Richard Lee Peragine  
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L'ARCHITETTURA DEL DEBITO


Commento al libro di Antonio di Campli e Cecilia Cempini



Richard Lee Peragine


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Debito e spazio. La produzione popolare dell’habitat in Ecuador (LetteraVentidue, 2024) di Antonio di Campli e Cecilia Cempini affronta un tema poco dibattuto, soprattutto negli ambiti della ricerca sull’architettura e l’urbanistica, ovvero – come recita il titolo – il rapporto fra debito e spazio. Il lavoro critico svolto dagli autori risulta di grande novità e interesse. Due saggi compongono il libro. Il primo, di Antonio di Campli, inquadra il debito come pratica spaziale; il secondo, invertendo il rapporto fra gli oggetti di analisi, racconta uno spazio specifico – il quartiere di edilizia popolare di Ciudad Victoria, a Loja, in Ecuador – come pratica del debito. Mentre il primo saggio concettualizza il debito nel suo farsi spazio, il secondo mette in luce come lo spazio sia risultato diretto dell’operazione indebitante. L’analisi situata di un contesto periferico o, meglio, periferizzato, del capitalismo contemporaneo dona ulteriore forza all’argomentazione, permettendo un confronto con condizioni e pratiche abitative, con la produzione di spazi urbani e politiche urbanistiche, ora lontane ora vicine al contesto occidentale. Al contempo, ciò permette agli autori di introdurre posizioni teoriche ancora poco dibattute negli ambiti disciplinari dell’architettura e l’urbanistica italiana, anzitutto quella decoloniale – gesto già operato da Di Campli altrove – ma anche quella femminista.

Il saggio di Di Campli si presenta di stampo maggiormente teorico rispetto al secondo. Nella prima sezione, rifacendosi alla critica europea e latino-americana di afferenza marxista-operaista e anarco-femminista o alle loro intersezioni, l’autore condivide la posizione per cui alla finanziarizzazione del capitale, all’istituzione di entità di macro-credito globale e alla proliferazione di strumenti di micro-credito confezionati su misura per le soggettività povere e ‘razzializzate’, soprattutto donne, è corrisposta la percolazione del debito pubblico alla sfera privata – sotto forma di debito privato, appunto. In altre parole, in seguito alla crisi del modello fordista-keynesiano, la povertà è diventata, attraverso il debito, un’ulteriore frontiera dell’accumulazione capitalistica, che ha regolato il mercato globale soprattutto a partire dalle lotte di decolonizzazione e di classe del secondo dopoguerra.

In tal modo, si è andato istituendo un regime apertamente biopolitico di governo delle popolazioni attraverso l’indebitamento – in particolare dei poveri, quale figura attorno cui si è inoltre andato ricamando uno specifico discorso normativo-disciplinare di soggettivazione. È proprio tale carattere biopolitico che, scrive Di Campli, “non deve sfuggire a chi si occupa di progetto urbanistico” (p. 14). Se è vero che il debito – una promessa a rendere ciò che è dovuto, la cui struttura di fatto anticipa la logica di equivalenza generale istituita dalla moneta – viene pensato e studiato in prima istanza come rapporto temporale, una strada battuta con meno attenzione dalla ricerca e dalla critica rimane quella che conduce alle sue ricadute spaziali.

Il primo dei due testi mira allora a mettere in luce il modo in cui il debito non sia solamente una relazione economica, ma anche una “vera e propria pratica dell’abitare” (10), che produce spazi, territori e condizioni abitative, dalla scala domestica a quella di prossimità, “entro condizioni di obbligo, di intrecci tra forme di predazione e di produzione estrattivista, di fallimenti, di strategie di resistenza, di rovina e rottura” (p. 16). Il debito ha quindi “precise forme di produzione spaziale” (p. 16), oggetto della ricerca di Di Campli e Cempini. È dallo studio di queste forme e pratiche che il libro propone di rinvenire, in un chiaro rimando operaista, “dentro e contro” il debito, cioè, dentro e contro la logica del capitale e del suo dominio biopolitico, “un contro-progetto di coesistenza” (p. 11).

Il presupposto di Di Campli per indagare il nesso che lega debito e spazio è che non si possa né tornare a un idilliaco “prima” né, volontaristicamente, uscire da questa condizione, ma solo cambiarne il regime di senso, “distorcerlo” quindi, cercando di “socializzare il debito e rileggerlo in termini progettuali”, ovvero studiando “configurazioni di beni e spazi socialmente utili” (p. 17). Di Campli si propone quindi di ovviare alla mancanza analitica di gran parte degli studi sul debito rispetto al ruolo attivo, striato ed eterogeneo – topologico ed ecologico, cioè relazionale al di là della sua dimensione metrica, come sottolineato nella seconda sezione – giocato dallo spazio. In particolare, Di Campli si concentra sul modo in cui il debito pubblico, estero in particolare, produce e regola: le urbanizzazioni (anche informali), il mercato immobiliare pubblico-privato e l’accesso alla casa, l’espansione infrastrutturale, e, infine, gli spazi della migrazione e le loro relazioni topologiche. Ciò che tuttavia accomuna queste forme spaziali del debito, e che interessa Di Campli, ciò che lega le molte forme assunte dalla “produzione dell’habitat”, come viene chiamata nel libro, è come il debito modifichi e articoli il rapporto che intercorre fra sfera domestica e sfera urbana, privato e pubblico, interno ed esterno, e, perciò, lavoro produttivo e lavoro riproduttivo. La lente analitica si sposta allora sulla casa, come luogo privilegiato di sperimentazione del debito privato quanto pubblico; non più come “luogo del privato e dell’intimità, ma come un campo di battaglia sia nel senso dell’intrusione di nuove tecnologie finanziarie, sia come luogo della riorganizzazione del lavoro” (p. 23).

Per Di Campli, infatti, la casa si erge materialmente grazie al debito e apre così lo spazio (supposto) intimo e confinato a ciò che la circonda. La conseguenza diretta è che sia proprio la donna a essere più colpita dal debito, in virtù di come il suo confinamento fisico e lavorativo alla sfera domestica al di fuori del centro globale capitalista (e anche al suo interno) è garantito, in maniera spesso violenta, dall’ordine patriarcale eteronormativo. Con il venir meno del modello sociale-welfarista e il crescente ricorso a strumenti di micro-credito privato, il lavoro e l’indebitamento individuale per ottenere servizi e beni essenziali ricadono in ultima istanza sulle donne. In questo senso, il debito politicizza la riproduzione sociale, come sottolinea Di Campli, accompagnandoci nel solco di alcune riflessioni chiave sul rapporto fra lavoro riproduttivo non salariato, naturalizzazione del corpo e dei compiti della donna, e resistenza al dominio patriarcale-capitalista, così come espresso da alcuni femminismi – in particolare, quelli vicini ai movimenti italiani e latinoamericani, come dai loro punti di incontro.

Il debito, seguendo Di Campli, attiva processi di valorizzazione sia a partire dalla costruzione incrementale della casa attraverso debiti formali e informali, sia attraverso il lavoro produttivo e riproduttivo necessario alle donne per raggiungere una maggiore autonomia (nella sua accezione liberale). L’approccio geografico e decoloniale femminista, come può essere il metodo del “cuerpo-territorio” citato dall’autore, al contrario, si fa carico di queste violenze estrattive e rivendica le proprietà rivoluzionarie dello spazio corporeo territorializzato. Detto altrimenti, per Di Campli, la costruzione dell’urbano come risposta alla crisi dell’abitare – fino alla creazione di debtscapes, come recita il titolo della quarta sezione – diventa espressione di singole sfere domestiche che si intrecciano, producendo un terreno di lotta continuo, a partire dalla resistenza della donna rispetto alla sua (im)posizione sociale.

L’Ecuador è contesto storico e geografico di rilievo per un’analisi del debito come pratica spaziale – e dello spazio come pratica del debito, come emerge nella seconda parte del volume. “In Ecuador”, titolo di un paragrafo particolarmente ben informato di dati quantitativi, viene a galla il carattere propriamente estrattivo e biopolitico del debito, nel modo in cui rinforza – e in certa misura emancipa da – le divisioni di genere, classe e razza. Viene infatti alla superficie l’ambiguità del debito: in questo quadro storico-geografico è evidente come esso sia strumento attivo, da un lato, di predazione ed estrazione di valore, dall’altro, di rivendicazione; sia di riduzione della povertà nell’immediato, sia di trinceramento delle disuguaglianze nel lungo periodo.

Sappiamo, da questa indagine, che a partire dalla crisi ecuadoriana del 1999-2000, i soggetti economicamente in difficoltà sono più propensi ad indebitarsi, anche tramite debiti informali, senza acquistare beni che creeranno reddito o ulteriore opportunità di prestito, come invece sarebbero quelli relativi ad attività commerciali, veicoli o ristrutturazioni, riservati ai più ricchi; e che sono le donne, il cui tempo dedicato ad attività riproduttive non salariate è aumentato con la crisi finanziaria e i cui rapporti informali lavorativi precludono debiti formali, a essere maggiormente colpite dall’indebitamento e la sua promessa di autonomia, che a sua volta riproduce le gerarchie della struttura familiare tradizionale (p. 32-40). Per Di Campli, tuttavia, insieme ai processi di soggettivazione che si articolano attraverso il debito, astuzia e desideri aprono a possibilità di resistenza, se non di fuga, all’interno della vita indebitata, la quale però rimane all’interno degli asservimenti e delle contraddizioni dettate dall’indebitamento. Detto altrimenti, l’architettura del debito è determinata da questi desideri; “ha carattere affettivo” (p. 41).

In questo abitare, l’architettura presenta due caratteri fondamentali: incrementalità e porosità. La casa come “infrastruttura incrementale” si mostra pensata “come un’opera aperta, espandibile secondo le possibilità e le dimensioni dei debiti contratti” (p. 42); riflette cioè necessità contingenti, fluttuazioni economiche e cambiamenti nella struttura familiare che accompagnano l’indebitamento. La casa, in Ecuador, muta la sua tradizionale rappresentazione di domesticità e intimità, aprendosi fisicamente e funzionalmente all’esterno, incrociando forme dell’abitare ora più temporanee, ora più stabili. È in tal senso che risulta interessante pensare la casa, suggerisce Di Campli, come infrastruttura, cioè “dispositivi relazionali che esistono solo in rapporto con qualcos’altro” (p. 43), evidenziando come “ordinano e organizzano la differenza attraverso le esperienze e pratiche di chi le abita, riflettendo differenze di identità, di genere e di posizione sociale” (ibid.). La casa incrementale diventa quindi porosa: il domestico e la riproduzione diventano urbane; l’urbano e le attività produttive domestiche.

Il debito, in buona sostanza, innesca la produzione di spazi urbani informali. È qui, infine, che l’autore propone alcune strategie progettuali, partendo dall’assunto che, se il debito cerca di operare una sintesi – ovvero ridurre ad una totalità immaginaria la separazione e la frammentazione che costituiscono la condizione abitativa oggi, dell’Ecuador in particolare – il progetto, dentro e contro esso, “deve agire nel punto dove diventa possibile impedire l’unità, dove diventa praticabile bloccare il meccanismo della sintesi, fino ai limiti della rottura e, possibilmente oltre” (p. 46). Queste strategie, o forme progettuali, presentate metodologicamente sotto forma di narrativa cinematografica, sono quindi proposte come resistenza alla logica del capitale indebitante.

La prima strategia (Breaking Bad) riprende il carattere incrementale e poroso dell’abitare; la seconda (The Martian-Sopravvissuto) concerne l’appropriazione di spazi di quartiere come risposta alla precarizzazione dovuta al debito; il terzo (Amores Perros) allude alla proliferazione di un linguaggio architettonico inedito, una forma di “debt futurism” o un “carattere queer” (p. 50) che rompe le logiche binarie della razionalità tecnico-costruttiva, della famiglia tradizionale, del progresso economico. Queste forme del progetto distorcono a loro favore le impossibilità del presente, aprendo l’abitare a “nuove condizioni di coesistenza tra differenze sociali, ecologiche, economiche”; per Di Campli, “pensare al progetto urbanistico e architettonico in tali situazioni significa quindi ragionare attorno a infrastrutture e dispositivi spaziali che distorcono, ironicamente, le logiche estrattive del debito” (p. 51).

Ed è l’indagine di Cecilia Cempini che racconta, nel secondo saggio, il modo in cui queste logiche operano nella Vivienda de Interés Social di Ciudad Victoria, a Loja, nel sud dell’Ecuador. Questi quartieri di edilizia sociale, la cui costruzione è finita per coincidere con gli anni del neoliberismo predatorio latino-americano, si sono sviluppati attraverso una commistione di strumenti di debito micro-finanziari e macro-finanziari, ibridando welfare di origine privata e pubblica. Il saggio di Cempini è composto da un’approfondita ricerca etnografica, fotografica e progettuale in merito al nesso fra debito e costruzione incrementale a partire da undici famiglie (e altrettante unità abitative) a Ciudad Victoria, e in una seconda parte, da una riflessione sulle questioni trattate nel primo capitolo (incrementalismo, domesticità, rottura della dicotomia pubblico/privato). Richiamandosi a Ginzburg, Cempini procede attraverso “microstorie” che rendono visibile la produzione spaziale del debito, ovvero, un “metodo morfologico” che “produce una morfologia […] produzione di forme e logiche spaziali che, per la loro analogia, diventano indizi, aprendo a connessioni impensate” (p. 71).

È infatti ricostruendo l’incrementalismo di queste abitazioni, anche graficamente, che Cempini riesce a suggerire esempi concreti del modo in cui il debito opera come violenza fisica e psicologica, oltre che strumento di estrazione di valore e forma progettuale di resistenza. Allo stesso modo, il modello di casa-fabbrica di Ciudad Victoria illumina il carattere operativo e precarizzante del debito che, dal micro- al macro-credito, dal formale all’informale, colpisce i presupposti dell’abitare intimo e privato e, quindi, soprattutto le donne, delineando la “crisi del domestico” (p. 130). In questo contesto, qualità e incrementalità abitative dipendono dalla capacità individuale (e pubblica) di indebitarsi: “la casa incrementale, in tal senso, può essere considerata come dispositivo spaziale che materializza al tempo stesso dinamiche sociali e processi economico-finanziari” (p. 62). Ciudad Victoria, come altri celebri esempi, quale Elemental, mostra i limiti e le contraddizioni di interventi di edilizia pubblica basati sulla capacità di investimento edilizio incrementale degli occupanti, la quale, spesso ridotta, diventa ulteriore vincolo economico e abitativo attraverso il debito. L’incrementalismo si presenta quindi come un’arma a doppio taglio: “tecnica progettuale che, in un primo momento, sembra essere espressione di un atteggiamento ottimistico e radicale ma, a un livello più profondo, sotto certi aspetti, può essere considerato anche pessimista e conservatrice” (p. 133); espressione di “autonomia” quanto di abbandono istituzionale (privatizzazione o delega di servizi essenziali, anche infrastrutturali, in primis). Abbandono e percolazione del debito pubblico a quello privato emergono a Ciudad Victoria da una dimensione propriamente ecologica: l’assetto idrogeologico inadeguato – su cui il mercato immobiliare è disposto a rischiare ai fini del profitto – ha infatti portato il comune di Loja ad indebitarsi con lo Stato per mitigare la pericolosità del sito, così traferendo il debito contratto direttamente ai suoi abitanti.

Le famiglie di Ciudad Victoria sono quindi costrette “a trovare ‘da sé’ una soluzione particolare e specifica […] dentro e fuori dalle leggi, in modi formali e informali […] inseguendo una propria idea dell’abitare” (p. 130). In che senso, quindi, in conclusione, si può parlare di contro-progetto? L’interessante lavoro degli autori, e la promettente agenda che avviano, apre a numerose domande, come ogni libro di critica dovrebbe, in particolare rispetto al rapporto fra resistenza e progetto urbano o architettonico: si può parlare di forma progettuale come forma di resistenza? Indubbiamente, ma a quale forma del progetto afferisce, a quella politica o a quella architettonica, o per l’appunto a un’intersezione fra le due, rappresentata dalla nozione di progetto stesso? Se lo spazio del debito rende visibile “un’insufficienza sul piano materiale che è tuttavia espressione di una deficienza e criticità sul piano socio-politico” (p. 126), “quello che osserviamo sono strategie di negoziazione, di adattamento e di resistenza a processi di produzione dell’habitat ingiusti” (p. 127). Si tratta allora di un contro-progetto o sono, invece, appunto, più problematicamente, negoziazioni?

Ciò che preme sottolineare, proprio a partire dalla stessa posizione, a tratti forse ambivalente, di questo libro, è l’impossibilità di porci fuori dal debito. Si potrebbe in tal senso aprire un dialogo con approcci critici che mettono in discussione l’orientamento assunto dal libro in merito alla possibilità di rinvenire in forme progettuali architettoniche un contro-progetto di resistenza alla logica dell’indebitamento. Parafrasando Benjamin Noys (2015), potremmo dire che Debito e spazio è sotteso da una tendenza affermativa vitalista, o dal presupposto di un rovesciamento dialettico della vita sul potere, che permea il pensiero radicale contemporaneo, occidentale quanto decoloniale, e perde di vista come la vita sia già un’esternalità che il capitalismo pone come luogo di accumulazione. Le donne, le famiglie di Ciudad Victoria sono assorbite dal potere e dalla logica del capitale, e le vie di fuga dal debito delineate dagli autori sono poste a priori come resistenza. Se l’apporto metodologico e analitico spicca nel dibattito corrente sulla critica del progetto, grazie a un’attenta disamina del discorso contemporaneo sul debito e sull’abitare ecuadoriano, il suo presupposto politico vitalista rispetto alle forme di resistenza architettonica si scontra con l’implicazione inaggirabile dell’architettura con la logica del capitale. È opportuno quindi sottolineare ulteriormente l’impossibilità di sottrarsi alla relazione che il capitale è –come del resto evidenzia Di Campli; frattura fertile, negatività che rimane irrisolta, che Debito e spazio ci presenta.

Richard Lee Peragine

 

 

 

N.d.C. - Richard Lee Peragine, architetto, ha conseguito il dottorato di ricerca in Urban and Regional Development (URD) al Politecnico di Torino. Al momento è titolare di una borsa di ricerca al Dipartimento di Architettura dell'Università degli Studi di Ferrara. Svolge attività di insegnamento in entrambe le sedi. Ha presentato il suo lavoro all'Institute for Cultural Inquiry di Berlino, TU Delft, The Bartlett School of Architecture, Center for Advanced Studies Rijeka. Ha lavorato in studi di architettura a Londra, Bologna, Berlino and Bruxelles.

Tra le sue pubblicazioni: con Boano, Camillo; Peragine, A pedagogy of uselessness: challenging solutionism and utility in the Anthropocene through architectural pedagogy, in «The Journal of Architecture», 2024, pp. 1-24; con J. Igor Fardin, "The Promise(s) of Sustainability", in e(time)ologies or the changing meaning of architectural words, ETSAM-UPM Press, pp. 154-162,2023; come solo autore, La Krajina bosniaca. Note sul vuoto, in «Urbanistica Informazioni», vol. 309, pp. 82-86, 2023; "Memoria post-nazionale. Spazio, sovranità e violenza in Bosnia-Erzegovina", in Autoritarismi, totalitarismi e luoghi del trauma. Da siti di violenza a spazi di memoria, a cura di Chiara Giubilaro, Elena Pirazzoli e Daniela Tononi, Palermo: Palermo University Press, pp. 111-127, 2021.

N.b. I grassetti nel testo sono nostri

R.R.

 

 


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22 NOVEMBRE 2024

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L. Konderak, Per una razionalità ecosistemica, commento a: O. Marzocca, Il virus della biopolitica: forme e mutazioni (Efesto, 2023)

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M. Agostinelli, Crisi climatica? Colpa dei nazionalismi, commento a: D. Conversi, Cambiamenti climatici (Mondadori Education, 2022)

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F. Cardullo, Non tutto è città, commento a: G. Fera, Spazio pubblico e paesaggio urbano nella città moderna (Planum Publisher, 2020)

E. Scandurra, Roma, scenografia urbana e vita quotidiana, commento a: F. Erbani, Roma adagio (Edea, 2023)

B. Bottero, Città femminili? Ahimè, non ancora, commento a: E. Granata, Il senso delle donne per la città (Einaudi 2023)

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