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LA BELLEZZA SALVERÀ LE CITTÀ?
Commento al libro di Giancarlo Consonni
Agostino Petrillo
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Un agile ma denso libro di Giancarlo Consonni, professore emerito di urbanistica – Non si salva il pianeta se non si salvano le città (Quodlibet, 2024) – mette al centro dell’attenzione del lettore questioni decisive, vitali per il nostro comune futuro: rapporto tra città e natura nell’epoca del global warming, scopo e senso dell’abitare la città, relazione tra città bella e città giusta, fonti e orientamenti di una rinnovata politica urbana. Questioni evidentemente strettamente connesse e intrecciate, che – con una punta di civetteria culturale – sono declinate attraverso dei grandi exempla, rivelatori di una erudizione oggi sempre più rara. Il testo attinge infatti a saperi complessi e multipli, di cui si trova miglior traccia sia nella bibliografia finale che nelle note ridotte all’essenziale, suppongo per non appesantire la lettura di quello che a tratti assume l’andamento di un vero e proprio manifesto, di un appassionato plaidoyer pour la ville.
Si comincia così da Leon Battista Alberti, dalla sua idea di città ispirata al concetto di concinnitas che tiene sempre insieme i due corni del pubblico e del privato, sviluppandosi intorno a un criterio di “bellezza che si carica di senso nelle relazioni sociali” (p.47). Secondo Consonni, Alberti rimette con i piedi per terra l’idealismo di Platone, che nella Repubblica istituiva una connessione diretta sul piano ontologico tra bellezza e giustizia, proponendo una visione in cui la Kallipolis era prima di tutto la città giusta, potremmo dire quasi indipendentemente dalla forma estetica assunta, in fondo sempre adeguata quando veniva realizzata iuxta sua propria principia, per cui la città bella era quella coerentemente normata, rettamente orientata alla methexis. Alberti infatti fa tornare insieme “bello, buono e giusto”, e li fa concretamente “camminare per strada, con e tra i cittadini” (p. 48). La bellezza esalta il senso dell’appartenenza, mette in piena luce i valori urbani, la urbanitas, ne è direttamente il risultato. Non è mai una bellezza riducibile a decorazione, a delittuoso e inutile ornamento avrebbe detto Adolf Loos, ma è il frutto di un collettivo colere, di un avere cura, ed è anche munus, dono e dovere degli abitanti verso se stessi.
Oggi, nel momento in cui da tempo è venuta meno una simile “tensione ordinatrice”, le realtà urbane contemporanee si mostrano invece come luoghi di una raggelata bruttezza, perdendo completamente la relazione tra tessuto insediativo e monumento (p.54). Il monimentum, la cui radice mnestico-ingiuntiva è forse più trasparente e a mio avviso si coglie meglio nell’equivalente tedesco Denkmal, che sta etimologicamente quasi per memorandum, per operante testimonianza, scandisce la riconciliazione tra urbs e civitas, cristallizza la memoria sociale sul terreno fisico della città. Il tessuto stesso è insieme monito e monumento, accumulo di passato, il vecchio Henri Lefebvre avrebbe detto opera.
Nostalgie conservazioniste? Che senso ha riproporre una simile concezione della città nel momento in cui pare invece illanguidire fino quasi a smarrirsi il rapporto tra urbs e civitas? Tarda reazione ai guasti del movimento moderno, in cui si gioca Camillo Sitte contro Le Corbusier, che accecato dal suo razionalismo affermava addirittura l’inutilità della strada, mero “corridoio urbano”, o valutazione attenta di una eredità importantissima che rischia ogni giorno di andare smarrita?
Il testo di Consonni si sottrae a una siffatta facile contrapposizione, la preoccupazione che lo muove è molto concreta: come ritrovare il senso di una bellezza urbana socialmente creata e socialmente appropriata, in grado di tenere insieme la città al di là delle narrazioni retoriche di molta urbanistica contemporanea (p. 80). È infatti attraversato dal senso di un’urgenza tutt’altro che accademica dei temi che tratta: dallo smarrimento di fronte all’imperversare della guerra, alla distruzione delle città, sia fisica che sociale, alla crisi ambientale. Le città contemporanee sono minacciate non solo dai conflitti in corso, ma anche da forze che ne tentano la dissoluzione: la rendita, nelle sue varie forme, e il capitalismo estrattivo. Sono forze che operano frequentemente in maniera centrifuga, allontanando popolazioni, svuotando i centri ridotti a parchi protetti per le élites e per le sedi dei poteri che contano, mentre la “diffusione urbana” divora i territori e li cementifica, sottraendo spazio alle attività agricole. Un’agricoltura che va essa stessa ripensata, in chiave di custodia e di riproduzione dei territori, non di loro sfruttamento intensivo e distruttivo (pp. 99-101). Anche qui dunque il colere dovrebbe essere un munus, un compito-dovere e insieme un dono, compito purtroppo per lo più disatteso, sotto la spinta di un capitalismo ormai tutto orientato alla estrazione di valore più che alla rigenerazione delle risorse.
Mentre il declino dei sistemi welfariani mette in crisi anche l’organizzazione materiale delle città, quello che occorrerebbe fare è difendere e promuovere non solo questi aspetti materiali, ma anche quelli sociali: “accanto alle infrastrutture primarie… e alle infrastrutture secondarie… vanno riconosciute, e quanto più possibile potenziate, quelle che potremmo chiamare le infrastrutture della socialità… Armare le città di convivenza civile: è questa la strada da perseguire (pp.70-71). Emerge infatti un altro punto dolente, riguardante le sempre più profonde linee di divisione che attraversano ormai anche in Europa le città, che sembrano quasi portare a una negazione e a un rovesciamento della tradizione weberiana. Qui Consonni coglie bene un drammatico cambiamento d’epoca: nelle città si è a lungo respirata l’aria “che rende liberi”, ed esse hanno il compito di conservare un’apertura allo straniero e al migrante, e di attivare quei processi di emancipazione economica che permettono un’ascesa “dalla servitù alla libertà” come diceva Werner Sombart. La città europea si è imposta come un modello sociale e politico più flessibile rispetto alle città orientali, irrigidite in un sostanziale Apolitismus, dovuto al predominio di poteri dispotico-burocratici, e in cui gli abitanti rimangono fondamentalmente dei sudditi, non sono mai cittadini. Ma proprio nella progressiva erosione di questa tradizione si annida il pericolo mortale potremmo dire della “americanizzazione” in negativo delle nostre città, della introduzione di modelli importati da altrove, dello scavarsi di fratture insanabili tra gli abitanti. Anche perché negli anni della globalizzazione le città sono state investite di responsabilità economiche nuove, confrontate spesso con potenze ad esse esterne, ma senza avere a disposizione i mezzi legali, finanziari e organizzativi per svilupparsi appieno nella direzione di un recupero di quelle che furono un tempo le prerogative delle città stato e delle realtà politiche autonome comunali.
Attraverso le città oggi passa più l’economia che la politica, ridotta a sistema di compromessi. Quando di tratta di considerare la città in Europa e il sistema delle città europee è necessario dunque evitare la endogeneity trap messa in luce da Saskia Sassen, un’autoreferenzialità analitica che induce una sorta di vizioso circolo ermeneutico. Il che significa che le conseguenze dell’integrazione delle città europee nel Global City network non può essere spiegata unicamente a partire da una riflessione generale sulla globalizzazione stessa, ma solo esaminando caso per caso l’evoluzione storica dello stato nazione in cui esse sono inserite, le loro strutture territoriali e le loro istituzioni. Nel processo di rescaling, di riattribuzione di competenze e poteri, in cui tutta una serie di funzioni un tempo prerogativa dello stato nazione vengono trasferite ad ambiti sovra-nazionali o sub-nazionali, si crea un contesto di slittamento di poteri in cui difficilmente possono resistere le caratteristiche storiche delle città europee, che rischiano di essere cancellate e appiattite dalle forze travolgenti della competizione globale e inter-urbana, dall’irrompere di capitali alla ricerca di rapida valorizzazione.
La politica urbana, la politica delle e per le città si smarrisce, dilegua, per la “debolezza della risposta politica alla offensiva scatenata dalle forze della rendita immobiliare e, più in generale, dal potere economico” (p.83), e si traduce nell’assenza di una progettualità che ricongiunga saperi sempre più settoriali e divisi, e che sia in grado di innescare relazionalità, di promuovere prossimità. I nuovi “tessitori di urbanità” (p.96) auspicati nel libro, non solo specialisti del territorio, ma anche politici, associazioni, gruppi professionali, imprenditori illuminati sedotti dal fare città per ora non si intravedono all’orizzonte. La città bella e egualitaria allora rimane solo un fantasma, un modello regolativo che sempre più si allontana dalla città reale? Uno spettro che aleggia nel passato o che va collocato alla fine della storia, come un po’ finiva per ammettere l’ultimo Lefebvre? Forse riprendendo appunto Platone, la Kallipolis è una possibilità che va sempre e comunque inseguita, nonostante le difficoltà della sua realizzazione, anche quando pare allontanarsi dalla contingenza, e va immaginata come costante figura di critica della città reale.
L’immediatezza così poco consolante dell’attualità che ci circonda non chiude la vicenda storica della città, che ha ancora del divenire davanti a sé. L’Idiota di Dostojevskij diceva: “Krasota spasët mir”, la bellezza salverà il mondo... forse si illudeva... ma cominciando dalle città, d’accordo con Consonni, pensiamo che valga almeno la pena di provare.
Agostino Petrillo
N.d.C. - Agostino Petrillo è professore associato di Sociologia dell'Ambiente e del Territorio al Politecnico di Milano.
Tra i suoi libri: La città perduta. L'eclissi della dimensione urbana nel mondo contemporaneo (Dedalo, 2000); con Sandro Mezzadra (a cura di), I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza (Manifestolibri, 2000); Max Weber e la sociologia della città (Franco Angeli, 2001); Città in rivolta. Los Angeles, Buenos Aires, Genova (Ombre corte, 2004); con Stefano Padovano, Sociologia (Vallardi, 2004; 2008); Identità urbane in trasformazione (Coedit, 2005); con Paolo Bossi e Emilio Guastamacchia, Progetti di infrastrutture nella regione urbana (Franco Angeli, 2006); Villaggi, città, megalopoli (Carocci, 2006); con Cesare Blasi e Gabriella Padovano, Nomadismo. Il futuro dei territori (Maggioli, 2011); con Laura Longoni (a cura di), Fiumara. Il nuovo polo urbano e la città(Ledizioni, 2012); Peripherein. Pensare diversamente la periferia (Franco Angeli, 2013); con Sonia Paone e Francesco Chiodelli, Governare l'ingovernabile. Politiche degli slum nel XXI secolo (ETS, 2018); con Paola Bellaviti (a cura di), Sustainable Urban Development and Globalization. New strategies for new challenges (Springer, 2018); La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città (Franco Angeli, 2018); La periferia non è più quella di un tempo (Bordeaux, 2020); (a cura di), Una nuova questione urbana? (FrancoAngeli, 2023).
Per Città Bene Comune ha scritto: Oltre il confine (15 giugno 2019); La città che sale (19 giugno 2020); Dove va Milano? (29 settembre 2023); Satellite: cronaca di un fallimento (27 ottobre 2023).
Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Silvano Tagliagambe, Salvare le città: una questione politica (27 settembre 2024).
Sui libri di Agostino Petrillo, v. in questa rubrica: Serena Vicari Haddock, Le periferie non sono più quelle di una volta (3 settembre 2019); Enzo Scandurra, Periferie oggi, tra disuguaglianza e creatività (18 ottobre 2019).
N.b. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 22 NOVEMBRE 2024 |
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