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URBANISTICA/ECONOMIA: RIAPRIERE IL DIALOGO
Commento al libro di Alain Bertaud
Marco Ponti
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“Se due o più imprenditori si ritrovano, anche per svago, cospireranno contro l’interesse pubblico, alzando i prezzi e diminuendo l’offerta” Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, 1776
Il libro di Alain Bertaud, Order without Design. How Markets Shape Cities (MIT press, 2018), sembra qualificato per aprire un discorso interdisciplinare asfittico o interrotto da troppi anni. L’autore è un urbanista francese di fama internazionale che in un cinquantennio di carriera ha lavorato in tutti gli angoli del mondo, in paesi sviluppati o in via di sviluppo o socialisti (o comunque avversi ai meccanismi di mercato). Oltre a incarichi privati e accademici, ne ha avuti molti da organizzazioni pubbliche sovranazionali e attualmente vive negli Stati Uniti. Si è trovato così spesso a dialogare con economisti e ha riscontrato grandi difficoltà, finché non ha deciso che il colloquio era indispensabile e in questo libro tenta di trarne alcune conclusioni e raccomandazioni. E, secondo chi scrive, lo fa con successo: il libro è ricco di dati ed esempi internazionali e copre una vasta casistica di temi, dai trasporti ai prezzi delle abitazioni, ai problemi dello “sprawl”, alla tutela delle categorie svantaggiate. Ha qualche limite per i lettori europei nella misura in cui si occupa maggiormente di contesti americani e di paesi in via di sviluppo, ma rimane un testo innovativo proprio perché affronta terreni poco esplorati.
Anche chi scrive queste note è in una posizione privilegiata ai fini di questo dialogo: ha preso una laurea in architettura al Politecnico di Milano (disegnava benissimo…), e da neolaureato aveva sì conosciuto William Alonso, il pioniere dei modelli economici urbani, ma non aveva capito assolutamente niente. Ma poi ha vinto una borsa di studio in California e ha scoperto l’economia, che ha praticato per vent’anni in giro per il mondo, e tornato in Italia, è diventato ordinario, sempre al Politecnico, di politica economica. E ha constatato che anche in Italia urbanisti ed economisti non si parlano.
Due principi economici forse accettabili
Facciamo adesso un tentativo ardito: formuliamo due proposizioni economiche che possano essere accettate non solo dalle due culture, ma, all’interno di queste, anche da posizioni politiche molto distanti tra loro. La prima è nota come “ottimo paretiano” (o “catallattico”): se due soggetti scambiano volontariamente qualche cosa (soldi con case, per esempio) il benessere complessivo dei due aumenta, perché altrimenti non avrebbero effettuato lo scambio. E questo vale ovviamente per tutti gli scambi volontari. Quindi il benessere di tutti gli “scambiatori” aumenta. Questo non vuol dire necessariamente che anche il benessere sociale aumenti, ci possono essere “costi esterni” e problemi sociali da valutare. Ma è certo che il loro benessere aumenta, anche se qualcuno di loro è povero, o un venditore è un monopolista, o uno speculatore ecc.
La seconda riguarda la scarsità: se quello scambio avviene tra compratori e venditori, ma questi ultimi non possono (o non vogliono) aumentare la produzione di quel che vendono, questo determinerà prezzi più alti che se non ci fosse quel vincolo, e i venditori guadagneranno di più, esattamente di quanto fanno stare peggio i compratori. In questo caso, in termini di benessere totale, compratori e venditori “vanno in pari”. Ma anche la collettività sta peggio rispetto a un mercato senza scarsità, cioè senza vincoli: infatti si diminuiranno gli scambi possibili che abbiamo visto generare un aumento di benessere complessivo. Alcuni che vorrebbero comprare saranno esclusi dai “prezzi della scarsità” (noti come “rendite”, perché non guadagnati). Compreranno solo i compratori più ricchi, i più poveri non avranno nemmeno i benefici dello scambio.
Due gruppi sociali e la collettività dunque stanno peggio, solo i venditori stanno meglio (e se parliamo di case, quanto detto sopra vale ovviamente anche per gli affitti, che seguono i prezzi delle case). E si ricorda che la scarsità può essere generata anche da monopolisti o “oligopolisti collusi”: i risultati sono identici. Anzi, secondo alcuni questo tipo di “scarsità strategica” sarebbe dominante, cioè i mercati dei terreni e degli edifici urbani sarebbero sempre oligopolistici, controllati cioè da pochi attori che si mettono d’accordo. Questo, tuttavia, non è verosimile: in assenza di vincoli, basta che ci sia una minoranza di venditori ai quali l’oligopolio non è in grado limitare le vendite per mantenere alti i prezzi, e l’oligopolio si dissolve. Inoltre, anche nel caso estremo di un oligopolio che metta d’accordo tutti i venditori, la convenienza a “tradire” l’accordo sarebbe fortissima, con risultati analoghi (sempre in un mercato senza vincoli). Il “traditore” infatti venderebbe di più anche se a prezzi un po' più bassi: a molti converrebbe.
I costi sociali dalla scarsità sono dunque pesanti, ma, tornando agli edifici, un altro soggetto in alcuni casi potrebbe stare meglio con la scarsità: è l’amministrazione pubblica, che tendenzialmente avrà più facilità a ottenere risorse fiscali per scopi sociali se esistono rendite, che se non ve ne sono. La concorrenza rende i prezzi vicini ai costi, c’è meno “grasso” aggiunto. Questo ovviamente potrebbe indurre le amministrazioni a volere città con maggiore scarsità. Ma non solo: le rendite significano un elevato potere di fare lobbying, o corrompere l’amministrazione, fenomeno che gli urbanisti conoscono bene. Per esempio, alcune amministrazioni per favorire i costruttori non fanno pagare loro tutti gli oneri di urbanizzazione, facendoli ricadere sulla fiscalità generale. Si tratta ovviamente di una scelta politica molto discutibile, che tuttavia in alcuni casi può essere compensata dalla crescita urbana che determina.
Una cosa è certa: se vi sono attori dominanti nel mercato immobiliare, questi premeranno affinché le loro rendite siano massimizzate, quindi contro ogni forma di liberalizzazione. Meglio che non entrino altri giocatori ad aumentare l’offerta. Si rinuncia qui a trattare l’argomento keynesiano del moltiplicatore, sia perché non è considerato nel libro, sia perché tecnicamente complesso. Comunque, va in direzione di “premiare” l’attività costruttiva, anche in termini sociali. Vale invece la pena di fare un esempio intuitivo di come si crea una rendita da scarsità: la stazione di una nuova metropolitana. Questa determina un rilevante aumento dei prezzi di edifici ed aree che godano di questa maggiore accessibilità: una rendita creata da un investimento pubblico, che sarebbe equo “catturare” per via fiscale, anche se poi il carico fiscale sarebbe trasferito pari pari sui prezzi finali. Ma se si permette di edificare liberamente intorno alla stazione, fino a che l’offerta non equilibri la domanda, i prezzi si “schiacceranno” sui costi di costruzione, la rendita sparirà (o si ridurrà molto), e tutti i benefici di quell’investimento pubblico saranno goduti da chi avrà comprato, a basso prezzo, residenze o spazi commerciali. Anche l’utenza della metropolitana aumenterà, rendendo più efficiente quell’investimento pubblico, che sarà anche più sostenibile finanziariamente.
L’esempio è certo schematico, vi possono essere altri vincoli, ma questi hanno comunque un costo sociale di cui occorre tener conto: prezzi più elevati, rendite, meno utenti per una infrastruttura molto costosa. Che la scarsità rispetto alla domanda non sia un “driver” essenziale per la formazione di prezzi urbani, a volte è sostenuto dall’osservazione dell’esistenza di stock di immobili invenduti o comunque non utilizzati. Ma questi fenomeni, generando oggettive perdite di reddito ai proprietari, sono più verosimilmente legati a “mismatching” tra tipologie di domanda e offerta (anche gli speculatori sbagliano, e a volte rovinosamente), che non da comportamenti strategici, che presuppongono, come abbiamo visto, un controllo strettissimo del mercato. Questo “mismatching” è d’altronde presente in tutti i mercati, anche quello del lavoro, ed entro certi limiti si può considerare fisiologico. Nel caso di immobili urbani, certo il fatto che questi, beni tendino a volte a mantenere o accrescere il loro valore nel tempo può determinare comportamenti noti come “prezzi d’attesa”, spesso anche supportati da aspetti finanziari (garanzie bancarie per ottenere crediti meno onerosi, ecc.). Ma l’effetto sui prezzi finali complessivi dovrebbe essere accuratamente valutato, soprattutto in mercati estesi come quelli delle città maggiori, e comunque il fenomeno sarebbe eroso in presenza di un’offerta crescente: le prospettive di avere vantaggi non vendendo o non affittando sarebbero molto meno solide in un mercato immobiliare più competitivo.
Città come mercato del lavoro
Tornando più direttamente ai contenuti del libro, questa definizione economica dell’autore è certo semplificata, e discende da una visione molto extraeuropea, di città che crescono rapidamente in base all’immigrazione dalle campagne, in quanto in grado di garantire maggiori redditi da lavoro. Ma forse può essere provvisoriamente accettata, anche perché politicamente non molto connotata. Un mercato del lavoro che tuttavia incontra due limiti nei costi con cui deve misurarsi: quello monetario dei costi degli immobili, e quello in parte monetario e in parte di tempo di spostamento per recarsi al lavoro. Quest’ultimo è limitato dall’esperienza internazionale in un’ora di viaggio, al di sopra di questo tempo la pendolarità tende ad esaurirsi. Quindi il mercato del lavoro rilevante per le singole collocazioni residenziali è costituito dai posti di lavoro raggiungibili in un’ora circa. E questo spiega bene anche il valore della centralità: anche in caso estremo che i posti di lavoro siano omogeneamente distribuiti nell’area urbana, e che anche i tempi di viaggio lo siano, comunque i posti di lavoro raggiungibili dalle aree centrali sono più numerosi che da qualsiasi altro punto della città. Ma anche gli insediamenti terziari e commerciali hanno interesse a localizzarsi dove possono accedere al maggior numero possibile di lavoratori (o, per le attività commerciali, di acquirenti).
Per valutare in modo sistematico questi fenomeni, la modellistica economica urbana è divenuta oggi molto sofisticata grazie alla facilità di calcolo e di rilevamento di dati. I discendenti attuali dello storico modello di Alonso fanno interagire dinamicamente il mercato dei suoli (e quindi dell’edificato), i costi/tempi di trasporto, e il mercato del lavoro, per simulare, in situazioni date, le condizioni economiche di tutti gli attori in gioco (gli “stakeholders”). E quindi si è in grado di valutarne le variazioni di benessere in seguito a interventi pubblici sulle densità e le tipologie, o sulle reti e i costi/tempi di trasporto. La tecnica specifica maggiormente impiegata per la valutazione economica è nota come analisi costi-benefici sociali (che includono le variabili ambientali), ma ve ne sono altre su cui non possiamo qui dilungarci, tipo quella dei “prezzi edonici”. Alcune possono anche evidenziare contenuti distributivi (cioè “pesare” costi e benefici in funzione delle diverse categorie sociali implicate). E contenuti distributivi possono certo essere presenti in scelte pubbliche di realizzazione di edilizia sovvenzionata per le categorie meno abbienti.
Tuttavia, questa strategia ridistributiva può confliggere più di altre con il mercato del lavoro, variabile esogena e mutevole nel tempo. Per non ridurre la mobilità lavorativa delle categorie più deboli, riducendone le opzioni, occorrerebbero titoli di possesso in qualche misura variabili nel tempo, anche in funzione del variare dei redditi (“means tested”). E simmetricamente la riduzione della mobilità dei lavoratori può danneggiare in qualche misura anche le imprese. Il premio Nobel dell’economia Krugman ha stimato che la riduzione della mobilità dei lavoratori in seguito alla paralisi del mercato delle case con la crisi dei “subprime” del 2008 è costata all’economia americana diversi punti di PIL. Comunque anche su questi temi il libro di Bertaud è ricco di spunti di riflessione.
Il mercato del lavoro è esogeno alla sfera delle decisioni pubbliche locali
La domanda di lavoro dipende dall’evoluzione delle tecnologie e da altre variabili per la gran parte esterne alle decisioni pubbliche, quali la concorrenza inter e intra settoriale (e anche spaziale, tra città), il ciclo economico nazionale ed internazionale, la fiscalità generale e locale, ecc. Questa domanda determina il tipo di lavoratori che saranno richiesti, e i loro redditi, e le tipologie insediative necessarie alle imprese (es. dell’industria, del terziario ecc.).
A loro volta, questi lavoratori e queste imprese insediandosi creeranno la domanda di servizi specifici, e infine la domanda di abitazioni e di spazi insediativi per le attività produttive. Ed anche gli addetti nel settore pubblico in buona misura dipenderanno dalla domanda complessiva di servizi (si pensi a sanità, amministrazione, trasporti e educazione). Cioè il “mercato primario”, la domanda di lavoro, genera a cascata gli effetti sugli altri mercati.
Allo storico prevalere delle attività terziarie come produttrici di reddito, si genera la già citata “città di Alonso”, di tipo statunitense, con edifici alti e appartamenti piccoli in centro, e via via densità più basse, fino allo “sprawl” urbano. Nelle città europee solo la tutela dei centri storici impedisce molti aspetti di questo tipo di sviluppo, e anche i fenomeni di “sprawl”, che sono certo presenti, non sono estremi come quelli statunitensi. Ma comunque le reti viarie e di trasporti collettivi in sede propria, e gli spazi collettivi, devono essere decisi da soggetti pubblici, per l’impossibilità tecnica di soluzioni di mercato (per gli economisti, è il problema noto come “costi di transazione di Coase”). Tuttavia, imporre vincoli edificatori non necessari, al di là di standard di distanza tra gli edifici, per esempio alle densità, alle tipologie e alle attività insediabili, riduce il benessere collettivo, per le regioni viste sopra, soprattutto in relazione al variare nel tempo dei mercati rilevanti.
Ci sono tuttavia altri costi sociali cui abbiamo accennato, e sono le esternalità, di cui il mercato non può tener conto: i principali sono la congestione del traffico e i costi ambientali. Questi devono essere gestiti per quanto possibile con tariffe che li “internalizzino”, cioè li facciano pagare a chi li genera alla collettività (è il principio ambientale noto come “polluters pay”, che risponde sia all’efficienza economica che all’equità). Queste tariffe sono essenzialmente le tasse sui carburanti per i veicoli stradali, e le tariffe di congestione, come a Londra, a Milano, e in molte altre realtà urbane nel mondo. Ovviamente le politiche per la gestione delle esternalità possono essere più articolate, ma qui ci si è limitati ad accennare a quelle con un contenuto economico più diretto. Il volume in esame tratta diffusamente anche il tema della mobilità urbana.
Qualche provvisoria conclusione
A questo punto l’autore porta una massa di dati internazionali che dimostrano come “coeteris paribus”, vincoli non necessari aumentino linearmente i prezzi delle abitazioni, ed in generale di tutti gli immobili urbani, danneggiando così anche le imprese. E questo sia in aree dense che in quelle più esterne. Si generano così perdite di benessere complessivo, che inoltre colpiscono maggiormente i ceti a più basso reddito, mentre aumentano solo le rendite urbane. E questi dati hanno trovato importanti conferme anche di altra origine, quali in particolare le pluriennali analisi internazionali dei mercati urbani di Wendell Cox, e più recentemente altri studi, quali quelli del Financial Times e del U.S. Census Bureau.
L’indicatore di base non è certo il prezzo assoluto delle abitazioni, ma il rapporto tra questi prezzi e i redditi medi annui dei residenti, noto come Median Multiple. Anche alcuni istituti di ricerca italiani hanno iniziato ad usarlo. Per dare un’idea quantitativa, in Europa questo indice supera spesso il valore 10, mentre in città poco vincolate e prive di limiti spaziali è anche inferiore a 3 (un esempio molto citato è la città di Kansas City). Un bene più scarso (o gestito da oligopolisti collusi e alleati alle amministrazioni) ha prezzi più alti. La teoria economica elementare sembra statisticamente confermata dai fatti.
L’autore poi si dilunga ad offrire esempi di specifiche “strategie di controllo”, sia per evitare gli eccessi di “sprawl” che per tutelare città storiche, ma l’essenziale del dialogo interdisciplinare che raccomanda nella necessità di conoscere i mercati urbani significativi che abbiamo qui tentato di riassumere. Forse si può non essere d’accordo su molti aspetti di questa analisi. Ma una cosa sembra davvero accettabile: la conoscenza analitica e quantitativa dei mercati del lavoro e dei prezzi dell’edificato, anche a fini previsionali. Dunque “conoscere per deliberare”, che è un celebre motto di Luigi Einaudi, il padre del liberalismo italiano, può essere un primo passo condiviso di un dialogo che in Italia sembra avere ancora molta strada da compiere.
Marco Ponti
N.d.C. Marco Ponti (1941), già professore ordinario di Economia al Politecnico di Milano, ha lavorato nel settore dei trasporti per tredici anni in diciassette paesi. È stato consulente della Banca Mondiale, della Commissione Europea, dell’OCSE e, in Italia, di sei ministri dei trasporti, dell’Autorità per la Regolazione dei Trasporti, di FSI e di Confindustria. Ha insegnato alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione ed è responsabile di BRT, trust non-profit che si occupa di ricerca economica nei trasporti.
Tra i suoi libri: con D. Calabi (a cura di), I trasporti. Raccolta di documenti politici (Iuav, 1972); con P. Fano, Il traffico urbano in Italia (F. Angeli, 1972); Il caso di Ottana (Esi, 1975); (a cura di), I trasporti e l'industria (Il Mulino, 1992); con P. Beria, Introduzione ai sistemi di trasporto (Pitagora, 2007); con P. Beria e S. Erba, Una politica per i trasporti italiani (Laterza, 2007); con S. Moroni e F. Ramella, L'arbitrio del Principe. Sperpero e abusi nel settore dei trasporti: che fare? (IBL Libri, 2015); (a cura di) Per una politica dei trasporti. Idee per una governance (Gangemi, 2023).
Per Città Bene Comune ha scritto: Il paradiso è davvero senza automobili? (16 aprile 2016); Brebemi: soldi pubblici (forse) non dovuti (22 febbraio 2017); Non marxista su un dialogo tra marxisti (22 settembre 2017).
Sui libri di Marco Ponti, v. in questa rubrica: Antonio Calafati, Neo-liberali tra società e comunità (30 settembre 2017); Roberto Cuda, Le magnifiche sorti del trasporto su gomma (13 aprile 2018); Marcello Balbo, Trasporti: più informazione, più democrazia (6 novembre 2020); Renzo Riboldazzi, Per un’economia (e un’urbanistica) civile (17 maggio 2024);
NB. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 29 NOVEMBRE 2024 |
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