Donatella Calabi  
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PROIETTARE IL PASSATO NEL FUTURO


Commento al libro curato da Guido Zucconi



Donatella Calabi


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Recentemente lo storico Nicola Di Cosmo, professore all’Institute for Advanced Studies di Princeton, ha parlato a Venezia di “nuove frontiere della ricerca storica” alludendo non soltanto all’opportunità di pratiche interdisciplinari nel ‘fare storia’, ma ad una ‘attualità necessaria’ di interferenze tra passato, presente e futuro (1). Lo studioso faceva riferimento alle popolazioni nomadi della preistoria: dunque a una storia molto lontana, nel tempo e nello spazio, dalle vicende narrate nel libro qui recensito. Eppure le sue idee mi hanno fatto pensare che forse anche in un caso così drammaticamente ancora sentito nella carne viva di un’intera comunità, quella di Longarone, questo intreccio fra il prima e il dopo una fase particolare (in questo caso il decennio 1963-1972) sia tanto inevitabile per una ricerca scientifica quanto la scelta di studiare insieme le riflessioni di ‘esperti’ in ambiti disciplinari differenti. Da un lato, infatti, nell’ultimo libro curato da Guido Zucconi - Ricostruire Longarone. I piani e le architetture 1963-1972 (IUAV, Silvana editoriale 2023) - si sentono chiamati in causa alcuni architetti, i quali interpretano le operazioni compiute sessant’anni prima da loro colleghi (si tratta della quasi totalità dei contributi presenti nel volume); dall’altro un paio di storici dell’architettura (tra i quali, in particolare il curatore del libro) guardano alla vicenda narrata introducendo i principali attori della ricostruzione, che ovviamente non sono solo gli architetti-urbanisti, ma anche i superstiti, i politici, gli amministratori locali e dello stato. Così, le voci dei quattordici autori dei saggi raccolti non possono non riandare continuamente agli antefatti e non essere consapevoli dell’attualità di un tema postoci oggi dalla “consuetudine quotidiana con devastazioni di varia natura, a seguito di guerre, dissesti idrogeologici e calamità ambientali” (2).

In definitiva, a sessant’anni dalla catastrofe provocata dallo scivolamento di un fianco del Monte Toc nel nuovo bacino idrico ottenuto grazie alla realizzazione nel 1959 di una colossale diga in calcestruzzo armato, progettata dall’ingegner Carlo Semenza per conto della SADE (Società Adriatica di Elettricità), alcuni docenti dello IUAV accanto a un paio di studiosi a loro vicini, riprendono in considerazione i progetti di architettura e urbanistica redatti dopo il disastro, ma anche il ruolo di protagonista coperto dalla stessa università. Ci propongono una quantità di materiale di documentazione in gran parte inedito, comunque mai pubblicato tutto insieme, ora depositato quasi per intero presso l’Archivio Progetti dell’ateneo (e da esso sottoposto alla conservazione), il quale permette ad un gruppo di lavoro costituitosi con questo obiettivo di ripensare al peso giocato dagli architetti nella ricostruzione di un territorio distrutto da un terribile evento traumatico.

Il volume che qui presentiamo è molto curato sia dal punto di vista dei contenuti che da quello delle illustrazioni: vi sono riprodotti molti bei disegni, alcuni dei quali a colori, un buon numero di fotografie degli edifici appena terminati, o ancora in costruzione con lo sfondo della montagna, o ancora alcuni scatti dei modellini collocati nel contesto per il quale erano stati pensati. Le note che accompagnano ciascuno dei saggi, una bibliografia generale e una specifica per autori e singole opere completano lo studio.

Dopo poche parole di carattere istituzionale da parte del Rettore dello IUAV, Serena Maffioletti interviene come primo autore, in quanto responsabile dell’Archivio citato, che conserva la maggior parte dei progetti redatti per il vasto territorio sito nei pressi della diga del Vajont. Essa esamina quelli prodotti dai principali protagonisti dell’insegnamento di progettazione architettonica e urbanistica di quel periodo all’interno dell’università veneziana: Giuseppe Samonà, Costantino Dardi, Gianugo Polesello Valeriano Pastor. Poi, per «rimarginare le ferite» causate dalla tragedia a partire dal 1963, l’autrice prende in considerazione anche gli interventi di Giovanni Michelucci, Bruno Morassutti, Gianni Avon, Francesco Tentori, Marco Zanuso ed Edoardo Gellner che a quell’epoca, e in molti casi anche successivamente, non fecero parte della categoria dei professori dello IUAV, ma che pure vedono depositata nello stesso luogo e lì inventariata e catalogata la loro produzione (3). Contemporaneamente, lo sforzo condotto è quello di mettere in relazione l’attività di questi architetti con la cultura e il dibattito disciplinare nazionale. Le realizzazioni, quindi, ma anche il dialogo e i conflitti tra cittadini, politici, amministratori e architetti (che appaiono come i protagonisti dell’analisi): Maffioletti ricorda come queste vicende facciano parte non solo della storia e, in modo drammatico, della memoria del disastro e del radicamento identitario della comunità che abitava i paesi distrutti dall’esondazione, ma anche della memoria dell’Ateneo.

Capace di trattare di progetti e realizzazioni (ai quali il libro è dedicato) da una prospettiva più generale e a partire dai tre anni che precedono il disastro (1963-1966), Guido Zucconi inserisce l’episodio della ricostruzione di Longarone nel quadro delle decisioni nazionali (il centro-sinistra), delle scelte economiche (la necessità della programmazione), delle non piccole trasformazioni in corso nel paese (il rilancio delle aree montane) , degli orientamenti urbanistici (la pianificazione territoriale e la partecipazione popolare) e, ovviamente anche, del dibattito in seno all’architettura ad opera di alcuni dei protagonisti di quegli anni (da Le Corbusier a Giuseppe Samonà) (4). Così facendo, lo storico prende una certa distanza dal soggetto primo del suo racconto e deduce che quelle narrate costituiscono le premesse di un modello mancato, il quale “invece di interessare le riviste di architettura internazionali” sfocia in un piano concordato tra il sindaco Protti, l’architetto romano Antonio Di Carlo, un agguerrito Comitato cittadino, il ‘coordinatore’ finale di molte operazioni Edoardo Gellner. Così facendo, Zucconi ha sicuramente il merito di sottolineare un impegno del tutto singolare da parte dello IUAV, che “trova pochi paragoni nel panorama delle scuole di architettura italiane del secondo dopoguerra”, ma anche di circoscriverne i limiti. Una vicenda molto complicata, dunque, nella storiografia della quale hanno pesato equivoci, incomprensioni, luoghi comuni e, spesso, anche scarse conoscenze tecniche da parte di chi ha finora cercato di ricomporla e di narrarla.

Riflettendo sul ruolo non certo marginale nella vicenda complessiva di Giuseppe Samonà che per “passi successivi” fu incaricato del Piano Regolatore Generale di Longarone (1963), della Definizione dei comprensori di Belluno e Udine (1964), dei Piani comprensoriali delle due provincie (1964), del Piano Particolareggiato di Longarone e Castellavazzo (1965), Giovanni Marras mette in luce come la progettazione dello stesso Direttore dello Iuav abbia avuto in definitiva un’eco assai limitata nella pubblicistica di settore e ben scarsa fortuna perfino nelle monografie sulla sua opera (5). L’autore del saggio si domanda allora, e non può che rispondere positivamente, se l’esperienza del Vaiont non abbia rappresentato una pagina tutt’altro che felice dell’attività di Samonà, contribuendo forse a rendere problematiche quelle relazioni tra architettura e urbanistica a favore delle quali il protagonista del suo racconto aveva dedicato tanto tempo e tante energie. D’altra parte, se il 18 ottobre a pochi giorni dal disastro si ribadisce che “ricostruire Longarone come la vogliono i Longaronesi” è un passaggio inevitabile, è anche abbastanza comprensibile che il 20 maggio successivo -sette mesi dopo il disastro- un ‘teorico’ come Samonà richiami l’attenzione dei partecipanti al primo convegno sull’Urbanistica Veneta (tenutosi al Centro Internazionale di studi Andrea Palladio), su un “certo sfasamento tra le prime posizioni razionali di un piano e il loro concreto assestamento sulla valutazione dei fatti” (6). Il capogruppo incaricato e la sua équipe traducono le prime scelte in disegni architettonici ‘rivoluzionari’, che non prendono nemmeno in considerazione la possibilità di recuperare il sedime dell’insediamento preesistente. Guardando oggi quei progetti, magari vedendoli nelle planimetrie, o nelle viste a volo d’uccello, o nelle foto dei modellini dei diversi insediamenti inseriti nel territorio digradante verso le rive del Piave, sembra che i giovani collaboratori dei quali Samonà si era circondato si siano ‘divertiti’ a giocare con tutti i possibili riferimenti alla cultura architettonica del periodo (case a uno o due piani disposte a gradoni, giardini pensili, edifici commerciali e direzionali in linea, mole turrita del nuovo luogo di culto, composizione a piastre sospese), come se i tipi edilizi innovativi da loro proposti avessero potuto attenuare il dolore della popolazione.

Poi, via via, nel libro compaiono i ‘comprimari’, spesso molto diversi tra loro, ma riconosciuti come membri di un’équipe di progettazione apparentemente coesa (o come tale considerata all’esterno). Certo essi discutevano e lavoravano a partire dal tentativo di tenere insieme la grande dimensione con la scala dell’edificio. Tra questi, Nino Dardi che accettando la scelta del “dov’era” come presupposto di partenza, mette poi in discussione il “com’era” in merito alla tipologia e al linguaggio da adottare in un borgo ridotto alla tabula rasa (7), con l’ambizione di riuscire a stabilire dei nessi di continuità agli occhi di una popolazione sopravvissuta e carica di aspettative. Al di là delle parole, contenute nelle relazioni, il percorso di ricerca si basa però sulla scelta di evitare la lingua vernacolare e tradizionale della residenza montana, contrapponendole la reiterazione di grandi segni sul territorio, ed è inevitabilmente percepito come una proposta di rottura. La presenza di spazi di relazione alle diverse scale, suggerita come dispositivo in grado di articolare spazi e percorsi secondo un’idea di insediamento urbano, non è poi sentita dai destinatari della scuola elementare, tutta in calcestruzzo armato, come luogo ‘amichevole’ in cui accogliere i bambini; rimasta incompiuta è stata anzi oggetto di critiche e di ipotesi di demolizione.

Gianni Avon e Francesco Tentori, cognati e collaboratori soprattutto tra il 1956 e il 1964, con alle spalle un’esperienza professionale già importante e articolata, assumono un compito prevalentemente ‘urbanistico’: la redazione di un piano volumetrico particolareggiato dell’edilizia residenziale, al quale premettono una schedatura condotta attraverso interviste, destinate a rilevare i desiderata e i gusti dei sopravvissuti e, in qualche modo, a mediare fra questi e la visione ‘radicale’ dei giovani architetti dello IUAV (8). In modo analogo l’asilo, la scuola media e il cimitero da loro progettati propongono un’impostazione non troppo intransigente rispetto agli stilemi del momento, come emerge dai frammenti di conversazioni tra Samonà e Avon o tra Trincanato e Tentori ricordati dall’autore del saggio.

Nel campionario dei tipi edilizi a diversa destinazione d’uso, non poteva mancare un edificio industriale come quello progettato da Bruno Morassutti, che in quegli anni aveva oramai una solida esperienza in questo settore. Sono qui menzionate alcune tappe fondamentali del suo lavoro, dopo il periodo post-laurea trascorso a Taliesin con Frank Lloyd Wright fra il 1949 e il 1950 (9). Marandola a giusto titolo evoca anche i nomi di Richard Neutra, Marcel Breuer, Gerrit Rietveld, Le Corbusier, Alvar Aalto per dar conto del clima di grande vivacità che ruotava allora intorno allo IUAV. La formazione e la cultura di Morassutti, oramai occupato come progettista a Milano e in provincia, oltre che nei pressi di Napoli, ne era rimasta fortemente impregnata. L’edificio per la produzione di condensatori elettrolitici, con la direzione e gli uffici amministrativi, elegante e austero, dotato di una volumetria nitida era stato avviato dall’architetto nel 1962, cioè prima della tragedia. Sarà tuttavia costruito con materiali compatibili con le caratteristiche di un terreno fortemente compromesso da quanto poi avvenne e tenendo conto delle necessità di un oculato risparmio delle risorse; eretto intorno a un pilastro cruciforme, perno iconico della fabbrica. La presenza dell’architetto a Longarone, testimoniata da un gran numero di accuratissimi disegni per ciascuno degli elementi costruttivi, resta però solo come una ‘disperata’ traccia della memoria. Da un lato, il complesso industriale è stato demolito e sostituito da un anonimo capannone, dall’altro un’analoga partitura modulare adottata dallo stesso progettista anche nell’edificio residenziale con botteghe non sarà mai realizzata.

In un quadro contradditorio e convulso di interlocutori che difficilmente riuscivano a condividere le prospettive della ricostruzione, Edoardo Gellner viene chiamato a Longarone «come figura di raccordo tra gli orientamenti espressi dai superstiti e la cultura tecnico-accademica, rappresentata da Giuseppe Samonà», ci dice Luca Velo (10). L’architetto ampezzano è in quegli anni impegnato sul fronte territoriale e infrastrutturale, con implicazioni ambientali e di controllo del paesaggio alle diverse scale. Il caso specifico del quale si tratta in questo libro costituisce probabilmente per lui un’occasione di verifica delle idee, alla luce di importanti precisazioni normative (la Legge Speciale per le aree colpite dal disastro, i rapporti tra governo centrale e amministrazioni locali, la normativa per gli spazi aperti e per le aree di interesse paesaggistico). I disegni delle varianti dei nodi stradali, dei piazzali di sosta e dei parcheggi, o della rete pedonale in connessione con i sistemi idrografici e/o con la ferrovia, proponendo anche attrezzature di svago e impianti sportivi, spostano lo sguardo a considerazioni dell’insieme di un territorio molto ampio, senza tuttavia dimenticare le sequenze degli edifici pubblici, degli alberi, delle case d’abitazione. Forme di continuità solo parziali con i presupposti di Samonà comportano un atteggiamento aperto alla necessità di procedimenti accelerati, alla complessità degli elementi in gioco, alle innovazioni.

Lo straordinario archivio fotografico di Edoardo Gellner, dove le immagini meticolosamente numerate consentono di ricostruire viaggi, esperienze e interessi dell’architetto non registrano l’ondata distruttiva dell’esondazione, se non a partire dal 1966. Da quella data in poi tuttavia la presenza del progettista a Longarone diventa particolarmente significativa, legata a una serie non piccola di incarichi professionali, urbanistici e architettonici, per i quali le sapienti riprese fotografiche della sua Hasselblad e gli aspetti ‘percettivi’ sono integrati tra loro e offrono punti di vista singolari sulla tutela conservativa del paesaggio e sull’inserimento del ‘nuovo’ nei contesti di montagna: una visione parzialmente diversa da quella che lo aveva guidato nei progetti per la ricostruzione del centro urbano (11).

Disegnare un luogo sicuro, pensare ad abitanti qualunque (visto che gli eredi pensavano ai loro diritti e stavano ormai altrove), ma ricordare il dolore dell’evento: sono questi i presupposti e i vincoli che Valeriano Pastor stabilisce per il suo progetto di ventitré abitazioni a schiera, in buona parte realizzate dall’Istituto Autonomo Case Popolari, che si conclude con un edificio a torre (12). La scelta del tipo edilizio consente all’architetto di adattarsi all’orografia del sito, ma anche di richiamare le rughe di case di Erto e Casso. Aggetti, rientranze, interruzioni e uso del calcestruzzo con superfici scabre di colore grigio introiettano l’esperienza tragica e la rielaborano: il grande sforzo compiuto da Pastor per trovare una terza via tra due estremi -l’ottimismo (che sembra rimuovere la memoria della tragedia) e la rassegnazione- è coerente con il carattere sempre meditato e ‘sofferto’ del progettista, quando sembra voler dire che è possibile, e quindi si deve, proiettare il passato nel futuro. L’autrice del saggio ricorda come suo padre abbia evocato il rifiuto dell’aspetto ‘duro’ e drammatico di questa forma edilizia da parte dei comitati cittadini, anche quando questo per la verità non era venuto a sostituire delle tradizionali case di montagna in legno con i fiori alle finestre, che lì non c’erano mai state; e come quelle case salubri e sicure siano state accettate solo più tardi da immigrati liberi da pregiudizi, sia pure amanti dei fiori alle finestre.

Analogamente ‘speciale’ come gesto tracciato sul territorio, anche se radicalmente diverso nella sua poetica è l’impianto circolare della chiesa di Michelucci, il cui disegno è più o meno contemporaneo alla realizzazione della sua celebre chiesa dell’Autostrada del Sole. Studiato con accanimento, accettato dalle gerarchie ecclesiastiche, ma contrastato da chi lo ha visto come espressione della volontà di imporsi da parte di un architetto ‘straniero’, sia pure famoso, il progetto è alla base di una grande quantità di disegni d’insieme e di dettaglio, del protrarsi molto a lungo delle decisioni e dello stesso processo di costruzione, con i necessari adattamenti in cantiere rispetto al modo inizialmente pensato su carta (13).

Gli ultimi tre saggi, rispettivamente di Gundula Rakowitz, di Sara Di Resta e Giorgio Danesi e di Maria Margaita Sagarra Lagunes si propongono di porre al lettore questioni ‘teoriche’ o forse più astratte di carattere metodologico che, partendo dagli scritti di Gianugo Polesello arrivano al tema generale della conservazione dell’architettura contemporanea (14).

Donatella Calabi

 

 

Note
1. Lectio Magistralis in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Ca’ Foscari, Venezia, Teatro Goldoni, 16 febbraio 2024.
2. Giovammi Marras, Giuseppe Samonà: la regia del piano-programma, in questo volume, p. 25.
3. Serena Maffioletti, Longarone: ricostruire e costrire, pp. 9-12.
4. Guido Zucconi, 1963-1966: le premesse di un modello mancato, pp. 13-24.
5. Giovanni Marras, cit., pp. 25-38.
6. Giuseppe Samonà, Estratto dl primo Convegno…cit. in: Giovanni Marras, cit., p. 37.
7. Roberta Albiero, Costantino Dardi: il piano costruito per opere, pp. 39-51.
8. Giulio Avon, Gianni Avon e Francesco Tentori: un contributo alla ricostruzione, pp.53-71.
9. Marzia Marandola, Bruno Morassutti: un edificio industriale e un progetto per residenze, pp. 73-83.
10. Luca Velo, Edoardo Gellner urbanista: tra applicazioni e sperimentazioni, pp. 85-97.
11. Claudia Cavallo, Edoardo Gellner: l’approccio percettivo al paesaggio, pp. 99-115.
12. Barbara Pastor, Valeriano Pastor: progettare e costruire dopo la catastrofe, pp. 117-131.
13. Marzia Marandola, Giovanni Michelucci: il progetto per la chiesa dell’Immacolata, con Enzo Vannucci e Giancarlo Turrini, pp.133-147.
14. Gundula Rakowitz, Erto e Casso. ‘Pars destruens’ e ‘pars contsruens’, pp. 149.178; Sara Di Resta e Giogio Danesi, Eredità della ricostruzione, tra materia e memoria, pp. 163-178; Maria Margarita Sagarra Lagunes, La conservazione del contemporaneo, pp. 179-181.

 

 

N.d.C. - Già professore ordinario di Storia della città presso il Dipartimento di Storia dell'architettura dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Donatella Calabi è stata Prorettore vicario presso lo stesso ateneo, directeur d'études invitée all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, honorary fellow dell'University of Leicester e visiting professor della British Academy di Londra. Ha insegnato, come visiting professor, all'Université de Paris VIII, all'Ecole de Architecture de Paris-la Villette, alla Universidad de Sao Paulo, alla Universidad de San Carlos do Brasil, all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Culturelles di Tokyo e alla Escuela Tecnica Superior de Arquitectura di Madrid. Ha inoltre fatto parte dell’editorial board delle riviste inglesi "Planning Perspectives" e "Construction History" e del Consiglio di amministrazione della Fondazione Scuola San Giorgio presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia.

Tra i suoi libri: Con Marino Folin, a cura di, Eugène Hénard, Alle origini dell'urbanistica. La costruzione della metropoli (Marsilio, 1972; 1976, 1982); Il male città: diagnosi e terapia. Didattica e istituzioni nell'urbanistica inglese del primo '900 (Officina, 1979); The genesis and special characteristics of town-planning instruments in Italy, 1880-1914 (Mansell, 1980); a cura di, Architettura domestica in Gran Bretagna, 1890-1939 (Electa, 1982); Oltre lo sguardo (Electa, 1984); con Paolo Morachiello, Rialto. Le fabbriche e il ponte, 1514-1591 (Einaudi, 1987; ed. fr Librairie Armand Colin, 1988); a cura di, Le città venete di terraferma nelle vedute del Settecento (Il Polifilo, 1990); con Ennio Concina e Ugo Camerino, La città degli ebrei: il ghetto di Venezia. Architettura e urbanistica (Albrizzi, 1991; 1996); Il mercato e la città. Piazze, strade, architetture d'Europa in età moderna (Marsilio, 1993); Gli ebrei e la città (Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997); a cura di, Fabbriche, piazze, mercati. La città italiana nel Rinascimento (Officina, 1997); Parigi anni venti. Marcel Poëte e le origini della storia urbana (Marsilio, 1997); con Paola Lanaro, La città italiana e i luoghi degli stranieri. XIV-XVIII secolo (Laterza, 1998); con Jacques Bottin, Les etrangers dans la ville. Minorites et espace urbain du bas Moyen Age a l'epoque moderne (Editions de la maison des sciences de l'homme, 1999); Storia dell'urbanistica europea (Paravia scriptorium, 2000); La città del primo Rinascimento (Laterza, 2001; 2005; 2006; 2008; 2011); a cura di, Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell'Ottocento veneto (Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 2001); Storia della città. L'età moderna (Marsilio, 2001; 2009); con Claudia Conforti, a cura di, I ponti delle capitali d'Europa. Dal Corno d'Oro alla Senna (Electa, 2002); The market and the city. Square, street and architecture in early modern Europe (Ashgate, 2004); Storia dell'urbanistica europea. Questioni, strumenti, casi esemplari (B. Mondadori, 2004; 2008); Storia della città. L'età contemporanea (Marsilio, 2005); a cura di, Venezia in fumo. I grandi incendi della città-fenice (Leading, 2006); con Stephen Turk Christensen, a cura di, Cities and cultural exchanges (Cambridge University Press 2007); A cura di, Il mercante patrizio. Palazzi e botteghe nell'Europa del Rinascimento (B. Mondadori, 2008); con Elena Svalduz, Il borgo delle Muneghe a Mestre. Storia di un sito per la città (Marsilio, 2010); con Paolo Morachiello, La piazza di Rialto. Di tutto il mondo la più ricchissima parte (Corte del Fontego, 2011); con Paolo Morachiello, Il fontego dei Tedeschi. Una piccola città in mezzo alla nostra (Corte del Fontego, 2012); con Paolo Morachiello, Rialto, il ponte delle dispute (Corte del Fontego, 2012); a cura di, Built city, designed city virtual city. The museum of the city (Croma-Università degli studi Roma Tre, 2013); con Ludovica Galeazzo, a cura di, Acqua e cibo a Venezia. Storie della laguna e della città (Marsilio, 2015); Venezia e il ghetto. Cinquecento anni del recinto degli Ebrei (Bollati Boringhieri, 2016); con Martina Massaro, a cura di, Gli ebrei, Venezia e l'Europa tra Otto e Novecento (Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 2018); Rialto, l'isola del mercato a Venezia. Una passeggiata tra arte e storia (Cierre edizioni, 2020); con Martina Massaro, a cura di, Marghera. Città giardino (Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 2021; ed. ing. 2022); The Rialto, Venice's island market. A walk through art and history (trad. Penelope Dening, Cierre, 2022); Ghetto de Venise. 500 ans et des poussières (Liana Levi 2023, ora in pubblicazione in italiano c/o Torino, Bollati-Boringhieri 2024 e in inglese c/o Milano, Officina Libraria, 2024).

Per Città Bene Comune ha scritto: La “costituzione” degli ebrei di Roma, 5 aprile 2022.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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13 GIUGNO 2024

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