura urbanistica, per non ridursi a un capitolo nel grande libro sull'ambiente, che coinvolge più largamente istituzioni e cittadini. Di urbanistica c'è bisogno, come ce n'è di capacità pubbliche di governo, in grado di sostenere approcci e metodi adattivi, sperimentali. A sostegno di questa tesi, svolgo quindi una serie di argomentazioni e di ragionamenti e, nel farlo, ho scelto alcune fra le tante riflessioni di Gabellini che mi è sembrato possibile collegare in una sorta di narrazione. Nel testo di seguito sono indicate tra parentesi le pagine del libro alle quali si fa riferimento.
Il bisogno di urbanistica
La ricerca di condizioni soddisfacenti di vita e di lavoro, un comportamento individuale sempre più autonomo nell'organizzare i propri spazi e tempi, che incide sul modo di utilizzare e rappresentare la città, la crescita delle forme di condivisione di conoscenze e servizi, la produzione di nuove economie legate allo scambio sostenuto dalla tecnologia avanzata, che contrastano le criticità correlate alla fisicità dei luoghi, la diffusione insediativa e i caratteri delle "città allargate o arcipelago"(pp. 24-27), configurano una trama reticolare, alla quale non corrispondono le geografie amministrative e neanche gli strumenti di pianificazione disponibili. Le une e gli altri, peraltro, appartengono a un tempo, a un'organizzazione sociale e politica, a compiti e competenze, a riferimenti strutturali, che sono stati a lungo alla base delle tecniche, e sono ormai alle nostre spalle. Tuttavia, pur in tempi mutevoli e adattandosi alla navigazione non lineare, in un oceano di flussi, una miriade di domande e un presente fatto di momenti, la stabilità spaziale sembra ancora necessaria per promuovere aggregazione sociale. Il dove, in altre parole, non è marginale, e neanche il come, per offrire spazi capaci di garantire un'esistenza urbana varia, gradevole, dignitosa, accogliente, sicura, sana. Per raggiungere un certo livello di stabilità spaziale, occorre rappresentare i tessuti sociali, economici, urbani, territoriali, indicare rotte e traiettorie, tracciare mappe. In questo, non si sfugge neanche al tanto controverso zoning, per il quale trovo condivisibile che si "possa assumerlo nella sua dimensione tecnica come 'unità di disciplina', senza altri significati aggiunti" (p. 38).
Le analisi e i progetti disponibili sembrano non restituire un'idea di città e di società soddisfacente e le forme urbane contemporanee sfuggono a ogni parametro tradizionale, che non riesce a elaborarne la complessità. La possibilità di operare in adattamento costante, alternativo alla fissità delle predeterminazioni, è convincente, ma ha bisogno di comunanza di linguaggi e solidità degli obiettivi, anche per orientare gli interventi politici e recuperare il sapere tecnico e le competenze 'esperte', a sostegno di un progetto istituzionale e urbanistico diverso da quello tradizionale, alternativo nelle forme e nei contenuti, ma non nelle finalità, che restano rivolte alla difesa dei più deboli e a garanzia dell'accesso alle opportunità. Se a offrire gli strumenti è ancora la pianificazione, come dimostrano la domanda di urbanistica e un diffuso parlare di urbanistica dopo un quarto di secolo dedicato al governo del territorio, le scelte attengono alla sfera delle decisioni pubbliche, in risposta alle categorie del disagio e dei disagiati, delle debolezze e dei deboli (luoghi e persone). E ciò riguarda anche amministrazione e politica (p.106). Non v'è dubbio che la divisione di compiti abbia allontanato competenze e valori e che, se la politica ha perduto la capacità di visione, l'amministrazione si è ripiegata in una burocrazia appiattita sulla conformità e sulle procedure (p. 107). Una via d'uscita è il confronto allargato che include competenze (i tecnici), esperienza comune (i cittadini), interessi (le rappresentanze di forze economiche e sociali), un lavoro di 'va e vieni' tra visione e possibilità, (p. 107), e strumenti nuovi, da definire recuperando saperi consolidati, assorbendo e aggiornando metodi e princìpi disponibili, eliminando una complicata stratificazione, che neanche il regionalismo riformista ha potuto superare e che porta il nostro Paese ad agire, da troppo tempo, frammentariamente, nel prevalere dell'attenzione agli aspetti edilizi, tramite tentativi non organici e inserti parziali in testi che non intendono trattare di riforma urbanistica, ma di fatto influiscono, anche direttamente, sui contenuti della pianificazione.
Una parola chiave è, dunque, "prospettiva comune" (p. 13). La necessità di convergere in una prospettiva comune è ineludibile. Viviamo nell'epoca dello sprezzo per la competenza e della produzione di 'persone superflue', fra le quali si trovano quelle "che si sono formate nella professione per procacciarsi in modo appropriato, corretto ed effettivo i mezzi per la sussistenza e si ritrovano a non essere più in grado di farlo" (1). Assistiamo allo smantellamento della disintermediazione in tutte le sue forme, un'immagine alterata, dietro la quale s'intravede la frantumazione della condizione esistenziale e delle modalità di convivenza che hanno resistito a lungo nel progresso lineare della civiltà occidentale: un'epoca passata che ci è prossima e al contempo remota. La pianificazione non ne esce indenne e la cosa riguarda anche e non marginalmente gli urbanisti, una comunità dedita troppo spesso al conflitto interno e all'autocommiserazione, e nella quale va colmata la distanza fra sistema di produzione e trasmissione delle conoscenze e sistema delle pratiche e della messa in opera delle progressive acquisizioni disciplinari, sperimentate sul campo, secondo un metodo incrementale e non dissipativo, seguendo criteri di adeguatezza ai contesti e alle condizioni date, che sono tanto fisiche quanto immateriali. La possibilità di governare sapendo riconoscere un mosaico non perfetto, non riconducibile a una immagine omnicomprensiva, permette di considerare la frammentazione come un dato vitale, componente non di incertezza, ma del nuovo campo per pratiche democratiche responsabili, trasparenti, competenti. Anche in urbanistica. "Come 'comporre' una città arcipelago in ottica resiliente, come darle forma e organizzazione è tema urbanistico" (p. 97). In una prospettiva comune deve trovare stabilità la consapevolezza di poter operare in sistemi insediativi complessi, vari e diversi, e che è tanto necessario quanto utile reimpostare "la maniera in cui le città e gli insediamenti umani vengono pianificati, progettati, finanziati, realizzati, governati e gestiti", così come si legge nella Dichiarazione di Quito su città e insediamenti umani sostenibili per tutti. "La Nuova Agenda Urbana concorrerà a porre fine alla povertà ed alla fame in tutte le sue forme e dimensioni, ridurre le diseguaglianze, promuovere una crescita economica sostenuta, inclusiva e sostenibile, realizzare la parità di genere e conferire legittimazione a donne e ragazze, migliorare la salute ed il benessere, oltre a potenziare la resilienza e proteggere l'ambiente"(2).
Le questioni più urgenti da affrontare sono quelle ambientali ed ecologiche, con il recupero dei suoli e degli immobili abbandonati e la riorganizzazione ecologica degli insediamenti, per renderli resilienti. Sono anche quelle della povertà urbana, contro cui lottare con il contributo che la rigenerazione urbana può dare all'integrazione sociale e all'accessibilità alla casa e ai servizi essenziali. Sono quelle relative alla mobilità delle popolazioni, con soluzioni coordinate e l'investimento nel trasporto pubblico. Sono quelle dei diritti di cittadinanza, che includono la dotazione di spazi pubblici privi di barriere materiali e immateriali. Bisogna pur dire che questa è urbanistica. Anzi, urbanistica socialmente utile, per utilizzare una definizione sulla quale abbiamo costruito le nostre competenze tecniche e praticato la fatica dell'amministrare. In questo rinnovato esercizio tecnico e politico, che va dalla pianificazione alla gestione, l'urbanistica può tornare a corrispondere all'esigenza di integrazione e complessità richiesta dai processi urbani (p. 9). E se parlare di urbanistica è una scelta (p.9), che condividiamo appieno, "alle tante e diverse città può rispondere una nuova urbanistica, adattiva ed esplorativa, rigorosa ma ricca di immaginazione" (Viviani, 2016, XXIX Congresso INU), responsabile e competente nel contribuire al raggiungimento del benessere degli individui e della collettività e nel coinvolgere una moltitudine di soggetti (economici, culturali, sociali, politici) partecipe al successo delle intenzioni di cambiamento delle condizioni urbane. Posso perciò confermare l'intento del XXX Congresso dell'INU: per non procedere solo tramite esperimenti isolati, per cumulare e patrimonializzare i risultati, per definire programmi culturali e formativi, per individuare alleanze politiche, per sostenere l'innovazione di un modello industriale che assuma le questioni ambientali e sociali come valori nei propri progetti economici, per modificare gli strumenti operativi alla base di un governo della frammentazione prospettabile anche se in larga parte ignoto, c'è bisogno di un patto per l'urbanistica italiana.
Le componenti per costruire una prospettiva comune
Le componenti da indagare per costruire una prospettiva comune, per un patto pur nell'epoca dell'incertezza e della diffidenza, sono urbanesimo/inurbamento, re-urbanizzazione/re-infrastrutturazione, urbanità. Dati fra loro diversi, utili per costruire scenari (diversi dal fare previsioni, p. 99): il primo una condizione che agisce sugli spazi fisici e sulle relazioni sociali, la seconda un'azione per erogare servizi e restituire efficienza alle forme insediative, il terzo un orizzonte per conciliare comportamenti, senza la pretesa di imporre ordine e piuttosto nel tentativo di instaurare una coerenza soddisfacente tra progetto di città e progetto di cittadinanza.
Urbanesimo e inurbamento - L'urbanesimo è effetto del crescente inurbamento, una mobilità delle popolazioni associata a condizioni di insostenibilità sociale e ambientale in continuo aumento. Potrà portare, entro il 2050, alla quota di circa 200 milioni di persone permanentemente in stato di profughi ambientali. Chiuso il mezzo secolo di pace, lascito del Novecento, che, almeno agli europei, ha garantito benessere e fiducia nel futuro e nella convivenza, accelera il rapido mutamento delle condizioni climatiche, percepito oggi come la minaccia mondiale più temibile insieme al terrorismo, e si erigono muri e recinzioni ai confini di un terzo dei Paesi: sono oltre 6000 i chilometri di barriere innalzati nel mondo negli ultimi dieci anni. È lo stesso anno, il 2050, la soglia entro la quale due individui su tre vivranno in ambito urbano, incrementando la domanda di servizi pubblici e la necessità di una pianificazione sostenibile per far fronte all'aggravarsi dei rischi ambientali, alla riduzione della produzione agricola e al bisogno di cibo, all'erosione delle risorse naturali, all'inquinamento dell'aria e delle acque e allo smaltimento dei rifiuti, alle diseguaglianze sociali. Nel Terzo Millennio, caratterizzato dalla quarta rivoluzione industriale, lo scambio che solo la città permette in termini di conoscenza e solidarietà reale o percepita sarà sempre più ricercato, ma le domande continueranno a frammentarsi; aumenteranno i disagi per via dell'invecchiamento della popolazione e ciò riguarderà non solo le famiglie e la spesa pubblica, ma anche gli spazi fisici, le donne e il lavoro; i luoghi nei quali sono difficilmente accessibili i servizi di base tenderanno a essere abbandonati; continueranno ad arrivare onde di migranti in cerca di cittadinanza; persisteranno capacità diseguali di accesso ai capitali urbani (cultura, istruzione, lavoro, casa ma anche uso degli spazi pubblici e delle attrezzature collettive) aggravati dai crescenti conflitti razziali, di classe e di genere; si riveleranno fragilità dei suoli, scarsità di acqua, inquinamenti diffusi ed eventi drammatici, laddove credevamo di vivere stabilmente e in salute.
In questo stato delle cose, non v'è dubbio che "istanze ambientali e istanze sociali si incontrano, ma non si identificano, in quanto i dispositivi per la redistribuzione della ricchezza spaziale non coincidono con quelli per la mitigazione e l'adattamento ai cambiamenti climatici" (p. 51). Altrettanto condivisibile è l'affermazione che la 'densificazione' "sia una prospettiva ingannevole in quanto impraticabile" (p.27), e non solo per la necessità di spazi liberi da destinare all'ecologia, all'agricoltura e alla socialità nelle trame urbane. La 'densificazione', infatti, pare attingere ancora dalla vecchia cassetta degli attrezzi, ove l'urbano s'identifica con l'ordine morfologico, il contesto è una parte del tutto in cui operare tramite criteri di inserimento, finanche di nostalgia post moderna (p. 62), la soluzione fisica è prestabilita e può essere controllata e approvata tramite verifiche di conformità e rispondenza a indicatori numerici e parametri sostanzialmente di tipo edilizio, sfuggendo al difficile esercizio di responsabilità che risiede nell'identificare la molteplicità dei bisogni e le prestazioni utili a guidare il raggiungimento degli obiettivi nell'interpretazione delle condizioni fisiche, sociali, economiche e finanziarie coinvolte nel progetto della trasformazione rigenerativa (p. 49 e 59).
Ri-urbanizzazione/re-infrastrutturazione - Ri-urbanizzare/re-infrastrutturare è, conseguentemente, una delle priorità nel "complicato divenire a macchia di leopardo che richiede una regia adattiva e una conseguente e paziente ridefinizione delle forme di governo del territorio, con particolare attenzione alle condizioni in cui devono vivere coloro che abitano le parti irrisolte e non solo alla efficienza complessiva del sistema" (p. 68). Le scelte in merito alla ri-urbanizzazione delle forme urbane contemporanee appartengono al più ampio orizzonte della rigenerazione come "prospettiva dell'urbanistica per molti anni a venire" (p. 69), in un progressivo miglioramento delle qualità ecologiche, sociali ed economiche, entro un telaio spaziale integrato e multiscalare, dove urbano e rurale cessano di contrapporsi. Le reti sembrano essere campi operativi della nuova urbanistica, per fornire standard ai cittadini che si muovono in ambiti territoriali interdipendenti e costruire nuovi paesaggi urbani connessi al trattamento resiliente di acqua, suolo, aria, energia, rifiuti e mobilità. La resilienza potrebbe "alimentare l'urbanistica superando settorialità e specialismi" (p. 95), individuando "luoghi e modi prioritari per azioni che favoriscano nuovi equilibri, con un atteggiamento che è stato opportunamente definito place oriented e people oriented" (p. 96). Con questo approccio, si può accettare che il piano ritrovi "il proprio centro nella costruzione di immagini ragionevoli del futuro", abbandoni definitivamente le pretese della omnicomprensività e della predeterminazione nel tempo e nello spazio, che ammetta l'attesa quando serve e l'intervento subitaneo quando indispensabile, che riesca a "costruire indirizzi sufficientemente chiari da riuscire a tracciare un percorso che altri strumenti, progetti, programmi e politiche possano interpretare e implementare" (p. 101).
Gli aspetti da affrontare sono la carente dotazione di progettualità della sfera pubblica, la sua organizzazione rigidamente settoriale, la sua scarsa capacità di spendere le risorse disponibili, la farraginosità delle procedure. A differenza della tradizionale rincorsa ai finanziamenti con piani e progetti immediatamente utilizzabili, spesso dovendo rinunciare a intervenute e diverse priorità programmatiche e mancando nella risposta a effettivi bisogni, il cambiamento auspicabile porta al centro dell'investimento tecnico e istituzionale lo studio di fattibilità al contempo urbanistico, finanziario e amministrativo, nel quale sono integrati i parametri della qualità sociale ed economica degli interventi: uno strumento che permette di misurare la capacità di allocare risorse e praticare la cooperazione nella filiera pubblica, considerando le differenze del policentrismo italiano quale ossatura stabile per il progressivo consolidamento di strategie urbane diffuse, ordinarie, aderenti ai contesti, monitorabili. La possibilità di rendere economicamente praticabili e sostenibili interventi di riqualificazione urbanistica e socio-economica, non solo delle aree dismesse o sottoutilizzate ma di tutte le parti di città che richiedono una diffusa riorganizzazione, costituisce non solo la condizione necessaria per garantire la concreta limitazione al consumo dei suoli liberi, ma anche l'unico mezzo per ridare fiducia alla pratica irrinunciabile della progettazione urbanistica, avvicinando cittadini e istituzioni, ricerca, impresa, professioni. Tali sperimentazioni possono rivelarsi "modalità di innesco/sostegno per orientare le convenienze dei privati e l'utilizzo sapiente delle risorse pubbliche" (p. 69).
Urbanità contemporanea - L'urbanità, un modo cortese di comportarsi fra persone, sembra ancora aver bisogno dei luoghi organizzati per la vita comune, ove s'intrecciano le relazioni tra dimensione fisica e dimensione sociale. Essa può far da protagonista nella sfera pubblica, struttura comunicativa che poggia sulla società civile (Habermas), ambito della 'dialogicità', ma non necessariamente negli spazi pubblici dove quella struttura comunicativa può prendere concretezza. Riavvicinare spazi e persone è finalità dei progetti di rigenerazione urbana europea sviluppati nell'ultimo quarto del secolo scorso. Negli interventi sviluppati per i docks di Amsterdam negli anni Ottanta/Novanta (Oostelijk Havengebied e penisole Borneo e Sporenburg), si realizzano la riqualificazione fisica delle aree inutilizzate, lo sviluppo urbano e la connessione funzionale e materiale dei nuovi quartieri con il centro città, investendo in opere infrastrutturali che permettono di riorganizzare i fasci viari e ferroviari e di incrementare il trasporto pubblico. La rigenerazione in Spagna si avvia con le strategie del recupero alla fine degli anni Settanta, ma è con la sfida delle Olimpiadi degli anni Novanta che viene scelta la scala ottimale di intervento: il progetto urbano, che permette di trattare aree e ripensare a un sistema di centralità pubbliche. Negli anni Ottanta si riqualifica il lungomare: sei chilometri di mare e spiagge che cambiano il volto di Barcellona. Dagli spazi pubblici passano anche le iniziative per combattere l'inattività e promuovere nuovi stili di vita. A Copenaghen, i maggiori investimenti negli spazi pubblici a partire dagli anni '70 del Novecento sono direttamente collegati all'aumento del 65% del numero di ciclisti. New York ha pubblicato apposite Active Design Guidelines. Nell'ambito di Urbact, programma europeo di cooperazione per lo sviluppo urbano sostenibile, si è creata una rete di città, "Vital cities", nella convinzione che, invece di avvicinare i cittadini inattivi agli impianti sportivi, gli spazi pubblici debbano essere trasformati in una vasta gamma di impianti, che invitano i cittadini a fare attività fisica. Il premio "Capitale verde europea", assegnato ogni anno a una città che dimostri di essere all'avanguardia nella realizzazione di un ambiente urbano ecocompatibile, viene dato a Lubiana, nel 2016, per significativi interventi di potenziamento delle aree verdi e degli spazi pubblici; ad Essen nel 2017, per aver convertito quasi metà del territorio comunale in spazi pubblici aperti e verdi. L'urbanità, dunque, ha molto a che vedere con il benessere psicofisico, la salute, l'accessibilità ai servizi per tutti in qualunque momento e stagione della vita, e fa parte del cambiamento dei comportamenti, una componente necessaria per il successo delle intenzioni di miglioramento della convivenza e dei luoghi delle città.
La città contemporanea, che non ha più confini, anela a coniugare bellezza, salute e sicurezza, a partire dagli spazi pubblici, inclusi fra i beni comuni, dei quali non si può impedire l'uso, marcatori del grado di urbanità: "nowhere more than in public spaces is a city's civility displayed. Therefore, public space is the banner of urban civility" (UN-HABITAT, 2016). Anche gli insediamenti dispersi e porosi del terzo Millennio, ricchi di interstizi e di assemblaggi eterogenei (p. 27), allergici al limite e quasi indifferenti agli spazi, accomunati da mixitè e tempi desincronizzati (p. 41), pongono la questione dell'uso degli ambienti urbani e, in esso, la possibilità di accedere a spazi pubblici o collettivi, dove provare l'eccitazione metropolitana e il piacere del contatto fisico per strada e quello di "trovarsi gomito a gomito con un sacco di gente sui marciapiedi" (3), apprezzando, nella città, la flessibilità del tempo. La mixitè funzionale e sociale non si discute più: è nei fatti ed è consigliabile (p. 40). In fondo, accanto alla bellezza e alle differenze (nei centri storici per dimensione e stratificazione dei caratteri tipologici e morfologici, nelle città storiche per la miscela di parti ogni volta diverse, p. 83), essa è il dato caratteristico e più attrattivo delle città storiche. Certo, la città storica non è estranea ai fenomeni che caratterizzano le forme urbane contemporanee e ha bisogno di progetti e politiche per ridare vita alle relazioni, fisiche e immateriali, riconoscibili dalla collettività, in grado di alimentare ricchezza culturale e sociale. Forse prossimità e forza fisica delle città storiche sono fra i tratti più resistenti, nella percezione positiva che gli esseri umani continuano a riceverne, per le esperienze ed emozioni urbane che possono provarvi. Accanto alla monumentalità e alla diffusa presenza di scene urbane varie e diverse, le sorgenti della duratura attrattività delle città storiche sono la persistente compattezza di un ambiente urbano caratterizzato dalla stratificazione secolare, alla quale corrisponde un denso deposito di caratteri distinguibili da ogni altra parte della città; l'immutabilità delle forme, dei colori e dei materiali; l'alternanza dei pieni e dei vuoti, ove si sono organizzati spazi pubblici e privati. La densità materiale e immateriale del centro storico aiuta la prossimità e i contatti sociali, attiva la commistione di attività. Oggi, spesso, esso soccombe alle pratiche di consumo di beni materiali e immateriali.
Il successo delle azioni per le città storiche, anche per contrastare questo tipo vorace di consumo, dipende dalle capacità di ridare vita alle relazioni riconoscibili dalla collettività, per alimentare integrazione sociale, compatibilità economica, crescita culturale. A niente giova la mixitè funzionale nei singoli interventi. Sono le politiche che, integrando tutela e sviluppo, possono favorire esperienze da offrire al residente, allo studente, al lavoratore, al turista, spostando le masse dal loro accalcarsi; integrare casa e città; permettere attività varie e diverse, nella risposta ai bisogni delle persone, che cambiano al mutare del tempo, delle condizioni e delle età. Non v'è dubbio, pertanto che la questione dell'eredità storica sia legata alla questione urbana (p. 79) e che si debbano rivedere molte categorie concettuali e strumenti di indagine e di progetto. Si tratta di riconoscere "il ruolo strutturale" delle componenti storiche entro l'impalcato della città contemporanea (p. 84) e l'offerta di ampie risorse di "adattabilità", da parte della città storica, "in quanto le sue componenti si prestano a molteplici riusi e possono offrire risorse a esigenze e stili di vita differenziati" (p. 84). Fra tali risorse vi è anche la trama degli spazi per la collettività, reali o che possono diventarlo (come nel caso degli usi temporanei). Oggi non più riconducibile a una classe sociale dominante e a un'idea di città compatta e ordinata, predefinita e pre-disegnata, questa trama è percorsa da persone diverse per provenienza, età, genere, estrazione sociale, interessi, residenti e temporanee, native e immigrate, giovani e vecchie, ricche e povere, donne, bambini, famiglie, esseri soli o solitari, amici in gruppo, individui forti dell'appartenenza a un ceto, un clan, una comunità.
Qui si pone la questione, oggi alla ribalta, dello standard urbanistico, quella misura minima la cui inadeguatezza è riconosciuta tanto nei tipi di spazi quanto nella loro astrattezza quantitativa, quanto, infine e non residualmente, nell'erogazione di prestazioni a impatto sociale e ambientale. Se lo standard fa parte della re-infrastrutturazione è anche perché favorisce il ripristino dell'urbanità, nel senso qui inteso, che unisce istanze sociali e istanze ambientali senza confonderle. Sulla revisione degli standard tutti concordano: la lista va attualizzata, alcuni sono sovrastimati come i parcheggi, altri vanno qualificati, come il verde e le scuole, ve ne sono di nuovi da aggiungere, come le reti di fibra ottica, ma il punto controverso sembra non sciogliersi e riguarda la fissazione di quantità uguali per tutti (p. 54). A questo nodo va aggiunto il portato delle riforme urbanistiche regionali che hanno declinato gli standard in modi diversi e vari. La questione non è semplice e prova ne siano la fatica e l'impegno, ma anche lo spaesamento e l'incomprensione, del Gruppo di lavoro, ove siedono rappresentanti di istituzioni culturali e scientifiche (INU e SIU), della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e Province autonome, dell'ANCI, dell'Ufficio legislativo MIT, coordinato dalla Consigliere ministeriale Pera, istituito dal 2018 presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con il mandato di esaminare l'opportunità, la fattibilità e le possibili linee di un aggiornamento del D.I. 1444 del 1968 che ha festeggiato i 50 anni nell'estate scorsa. Un mandato privo di istanze sociali e finalità politiche, che lo svuota di intenti e ne rende scivolosa la strada. Il lavoro è in corso e il Gruppo sta affrontando la revisione degli standard in assenza di princìpi nazionali sui quali comporre le profonde differenze provenienti dai diversi contesti regionali e dalle molteplici esperienze e pratiche locali, di un lessico comune e universale, e infine, della possibilità di scavalcare il dato quantitativo in mancanza di un ragionevole compromesso, esito di "convenzioni e contratti ritenuti socialmente e politicamente accettabili" (p. 56). È una grande verità che "il momento per spingere verso la 'revisione del contratto' non lo decidono gli urbanisti (p. 56) cui, invece, compete sempre un lavoro critico e tecnicamente pertinente nei loro piani e progetti, oggi anche nell'acquisita consapevolezza dell'importanza che assumono il welfare mix e i settings fisici per la qualità dei singoli servizi, le dinamiche di sistema e il processo di gestione" (p. 56).
Per concludere
La lettura del libro di Gabellini è un'occasione preziosa per affrontare i tanti e diversi aspetti che connotano l'urbanistica oggi e non perdersi nelle loro complessità. È una strada difficile e faticosa quella che percorre chi intende, con onestà e in trasparenza, tradurre in atti di governo e pratica d'amministrazione, in piani e progetti, azioni concrete e coerenti, la cultura urbanistica. Bruno Zevi, Segretario Generale dell'INU dal 1952 al 1969, durante il VI Congresso dell'INU, nel 1956, afferma: "Io so che molti urbanisti sono delusi; ma essere urbanisti significa saper sopportare e contenere le delusioni. L'urbanistica è un'attività, prima che tecnica, morale, che esige una precisa forza psicologica: quella di non stancarsi" (4). In parte, gli anni nei quali Zevi è Segretario coincidono con la presidenza dell'INU da parte di Adriano Olivetti (1950-1959), che svolge il suo ruolo convinto che l'urbanistica sia la disciplina in grado di coordinare tutte le altre, comprese quelle economiche. Nel medesimo Congresso, Olivetti, da Presidente dell'Istituto, nel suo Discorso iniziale, richiama la fatica dell'esercizio della pianificazione urbanistica, e ne conferma la fiducia, senza credere o far credere che "la nostra disciplina postuli rivoluzioni impossibili e s'inoltri sugli infidi sentieri dell'utopia. Si limita ad agire secondo il precetto che dice di non tralasciare, operando, giorno per giorno, in minuta fatica, la fede in altre più grandi e perfette realizzazioni, ma impone pure di non trascurare, per la fede in queste, l'obbligazione al quotidiano lavoro". Poi, pone una domanda secca e asciuttamente risponde, esorta: "Che fare? Qual è la responsabilità dell'urbanistica in questo quadro che è chiaro, che appare dalle cronache di ogni giorno sempre più tragico, anche al temperamento più ottimista? Noi dobbiamo risolutamente penetrare nella segreta dinamica della terza rivoluzione industriale e procedere con coraggio verso piani coraggiosi" (5).
I piani coraggiosi del terzo Millennio, al centro della quarta rivoluzione industriale, non sono quelli della verità svelata e della predeterminazione e la risolutezza va declinata in termini di competenze e responsabilità, recuperando l'umiltà del quotidiano lavoro. L'incitamento, perciò, è ancora attuale, nel sostegno alla volontà di non demordere, non mancare d'impegno; un po' aiuta, anche, per rispondere a una domanda, che sorge spontanea quando si giunge alla fine della lettura: e ora, che fare?
Silvia Viviani
Note
1) Ivan Krastev, Futuri maggioritari, Feltrinelli, 2017, pag. 93. 2) Parte introduttiva della New Urban Agenda, adottata alla conclusione della Conferenza ONU sull'abitazione e sullo sviluppo sostenibile a Quito il 20 ottobre 2016. 3) Suketu Mehta, La vita segreta delle città, Einaudi, 2016, pag. 29. 4) Bruno Zevi, "Rapporto sull'organizzazione del V Congresso dell'INU", Genova 14-17 ottobre 1954, ora in "Urbanistica", n. 15-16, 1955, p. 14. 5) Da Noi sogniamo il silenzio, Edizioni di Comunità, 2015 (prefazione di Vittorio Gregotti). Si tratta di parte discorso dell'ottobre 1956 pronunciato a Torino in occasione del VI Congresso dell'Istituto Nazionale di Urbanistica e pubblicato integralmente con il titolo di Urbanistica e libertà locali in Città dell'uomo, Edizioni di Comunità, 2015.
N.d.C. - Silvia Viviani, architetto e urbanista, dal 2013 al 2019 è stata presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica. È autrice di numerosi strumenti urbanistici comunali e territoriali, oltre che di saggi e articoli pubblicati in volumi collettanei, periodici di settore e quotidiani nazionali. Ha insegnato all'Università degli Studi di Firenze, all'Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria e all'Università degli Studi di Napoli. Ha partecipato come relatrice a convegni e congressi nazionali e internazionali. Recentemente ha assunto l'incarico di assessore all'Urbanistica del Comune di Livorno.
Il testo sopra è una rielaborazione dell'intervento all'incontro con Patrizia Gabellini tenutosi alla Casa della Cultura il 14 maggio 2019 nell'ambito della VII edizione di Città Bene Comune. Sul libro e le ragioni dell'incontro, v. anche: R. Riboldazzi, Patrizia Gabellini a Città Bene Comune (10 maggio 2019).
N.b. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
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