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Nel nostro Paese sembra finalmente risvegliarsi l'interesse non solo per le aree metropolitane ma anche per le città medie o piccole fino ai centri minori che connotano il nostro territorio. Oltre al seminario promosso a Fano dal Consiglio Regionale delle Marche per le aree interne e i centri minori, il nuovo clima è testimoniato ad esempio dal recente Festival delle città organizzato a Roma dalla Lega per le Autonomie Locali (1-4 ottobre), un evento peraltro alquanto deludente, nonostante la partecipazione di ministri, governatori e sindaci, che riflette il generale ritardo concettuale e culturale della politica italiana su questi temi. Altri segnali provengono dal disordinato dibattito in corso sulle Agende urbane o dalle ricorrenti denunce sulla invivibilità dei nostri agglomerati urbani più grandi riportate spesso dalla stampa nazionale. Ma arrivano soprattutto dall'importante programma di ricerca sulle aree interne che ha dato corpo al volume curato da Antonio De Rossi, Riabitare l'Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli, 2018): un pregevole contributo a più voci a favore di una nuova strategia per lo sviluppo del territorio italiano incentrata sul ruolo irrinunciabile dei borghi minori e delle aree marginali, sia della montagna che dell'entroterra.
Riabitare l'Italia prende le mosse dal generoso tentativo di Fabrizio Barca lanciato nel 2012 per contrastare l'abbandono e lo spopolamento delle aree interne a favore di una svolta radicale di riequilibrio tra aree forti e deboli del nostro Paese, muovendo dalla convinzione forse utopistica che "l'Italia del margine non è una parte residuale; si tratta anzi del terreno forse decisivo per vincere le sfide dei prossimi decenni" (De Rossi, 2018). La ricerca fa emergere con chiarezza la complessità della posta in gioco nella "strategia per le aree interne" nel momento che queste non vengano più interpretate come un vuoto a perdere nel tempo ma, al contrario, come una grande questione nazionale che può indurre a ribaltare le stesse immagini rappresentative del nostro Paese. Assumendo in particolare - come propone, ad esempio, anche De Rita - l'Appennino in quanto scheletro vitale dell'Italia, serbatoio di quell'anima contadina che tra l'altro ci ha permesso di superare a fatica le crisi economiche degli ultimi decenni (De Rita, "Corriere della sera", 23.05.2019). Il programma presentato nella pubblicazione si conclude enunciando una pluralità di strategie per l'intervento (invero un po' astratte) e soprattutto alcuni temi di progetto possibile che presuppongono "un grande lavoro di ripensamento, di riattivazione di riconversione, fatto di estesi riusi e nuove operazioni puntiformi, dove non servono grandi opere ma una grande capacità di ragionare in termini sistemici". Quanto lontano ci troviamo dalle ingenue e sbrigative prefigurazioni architettoniche presentate nell'ultima Biennale nella mostra curata da Mario Cucinella dedicata anch'essa al tema delle aree interne (Cucinella, 2018)! Un insieme di progetti predisposti per l'occasione, espressione di volenterosi esercizi di messa in forma di architetture suadenti, purtroppo ben lontane da ogni concreta possibilità di contribuire a innescare davvero il rilancio dei territori dell'interno, i quali si trovano spesso in drammatiche condizioni di arretratezza strutturale fuori della portata di opere architettoniche estemporanee. Al contrario, Riabitare l'Italia rappresenta uno sforzo credibile di riconcettualizzazione delle molteplici questioni dello sviluppo delle aree interne, paragonabile forse - per ampiezza dei temi affrontati e per rilevanza degli obiettivi assunti - alla ricerca Itaten, un grande lavoro di diverse università promosso dal Ministero dei Lavori pubblici che alla metà degli anni Novanta aveva messo a fuoco una nuova immagine del territorio italiano. Un'immagine fondata sulla irriducibile varietà degli ambienti insediativi locali, intrecci peculiari di contesti naturali e urbanizzazioni diffuse fuori scala e dalle forme, spesso inedite, che avevano ormai soppiantato le città esistenti; dunque assai diversa da quella fino ad allora generalmente accettata delle aree metropolitane tenute insieme dai corridoi di infrastrutturali, formulata in precedenza dal Progetto '80. Per la verità, c'è chi non a torto ritiene che le aree urbane in Italia siano scomparse dall'agende del governo fin dai tempi dei questo progetto che le aveva assunte in modo lungimirante come fondamento di un nuovo modello di sviluppo per il futuro del Paese all'insegna della modernità. Come sappiamo, il Progetto '80 è stato soltanto una prova di riformismo rimasta sulla carta, tanto lungimirante quanto astratta e visionaria, comunque presto sconfitta e liquidata, anche perché i grandi partiti di allora - DC e PCI - hanno preferito concentrarsi sul tema della casa, politicamente assai più urgente e spendibile di fronte alle fortissime tensioni sociali dei primi anni Settanta.
Sta di fatto che da allora la città moderna e contemporanea in Italia si è ridotta a un mucchio di case, deprivate del loro indispensabile contesto di relazioni urbane; uno spazio abbandonato alla speculazione e disertato delle politiche statali (con la positiva ma discutibile eccezione dei Programmi complessi e dei Prusst del MIT, negli anni Novanta). Diversamente dalle città europee, quelle italiane pagano tuttora un prezzo molto alto alla loro mancata modernizzazione, che rimanda al fallimento di quegli anni e che ormai appare sempre meno fattibile a causa dell'enorme debito pubblico accumulato nel frattempo dal nostro Paese. Con il passare degli anni, aumenta peraltro la nostra consapevolezza che le politiche per le città da noi siano state vittime di un grave ritardo, il quale è culturale prima ancora che economico-finanziario. Spesso infatti i soldi si riescono a trovare, ma purtroppo non sappiamo come spenderli se non delegandoli al mercato, nella generale incapacità di formulare progetti urbani credibili e fattibili.
L'urbanistica, ad esempio, continua ad essere pensata come strategia settoriale di regolazione delle aree e del patrimonio insediativo finalizzata soprattutto al miglioramento delle condizioni abitative, e così diventa inevitabilmente ostaggio della rendita immobiliare e fondiaria. La vera innovazione starebbe invece nel pensare in modo integrato urbanistica e sviluppo, perseguendo una sostenibilità piena nella rigenerazione urbana, al tempo stesso insediativo-ambientale, economica e sociale. Così la pianificazione urbanistica e la programmazione economica dovrebbero essere considerate finalmente come le due facce di una stessa medaglia, che è poi lo sviluppo sostenibile delle città. Ma questo salto di qualità non riusciamo proprio a farlo, troppo condizionati come siamo dalle nostre tradizionali appartenenze disciplinari, e così continuiamo a fare separatamente piani urbanistici e piani strategici. Mentre i sindaci sono chiamati continuamente in causa per dare risposte a drammatici problemi di sviluppo, occupazione e welfare, piuttosto che di qualità urbana. E in questa loro funzione sono ben poco aiutati dagli strumenti convenzionali dell'urbanistica quanto dalle astratte previsioni dello sviluppo economico.
Intanto, in tutto il mondo la nuova economia digitale globalizzata e dell'innovazione sta soppiantando gli antichi equilibri rimettendo al centro le città, soprattutto quelle poche tra loro che si dimostrano capaci di accedere ai grandi circuiti internazionali, attirando risorse, investimenti e popolazioni creative. Queste città stanno diventando un "amalgama di molteplici frammenti situati su diversi circuiti trans-urbani" (Sassen, 2006). In questa situazione, come osserva Richard Florida, ci saranno in futuro soltanto vincitori e perdenti senza più situazioni intermedie. Le poche città che ce la fanno si prendono tutto (winner-take-all). Le molte altre che rimangono escluse, perdono tutto (Florida, 2018). Un'eco di quanto sta avvenendo in questa trasformazione senza precedenti proviene da Milano, con le accese polemiche sul suo dinamismo di "città-mondo". Il capoluogo lombardo viene accusato di svilupparsi in modo bulimico, cannibalizzando le risorse a disposizione del Paese e "scavando fossati al proprio intorno", senza mostrare più alcun interesse a trascinarsi dietro le regioni circostanti e lo stesso territorio nazionale, come invece aveva fatto nel passato, quando - si dice - non inseguiva la prospettiva disturbante della Città-Stato o ancora peggio quella di un nuovo "sovranismo comunale" (Viesti, il Messaggero, 12.11.19). Queste polemiche dimostrano l'inconsapevolezza diffusa su come stanno cambiando le città globali nei nuovi equilibri internazionali e le tendenze alla concentrazione dei fattori dello sviluppo che effettivamente si manifestano a scapito delle città più deboli, in Italia come in Europa. Ma in qualche modo testimoniano anche il disagio di quanti si sentono discriminati dal nuovo ordine che sta emergendo e, anziché sforzarsi di accrescere la competitività facendo valere le proprie potenzialità nei circuiti globali, preferiscono lamentarsi nei confronti di chi ha imparato a correre. Intanto noi restiamo colpevolmente privi di politiche urbane a scala nazionale che potrebbero aiutare a gestire una crescita più equilibrata a partire dai possibili ruoli da attribuire legittimamente alle diverse città sulla base delle loro effettive potenzialità. In assenza di visioni lungimiranti per il futuro, anche i nuovi strumenti come l'agenda urbana promossa dalla UE diventano un'occasione mancata, fuori scala e assolutamente inefficaci di fronte alla portata devastante dei processi che stanno dispiegandosi.
Per il futuro lo scenario appare ancora più temibile. Pochissime metropoli (in Italia Milano, poi forse Roma e Napoli) sono destinate ad affermarsi sempre più come grandi piattaforme globali dello sviluppo, accentuando le loro comprensibili rivendicazioni per una maggiore autonomia politica e amministrativa dal centro (una sorta di ritorno surrettizio alle Città-Stato, come sostenuto provocatoriamente da Parag Khanna), (Khanna, 2017). Da noi invece il dibattito politico continua a privilegiare stancamente le Regioni, per un federalismo ad autonomia differenziata che peraltro non appare affatto scontato, a causa delle gravi distorsioni e squilibri che potrebbero essere innescati sul piano nazionale. In questo scenario, le nostre città, e in particolare quelle minori, rischiano di essere fortemente penalizzate dall'assenza di politiche statali per lo sviluppo. Per opporsi a questa deriva sfavorevole i comuni minori dovrebbero darsi da fare in prima persona, per cercare di pesare di più sia politicamente che economicamente. Una prospettiva che richiede una forte progettualità: i comuni minori dovrebbero inventarsi ad esempio nuove forme di cooperazione reticolare, promuovendo un funzionamento a cluster sovracomunale che li potrebbe rendere complessivamente più forti; alleandosi comunque laddove possibile con le aree metropolitane, nel comune obiettivo di mantenere in vita lo straordinario policentrismo bilanciato del nostro territorio. Tutto ciò vale a maggior ragione per le aree interne e i loro borghi che, nei fatti, soprattutto quelle dell'Appennino, tendono ad essere sempre più marginalizzate, aggravando di giorno in giorno la già precaria situazione della montagna e dell'entroterra. Gli strumenti innovativi come le ZES, zone economiche speciali, non sembrano ancora abbastanza efficaci. E i Poli tecnologici per l'innovazione e l'economia circolare, pur promettenti, sono ancora a venire.
Indirizzi per un progetto pilota
Tenendo conto dell'inquietante scenario di tendenziale concentrazione dello sviluppo in poche aree metropolitane che incombe nel nostro futuro, c'è dunque da inventare una nuova strategia che permetta per quanto possibile alla trama policentrica delle piccole città di sopravvivere e di rigenerarsi, nonostante le incerte prospettive della knowledge economy veicolata dalla rivoluzione digitale in atto, che tra l'altro minaccia seriamente il destino dei distretti, e nonostante le ricorrenti catastrofi sismiche e ambientali a cui sono spesso esposte. Tuttavia, sussiste ancora qualche fondato motivo di speranza se si pensa, per fare un esempio, al fortunato modello di "industrializzazione senza fratture" che le Marche hanno saputo inventare cinquanta anni fa per agganciare la profonda trasformazione del sistema produttivo italiano. Ebbene, anche adesso c'è da inventare qualcosa di nuovo per i centri minori e i borghi, nelle Marche come altrove. Qualcosa che, seguendo le illuminanti intuizioni di Saskia Sassen, dovrebbe assomigliare alla formazione di un insieme interconnesso di microcosmi locali a portata globale, con aggregazioni di scala variabile che danno luogo a una molteplicità di clusters di sviluppo territoriale dai profili ben marcati, coerenti con le identità sedimentate nel passato ma aperti anche alle nuove potenzialità dell'economia e società delle reti. Questa visione per il futuro dei centri minori, sostanzialmente affine a quella ereditata da Itaten, dovrà comunque essere sostanziata attraverso una varietà di strategie di sviluppo commisurate alle potenzialità specifiche dei contesti locali che, come è noto, da noi sono straordinariamente diversi tra loro nel raggio di pochi chilometri.
A dire il vero non sappiamo ancora come fare. Di certo, c'è da ribellarsi alle colpevoli disattenzioni della politica e della cultura che ancora non riescono a trattare in modo adeguato la rinnovata centralità delle aree urbane. Ma, purtroppo, non possiamo ancora contare su un pensiero riformistico all'altezza delle sfide portate da quest'epoca di transizione. Ci rendiamo conto che l'invenzione auspicata del modello a clusters reticolari sul territorio non può nascere né dalle nuove possibilità offerte dalla tecnica né tantomeno dai miglioramenti delle reti di connessione, ma deve provenire da una mobilitazione sociale creativa e consapevole, assistita per quanto possibile dalle istituzioni amministrative e politiche, dalle migliori forze produttive e dalle competenze culturali e scientifiche più avanzate. Però la strada da fare è lunga e passa, prima di tutto, dalla formazione di una nuova cultura delle amministrazioni pubbliche e delle comunità locali. In ogni caso possiamo provare, d'accordo con le proposte di Riabitare l'Italia, a mettere in moto da subito un processo di sperimentazione condiviso che dovrebbe aiutarci a imboccare la direzione giusta, dimostrandoci comunque disponibili ad apprendere criticamente dagli esiti degli interventi prefigurati. Qualcosa per inciso che non è mai stato fatto per le esperienze di ricostruzione post-sismica, nelle Marche non diversamente dal resto dell'Italia. Cosicché, in assenza di questa intelligenza di sistema capace di accumulare ed elaborare criticamente le esperienze fatte, ogni volta sembra di dover ricominciare daccapo, gettando poi la croce sui sindaci e sugli apparati dello Stato colpevoli di non saper intervenire nei modi e nei tempi attesi dalla gente. In attesa di disporre di una strategia ben collaudata e affidabile, possiamo comunque provare a muovere empiricamente i primi passi attraverso una sperimentazione progettuale sul campo che dovrebbe migliorare la nostra capacità d'intervento con l'obiettivo di far crescere nel tempo un programma di valenza nazionale a favore dei centri minori, soprattutto nelle regioni policentriche per eccellenza.
In questa prospettiva, i principali passaggi metodologici per impostare un progetto pilota generativo a mio avviso dovrebbero essere i seguenti:
1. Suscitare progettualità locali con processi di apprendimento "dal basso". Si parte insomma dal locale, favorendo il protagonismo delle comunità locali e delle loro istituzioni, piuttosto che dalle esigenze della politica o del "neo-centralismo compassionevole" che hanno caratterizzato molte esperienze del passato. Al tempo stesso si istituisce una Struttura di missione a livello centrale ma partecipata da attori istituzionali ai diversi livelli con cui apprendere criticamente dalle proposte locali per poi selezionarle inquadrandole in diversi schemi d'intervento.
2. Promuovere pochi progetti urbani come progetti di sviluppo locale. I progetti locali non vanno intesi banalmente un insieme disgiunto di opere funzionali e tanto meno singole architetture prestigiose, bensì come articolazioni selettive di una strategia integrata di sviluppo urbanistico e al tempo stesso di sviluppo sociale ed economico del territorio, secondo le specificità dettate dalla diversità dei contesti d'intervento. In questo sforzo di traduzione delle attese di sviluppo in progetti urbani integrati le comunità locali non vanno lasciate sole, ma devono contare sul supporto politico-amministrativo degli altri Enti di governo e sull'assistenza tecnico-scientifica delle università, filtrate dalla Struttura di missione centrale.
3. Fare rete per inquadrare la giusta scala della messa a sistema dei centri minori. Le strategie dello sviluppo locale rinviano a una scala che abitualmente va ben oltre quella della singola municipalità nella prospettiva, da incoraggiare, di formazione di clusters territoriali sovracomunali. Si tratta insomma di individuare la giusta scala dell'aggregazione intercomunale, fattibile politicamente e praticabile amministrativamente, per produrre significativi effetti di sviluppo attraverso i progetti selezionati. Le associazioni programmatiche tra comuni, funzionali ai progetti di sviluppo, potranno in ogni caso sfociare nel tempo in nuove realtà intercomunali più strutturate a regime.
4. Ricorrere obbligatoriamente al partenariato multilivello. Per avere speranze di successo, i progetti vanno pensati, montati e attuati attraverso il partenariato tra le istituzioni di governo ai diversi livelli, possibilmente a supporto delle progettualità locali e della loro convergenza in progetti urbani multilivello. Il partenariato trascende la colorazione politica degli Enti e va incentivato con l'offerta di opportuni strumenti e misure di incoraggiamento da utilizzare a livello locale, con l'obiettivo di perseguire con continuità nel tempo le strategie adottate, seppure dotandole della necessaria flessibilità necessaria per far fronte all'inevitabile mutamento delle condizioni.
5. Adeguare il sistema di government al fine di facilitare il partenariato interistituzionale. Nella prospettiva indicata, la soluzione migliore è quella di ricorrere a un governo flessibile per accordi e intese operative finalizzate all'attuazione dei progetti, introducendo esplicitamente l'amministrazione per progetti nel nostro sistema di governo del territorio.
Apprendere dall'esperienza
Nel predisporre il programma di progettazione sperimentale mirato allo sviluppo sostenibile dei centri minori dobbiamo in ogni caso guardarci da alcuni errori da evitare, riflettendo criticamente sulle esperienze già fatte. Così, ad esempio, dobbiamo tenere conto dei pesanti limiti incontrati anni fa dalla Nuova Programmazione, una strategia innovativa di programmazione dello sviluppo promossa dal Centro e mirata sostanzialmente ad utilizzare al meglio i fondi strutturali per il Mezzogiorno. Questa esperienza ha rappresentato un considerevole salto di qualità rispetto alle pratiche correnti, però è stata inficiata dalla incomprensibile rinuncia a esercitare una forte progettualità pubblica interistituzionale, rinviando troppo alla estemporaneità delle proposte provenienti dal territorio, spesso inquinate dalle pratiche clientelari locali, purtroppo scarsamente interessate a dare conto della loro rilevanza ai fini dello sviluppo atteso. Si dovrà inoltre riflettere anche su altri insuccessi, come le agende urbane, costruite finora come sommatoria di azioni disgiunte e settoriali, che portano uno scarso valore aggiunto alla trasformazione delle città. Non è invece un errore ma una strategia dagli effetti limitati l'azione esemplare su alcuni borghi ripopolati e offerti al turismo di qualità, nella futuribile prospettiva della smart land proposta da Legambiente con Uncem. Qui si tende a riproporre in un certo senso la divaricazione in atto già osservata da Florida per le città globali, tra pochi vincitori e molti perdenti. Il rischio è infatti di abbandonare al loro destino la gran parte dei borghi e centri minori del nostro Paese, anche quelli più belli e conosciuti, ma carenti di capacità d'iniziativa e di progettualità.
Piuttosto è il caso di tornare a riflettere più attentamente su alcune esperienze recenti liquidate troppo frettolosamente, senza conoscerle appieno e ignorando gli effettivi risultati conseguiti. Un caso per tutti è la ricostruzione post-sismica in Abruzzo. Qui si è provato a sperimentare la portata innovativa, ancora insuperata, della legge nazionale n. 77/2009 art.14, che istituiva i piani di ricostruzione come convergenza al tempo stesso di urbanistica a potere conformativo, e di strategie per il rilancio delle attività economiche e il rafforzamento della coesione sociale. In verità, il bilancio dell'esperienza dei piani di ricostruzione nei comuni del cratere aquilano è fatto di poche luci e molte ombre. Di fatto l'innovazione non è passata, anche per l'impreparazione dei professionisti quanto delle amministrazioni comunali e regionali, come purtroppo delle stesse università chiamate a supportare l'azione dei sindaci. Le resistenze culturalmente più insidiose sono venute dall'INU, interessato prevalentemente a riattivare rapidamente il patrimonio edilizio come del resto richiesto dai proprietari e dalle imprese, e anche dalla arretratezza degli ordini professionali locali, ostili ai cambiamenti necessari per far fronte alla complessità dei piani di ricostruzione così come concepiti dalla legge. È fallito purtroppo anche il previsto sistema di partenariato multilivello, con una cabina di regia interistituzionale assistita da una autorevole Struttura tecnica di missione. Ne è stata causa l'eccesso di protagonismo personale da parte delle figure-chiave nominate a presiedere la cabina di regia. Ma hanno avuto un peso decisivo anche le contrapposizioni laceranti tra Regione Abruzzo e Comune de L'Aquila, di diverso segno politico. Il risultato è che la ricostruzione da allora marcia ancora lentamente e a dieci anni dal sisma ancora molto c'è da fare soprattutto per rianimare il centro storico de L'Aquila tuttora abbandonato.
Conclusioni
In conclusione, è il caso di insistere sulla opportunità di attivare tempestivamente un progetto pilota per il rilancio dei centri minori, a carico delle Regioni insieme allo Stato e naturalmente dei Comuni interessati alla sperimentazione. Un progetto capace di mettere a frutto le risorse volta per volta disponibili localmente (come una migliore qualità di vita, costi dell'abitare più contenuti e dotazioni di beni comuni generalmente più elevate) migliorando la competitività e la attrattività di questi centri rispetto alle aree urbane più consolidate. Un progetto da sperimentare inizialmente su un numero ristretto di territori pilota e da generalizzare in seguito ai diversi contesti regionali. Magari a partire dai programmi di infrastrutturazione finanziati dalle Regioni d'intesa con lo Stato, di solito programmati in un'ottica eccessivamente settoriale (dimenticando ad esempio l'esperienza innovativa dei Prusst, che aveva considerato l'opera infrastrutturale come un attivatore di contesto, volto a mobilitare in particolare i proprietari delle aree e degli edifici valorizzati dalla realizzazione delle opere stesse).
Naturalmente ogni contesto locale dovrà essere affrontato con strategie specifiche, cercando di cogliere le potenzialità di sviluppo volta per volta più adatte. Ma questo aspetto potrà essere approfondito nello Studio di fattibilità che costituisce la indispensabile cornice di inquadramento del progetto pilota, il quale in ogni caso dovrebbe essere pensato come strategia da replicare criticamente in diversi contesti di aree interne. A tal fine è assolutamente essenziale imparare a fare rete sul territorio, promuovendo al tempo stesso il partenariato inter-istituzionale mirato alla costruzione di alcuni progetti integrati a valenza strategica, dove i progetti urbani siano intesi come progetti di miglioramento della qualità insediativa e al tempo stesso di sviluppo sostenibile, un po' come ha cercato di fare la Regione Toscana, quando ha previsto di integrare la programmazione dello sviluppo con la pianificazione del paesaggio per intervenire nei paesaggi compromessi da riqualificare.
Ma c'è anche da aggiungere qualcosa di più irrituale alle strategie di rilancio dei centri minori. D'accordo con Luc Boltanski, sappiamo che oggi il mondo della cultura, attraverso la narrazione, è in grado di creare un notevole valore aggiunto per le merci (Boltanski, 2019). Non troppo diversamente, se si vuole riscattare i centri minori, è necessario arricchirli di una narrazione che sia adatta a stimolare l'interesse non soltanto per i loro abitanti, ma anche per le comunità allargate ai diversi livelli. Utilizzando una molteplicità di linguaggi, tecniche e strumenti per la narrazione, alcuni specialisti della comunicazione (alla Piero Angela, per intenderci) dovrebbero mirare a far salire i centri minori nella considerazione della società allargata che è chiamata a sostenerne il rilancio. Insomma, il progetto pilota dovrà essere pensato non solo come strategia territoriale integrata, ma anche come progetto di comunicazione innovativa, capace di tirar fuori le aree interne dalle secche dell'indifferenza in cui versano da troppo tempo.
In definitiva, sono molte le sollecitazioni a cui dovrebbe rispondere un possibile programma pilota per il rilancio dei centri minori nei diversi contesti d'intervento del nostro Paese. Ma in fin dei conti ciò che conta davvero è che si riesca ad avviare concretamente un processo corale in cui le comunità locali si sentano le protagoniste dei progetti di rilancio dei propri territori e si convincano di poter contare sul sostegno consapevole delle istituzioni ai vari livelli, anche avvalendosi delle forme narrative più efficaci per imporsi all'attenzione dei molti attori dello sviluppo.
Alberto Clementi
Bibliografia minima Boltanski L., Esquerre A., 2019, Arricchimento, il Mulino, Bologna Cucinella M., a cura di, 2018, Arcipelago Italia. Progetti per il futuro dei territori interni del Paese, Quodlibet, Macerata Clementi A., Dematteis G., Palermo P.C., a cura di, 1996, Itaten. Le forme del territorio italiano, Laterza, Roma-Bari Clementi A., di Venosa M., 2012, Pianificare la ricostruzione, Marsilio, Venezia De Rossi A., a cura di, 2018, Riabitare l'Italia, Donzelli, Roma Florida R., 2018, City watch. La città per tutti, in AA.VV., "Il ritorno delle città stato", Aspenia, n. 81 Khanna P., 2017, La rinascita delle città-stato, Fazi, Roma Sassen S., 2006, Perché le città sono importanti, in AA.VV. "Città, Architettura e Società", X Biennale di Venezia, Marsilio Urban@it, 2017, Le agende urbane delle città italiane, II Rapporto sulle città, il Mulino, Bologna
N.d.C. - Alberto Clementi, urbanista, è stato preside della Facoltà di Architettura di Pescara. Consulente di ministeri e altre amministrazioni pubbliche regionali e comunali, ha coordinato numerosi programmi di ricerca e prodotto piani e progetti di livello urbano e territoriale. Dirige la rivista online EcoWebTown.
Tra le sue pubblicazioni più recenti: Forme imminenti. Città e innovazione urbana (LiSt Lab, 2016); Strategie di reinfrastrutturazione urbana, in F. D. Moccia, M. Sepe, "Networks and infrastructures of contemporary territories" (INU edizioni, 2016); Ridisegnare il governo del paesaggio italiano, in "ParoleChiave", (n. 56, 2016); con C. Pozzi, Progettare per il futuro della città (Quodlibet, 2015); EcoWebDistrict. Urbanistica tra smart e green, in E. Zazzero, "EcoQuartieri. Temi per il progetto urbano ecosostenibile" (Maggioli, 2014).
Per Città Bene Comune ha scritto: In cerca di innovazione smart (18 maggio 2018); Un nuovo paesaggio urbano open scale (12 ottobre 2018).
Del libro Forme imminenti. Città e innovazione urbana (LiSt Lab, 2016) - di cui si è discusso alla Casa della Cultura il 16 maggio 2017 con Patrizia Gabellini, Rosario Pavia e Francesco Ventura - v. il commento di Pepe Barbieri, La forma della città, tra urbs e civitas (12 maggio 2017).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 13 DICEMBRE 2019 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale
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F. Forte, Rendita: riequilibrare pubblico e privato, commento a: M. Achilli, L'urbanista socialista (Marsilio, 2018)
F. Camerin, Le città tra mercato e gentrificazione, commento a: S. Stein, Capital City (Verso Books 2019)
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F. Indovina, Un giardino delle muse per capire la città, commento a: G. Amendola - Sguardi sulla città moderna (Dedalo, 2019)
D. Demetrio, Per un camminar lento, curioso e pensoso, commento a: G. Nuvolati, Interstizi della città (Moretti&Vitali, 2018)
G. Nuvolati, Scoprire l'inatteso negli interstizi della città, commento a: C. Olmo, Città e democrazia (Donzelli, 2018)
P. C. Palermo, Oltre la soglia dell'urbanistica italiana, commento a: P. Gabellini, Le mutazioni dell'urbanistica (Carocci, 2018)
S. Vicari Haddock, Le periferie non sono più quelle di una volta, commento a: A. Petrillo, La periferia nuova (FrancoAngeli, 2018)
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C. Tosco, Il giardino tra cultura, etica ed estetica, commento a: M. Venturi Ferriolo, Oltre il giardino (Einaudi, 2019)
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P. Burlando, Strategie per il (premio del) paesaggio, commento a: Paesaggio e trasformazione (FrancoAngeli 2017)
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C. Saragosa, Aree interne: da problema a risorsa, commento a. E. Borghi, Piccole Italie (Donzelli, 2017)
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G. Pasqui, I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza, commento a: L. Gaeta, La civiltà dei confini (Carocci, 2018)
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