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L’ultimo di Filippo Barbera - Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica (Laterza, 2023) - è un libro con il quale vale la pena fare i conti. Prima di tutto perché è importante la questione che affronta, ovvero quali dinamiche di riattivazione della politica si esprimono oggi, a valle dei processi di depoliticizzazione che hanno investito la vita democratica del nostro Paese, “svuotando” di valenza pubblica le piazze. Lo spazio, infatti, è adottato come chiave di lettura delle vicissitudini della politica, e anche questa è una prospettiva interessante e potenzialmente feconda perché fa entrare in gioco la dimensione simbolica. Seguendo il legame tra configurazione dello spazio pubblico e vita politica, Barbera mette a fuoco come il “fare insieme” trasformi gli spazi in luoghi densi di significati condivisi nei quali le istanze di giustizia sociale, le voci silenziate e ai margini della scena pubblica, trovano la possibilità di esprimersi e di farsi sentire. La messa in valore di queste dinamiche di politicizzazione, molto opportuna, tanto più ne illumina per contrasto il vuoto, la distanza dal livello del governo e della decisione politica, le difficolta che quelle istanze e quelle voci incontrano a risalire in generalità. Anche su questo il libro ha qualcosa da dire.
Mi piacerebbe poter chiudere qui questa premessa ed entrare nel merito, ma purtroppo devo segnalare subito anche l’altro - opposto - motivo che mi sollecita a scriverne: nel libro c’è anche qualcosa che non va, qualcosa di cui oggi bisogna proprio liberarsi se si vogliono studiare processi emergenti, come in questo caso. Il problema, in grande sintesi, consiste nell’ingombrante presenza, nel ragionamento, della griglia interpretativa derivata dalla teoria economica neoclassica, la cui egemonia nelle scienze sociali si è fatta specialmente sentire - in Italia ma non solo - sulla sociologia economica, disciplina di cui Filippo Barbera è professore ordinario all’università di Torino. Questa presenza pesa soltanto a momenti, su alcuni punti e per frammenti, ma pesa: a monte, nell’introduzione di un presupposto naturalizzante - che resta tale anche se ora la natura umana è “altruista” e non più “egoista” - e altrettanto a valle, nell’adozione del vocabolario del mercato per parlare di futuro e di capacità di aspirare. Ho provato a considerarla ridondante, ma in realtà finisce per soffocare lo slancio euristico della prospettiva simbolica, qui così importante. E non è l’unico prezzo che il ragionamento paga.
Il fuoco dell’attenzione è sullo spazio pubblico per riconoscervi i processi di de-politicizzazione: la sua sostituzione con una pletora di spazi virtuali digitalizzati, la sua conversione ad usi privatistici come tipicamente il consumo, e viceversa la perdita della sua densità simbolica come luogo in comune nel quale si producono incontri, si levano voci, si discute, si costruiscono “intenzionalità condivise”, si esprime la domanda di futuro. Lo spazio generativo di politica. Barbera ha in questo perfettamente ragione. Ma l’elemento davvero qualificante, e che dà l’impronta all’intero ragionamento, sta nel dialogo che Barbera instaura tra questa prospettiva sullo spazio della politica e la vocazione emancipativa di quest’ultima, perché è in questa configurazione dello spazio che diventano cittadine persone senza potere, marginali, senza voce. È nei luoghi della vita pubblica quotidiana che si pratica, e perciò si alimenta, la democrazia. Ecco, qui sono a mio agio perché in questo legame tra spazio fisico e potere politico ritrovo uno snodo importante, dal quale io avevo imboccato la mia ricerca sui processi di spazializzazione della diseguaglianza guidati dalla logica della separazione (da ultimo in De Leonardis, 2022). Certo, questa è una direzione di ricerca diversa da quella imboccata da Barbera, il quale piuttosto fa di questo snodo la chiave per focalizzarsi sulla metamorfosi della politica. È per l’appunto osservando la dimensione spaziale che Barbera fa venire alla luce il degradarsi dei luoghi della vita pubblica, e quel che vi si perde. Il ragionamento è ricco e denso, non lo riassumo ma ne sottolineo l’approdo, in due passaggi. Anzitutto a perdersi, anzi a disperdersi nell’evanescenza dello spazio pubblico, è quell’energia politica che si sprigiona nella rappresentazione - e perciò nella costruzione - di un “noi collettivo”. E in secondo luogo e soprattutto, in questo modo si crea un vuoto nel quale “la domanda di futuro” sprofonda senza arrivare ad articolarsi. La classe dirigente (politica) à altrimenti intenta, quando non cavalca una “ripoliticizzazione sbagliata” a fini elettorali. In definitiva, stiamo parlando di quello scollamento altrimenti noto come crisi della rappresentanza politica.
Comunque, è chiaro dall’inizio che l’obiettivo di Barbera nell’esaminare questi processi è propositivo: cerca di capire come sia possibile rivitalizzare la politica così intesa, ovvero quella politica che vive nella quotidianità dei luoghi e dei momenti pubblici facendo crescere la “capacità di aspirare” - che Barbera opportunamente richiama - perché risalga in generalità, perché le idee e le pratiche che essa esprime si traducano in scelte di governo e in politiche. La risposta sta ancora nella dimensione spaziale, e in definitiva già la conosciamo: va cercata là dove uno spazio collettivo si trasforma nel luogo di un collettivo. Ma viene anche in luce la distanza, lo scollamento già segnalato, da parte della politica come responsabilità di governo, che guarda altrove. La diversità delle situazioni, degli attori e dei processi politici che si innescano in questo modo, così come le difficoltà della risalita in generalità, è restituita dalla varietà degli esempi che punteggiano il ragionamento - per lo più già noti, e già segnalati altrove dallo stesso Barbera. Tra cui i “patti educativi” promossi dal Forum DD, il collettivo dell’Economia fondamentale, il “collettivo di fabbrica” GKN, l’”Alleanza” per il reddito di cittadinanza, e naturalmente quel che si muove nelle “aree interne” in fatto di “abitabilità” e che, sfuggendo alla estetizzazione dei “borghi”, attiva invece una prospettiva policentrica. E questa prospettiva va ancorata non al “locale” bensì al “terrestre”, che come tale include “la natura”. È sul terrestre che deve “atterrare il futuro”.
Ma qui, la mia esposizione del tema del libro si arresta perché sono (di nuovo) inciampata in Bruno Latour. Non per colpa di quest’ultimo e del suo “Où atterrir?”, bensì perché la sua evocazione stona, entrando in risonanza con altre stonature che ho registrato nel corso della lettura. Insomma, è il momento di passare all’altro argomento annunciato all’inizio, i motivi di perplessità, finora tenuti da parte. Il problema da cui prendo avvio riguarda la spiegazione su cui il libro fonda il “fare insieme” che innesca la costruzione di un “noi collettivo” e il relativo processo di (ri)politicizzazione. Nella spiegazione entra in gioco per l’appunto “la natura”, ma in un modo del tutto diverso - se non opposto - rispetto alla nozione di “terrestre” e alla prospettiva by and large ecologista da cui proviene.
Ma andiamo con ordine. Siamo nella prima parte del libro, ”Gli spazi quotidiani”, e Barbera sta ragionando sulle condizioni perché si formino le già richiamate “intenzionalità condivise”. E qui ripropone il ben noto problema del passaggio dall’ individuale al collettivo. Certo, la costruzione di collettivi è specialmente difficile in tempi di anarco-capitalismo, individualismo esasperato, frammentazione, serializzazione, e sindrome del si-salvi-chi-può. Ma conosciamo già da tempo le aporie a cui si va incontro se questa questione la sia inquadra ancora nella cornice di questo passaggio, subalterna alla teoria economica utilitarista - quella della “aggregazione delle preferenze” - e vincolata al dogma dell’“individualismo metodologico” (peraltro, una discutibile banalizzazione di Weber e della sua passione per la soggettività: vedasi il recente Emmenegger, 2023).
Pensavo che Barbera fosse andato senz’altro oltre questo impianto, e lo confermerebbero anche in questo libro sia la presa in conto della dimensione simbolica dello spazio sia i richiami a una prospettiva “relazionale”. Ma, stranamente, in queste pagine sembra essere tornato in quella cornice per misurarsi con il problema della costruzione di collettivi. Tant’è che puntualmente imbocca la solita vecchia scorciatoia della “natura umana” come fondamento di ogni spiegazione, che grandi servizi ha assolto per quell’impianto (a cominciare da Robinson Crusoe nella sua isola). Naturalmente, dato l’intento, ora la natura umana in questione è diventata socievole, ma questa capriola non cambia quella logica, l’assunzione di un presupposto e le sue implicazioni, riproponendo il vecchio confronto tra uomini e animali, ma rovesciato:: “Per ribadire un concetto già espresso: un leone, un cavallo o uno scimpanzé non si chiedono come costruire un futuro più giusto con e per i propri simili… Anche le loro azioni coordinate e a prima vista ‘collettive’ (per es. la caccia) sono in realtà mosse dalla ricerca della massimizzazione individuale: non c’è un ‘soggetto plurale’ che le informa all’insegna del ‘noi’”. (p. 37, corsivo dell’A.). Confesso di essere rimasta costernata. Ma com’è possibile - mi sono domandata - che uno studioso attento e informato come Filippo Barbera attribuisca agli animali la “massimizzazione individuale”? Strano. Sembra ignorare la montagna di letteratura che lo smentirebbe, se non bastasse il senso comune.
Forse dipende dagli animali di cui parla. Io ho un feeling con le formiche, che si sono da tempo emancipate dal destino di operaie e sono anche intente - s’è scoperto - a relazionarsi e comunicare. Al punto da venire promosse a prototipo della capacità di autogoverno delle reti (con le relative “leggi di potenza” di László Barabási) dietro alla quale è venuto tutto il seguito non proprio innocente dell’ideologia delle reti. Le formiche sarebbero anzi l’animale giusto per rappresentare quel riconoscimento di un destino comune, quella “interdipendenza” alla base della socievolezza che Barbera attribuisce alla natura umana. E devo dire meno male che non ci abbia pensato, perché un Filippo Barbera in vena di semplificazioni seguendo le formiche si sarebbe impantanato, e me lettrice con lui, proprio in quella ideologia delle reti, la quale peraltro ha largamente contribuito alla de-politicizzazione che fa da sfondo allo sforzo compiuto nel libro.
Almeno questo è evitato, ma non c’è troppo da consolarsi. L’operazione di semplificazione che Barbera ha invece scelto di compiere qui non può essere liquidata come un incidente di percorso, anzitutto perché è stata introdotta in una parte delicata dell’argomentazione, là dove come dicevo viene impostato il ragionamento sulla formazione di un noi collettivo, e poi perché la sua impronta si ritrova in altri punti del libro, con l’effetto di creare difficoltà al percorso verso la riattivazione della politica. Anzitutto, come dicevo, con questa semplificazione la questione del collettivo viene inquadrata nell’impianto concettuale dell’economia neo-classica utilitarista. Di questo impianto si riproduce il bisogno di mobilitare il livello ontologico, la natura umana per l’appunto (anche rispetto a questo tornando a una versione proto-moderna, prima di Freud e - figuriamoci - delle scienze cognitive). E comunque questa mobilitazione di un livello ontologico del ragionamento è ridondante. Detto in modo secco, se si prendono in conto i contesti (e con lo spazio è inevitabile) molti agenti popolano la scena, pochi dei quali in carne ed ossa: certo che questa scena suscita quesiti sul livello ontologico, ma per l’appunto quesiti. Certamente importanti, ma il libro potrebbe farne anche a meno. Per il momento serve allo scopo semmai la storia; ma anche la geografia. E la teoria politica: a proposito, nel libro ci sono le élite e le classi dirigenti, ma non c’è quasi nulla sul regime politico che si accompagna con la metamorfosi della politica con la quale il libro si misura. Anche questo mi sembra un po’ strano.
Inoltre, si ripropone l’interpretazione del mondo fondata sul dualismo natura-cultura che da gran tempo il dibattito scientifico, in molte discipline non soltanto sociali, si è incaricato di smontare (il funerale lo ha celebrato Descola). È abbastanza evidente che questo modo di ricorrere alla “natura” collide con il modo in cui essa è richiamata, con i riferimenti a Gaia, a “terrestre” e a Bruno Latour, per qualificare la prospettiva politica. Poiché il libro non va molto oltre l’evocazione, per rendersi conto di quel che implica chiamare in causa “il terrestre” e quanto e come sia distante dalla “natura” di quell’impianto, suggerisco di leggere il bel prologo con il quale Carlo Donolo introduce il suo libro postumo (2023): “Un auspicio e un impegno: Terra! Il mutamento globale come esperienza che richiede un cambio di paradigma”.
Ma questa contraddizione che mette in tensione il libro non è epidermica. Difficile, per esempio, non riconoscere come figlia di quell’ impianto - e di quel rapporto con la natura - la nozione di “neutralizzazione del mondo” (pag. 36) che qualifica il “fare insieme” degli umani. Se ne parla giusto prima di spiegare che questo li differenzia dagli animali, con la frase che ho già citato. Insomma, questa nozione sta pienamente dentro l’operazione di semplificazione che dicevo, e tuttavia non ha nulla di semplice. E m’inquieta. Se non vado errata il termine è di origine militare e il corrispettivo originario in inglese è pre-emption, che io ho incontrato nella letteratura sui rischi ambientali, specialmente sanitari come la pandemia recente. Comunque, anche qui agisce una contraddizione che attraversa tutto il libro: la “neutralizzazione del mondo” fa proprio il contrario del “fare insieme” politico di cui si vuole parlare nel libro, che invece i mondi li genera e li costruisce.
E ancora, quell’impianto - che dalla mia prospettiva di sociologa si chiamerebbe per brevità economicista - presidia quello snodo cruciale del ragionamento nel quale si tratta di entrare in profondità nelle dinamiche della distanza, dello scollamento nel quale la politica viene meno: tra quei processi di costruzione di un noi collettivo e la capacità della politica di rappresentarne la voce e farla risalire in generalità. Cerco di non pensare al dualismo movimento versus istituzione che qui rispunta pur essendo stato superato da tempo (anche con il mio contributo: è del 1990 un mio tentativo di lavorare su movimento-e-istituzione). Cerco di non pensarci perché a questo dualismo si è sovrapposta subito un’altra figura duale, molto più vecchia: “la domanda e l’offerta”, e relative leggi. Vecchia, un caposaldo di quell’impianto “economicista”, ma sempre buona, la troviamo banalizzata come uno stilema fungibile. Sono abbastanza vecchia da poter testimoniare di persona come e perché la politica ne sia stata vittima (la politica come incontro tra domanda e offerta e il mercato della politica). E mi sconforta ritrovarmici, soprattutto perché ho studiato e conosco il potere delle parole. Nel libro questo stampo interpretativo è aggiornato, e a suo modo all’altezza della questione che affronta: vi si parla di “domanda di futuro” e di “offerta di futuro” - che sono anche i titoli di due capitoli - e del loro incontro. In questo, nel riuscire a far incontrare domanda e offerta di futuro, consisterebbe la rivitalizzazione della politica a cui il libro pensa. Inutile dire che, a me che ho studiato la “capacità di aspirare”, questa terminologia e lo stampo che mobilita fanno venire i brividi. Come si fa a trattare il futuro come una questione di domanda e offerta? Con tutto che Barbera cita abbondantemente Appadurai, e perciò sa bene che il futuro è un “fatto culturale”.
Insomma, quel che rilevo nell’insieme è una gabbia concettuale che soffoca le intenzioni del libro, spegnendo quesiti vitali, potenzialmente incandescenti, e depotenziando il materiale analitico comunque ricco. E che perciò finisce per impoverire l’orizzonte, la proposta politica, che il libro adombra. Anche la dimensione spaziale della politica ne risulta impoverita, malgrado tutto, esposta ad un uso strumentale che ne inficerebbe il senso qui ricercato. Ma quel che non capisco, e su cui mi resta da interrogarmi, è: perché? Perché Barbera ricorre a questa gabbia, peraltro fatta di reperti archeologici salvo qualche aggiornamento? Eppure, la prospettiva sulla politica con la strumentazione dello spazio mostra anche nel libro di essere feconda. Perché depotenziarla così? Farei l’ipotesi che Filippo si sia ritratto di fronte alla sfida di questa prospettiva - spazio e politica - che palesemente non controlla appieno. Pur tuttavia l’ha lanciata, e ha fatto bene. Ma aggiungerei che quella gabbia, che casca a pezzi, gli fornisce tuttavia l’armamentario per schermarsi rispetto a quella sfida: automatismi, richiami rituali a uno schema precostituito che servono sul momento (e le cui implicazioni non interessano più che tanto).
Farei tuttavia anche un’altra ipotesi su questo depotenziamento, che non è alternativa ma s’interroga su chi siano i destinatari a cui il libro si rivolge. Molti e diversi, certamente, ma mi pare evidente che gli interlocutori principali appartengano al mondo del policy making. Per averne conferma basta guardare l’elenco che riassume le “implicazioni principali di questa prospettiva”: “dare voce agli innovatori marginali, spiazzare le posizioni di rendita, costruire condizioni ibride, mobilitare filiere di progetto in grado di valorizzare la diversità territoriali, mettere al centro l’abitabilità quotidiana e l’economia fondamentale dei luoghi, ripensare il ruolo delle istituzioni intermedie e i livelli dei poteri locali” (pp. 96-97). È evidente chi sia il soggetto di tutti questi verbi: il libro si rivolge al policy making (policy advocacy compresa). Benissimo, questo fa andare a posto diversi tasselli. Ma illumina anche un altro aspetto del depotenziamento di quel rapporto tra spazio e politica, e più in generale della prospettiva sulla politica sostenuta nel libro: potrebbe risultare dalla scelta di questi destinatari - o piuttosto da come sono immaginati.
Consideriamo il primo punto dell’elenco: i marginali non “innovatori” sono esclusi dal quadro. Il che vuol dire che non sono presi in conto nell’ambito politico delle politiche. Benché poveri, marginali e senza voce costituiscano un riferimento fondamentale per la prospettiva politica che Barbera delinea. Ma d’altro canto questa selezione agisce a monte, in questa prospettiva: ai marginali si tratta di “dar voce” (così di nuovo un titolo). Con questa postura Barbera incontra, o spera d’incontrare, il policy maker, e di rassicurarlo. Peccato, è un’occasione mancata di apprendimento (reciproco). Il problema è che certe cose - la voce, anche - non si possono “dare”, e comunque non dall’alto. L’ho studiato a lungo e proprio a partire dai suddetti marginali, anzi dal fondo del barile: la” voce” - almeno se si assume questa nozione con cognizione di causa - si prende, non si dà, è per l’appunto una “capacità” nel senso di Amartya Sen. E le condizioni politiche perché questa capacità si dia andrebbero ben altrimenti discusse, almeno se l’orizzonte è quello della giustizia sociale. Barbera stesso lo sa benissimo, stando alla letteratura che cita (me compresa). Ecco, “dare voce” è una di quelle scorciatoie che Barbera imbocca in certi momenti, self-defeating. Quei soggetti e contesti marginali chiamati a fare insieme, riabitare i luoghi eccetera, esprimendo “domanda di futuro”, sono messi a tacere al momento buono: quello dei policy maker che intervengono con il loro vocabolario (e relativi “motivi”) esercitando il potere di nominare di cui parlava Humpty Dumpty ad Alice. Mi sembra proprio che così non si sani bensì si confermi - considerandola data - la scollatura politica tra istituente e istituito (tra politica insorgente e governo politico, se volete) che si vorrebbe superare. E questo tanto più se si considera la qualità cognitiva che Barbera sembra aspettarsi dai suoi interlocutori, se decide di ricorrere per farsi ascoltare a quel vecchio armamentario ontologico dal quale ho cominciato la decontrazione del libro.
In definitiva, a valle di tutte queste congetture e considerazioni, continuo a non capire appieno perché Filippo Barbera attinga al repertorio di questo frame - il presupposto naturalizzante, l’approccio individualistico al problema del collettivo, il vocabolario del mercato -: che grava sull’analisi, deprimendo - insisto - lo slancio della riflessione e della discussione. A questo punto posso soltanto augurarmi due cose. Anzitutto che lettrici e lettori, messi da me in guardia circa la pesantezza e incongruenza di quel frame, sappiano far tesoro di questo libro: che è - lo ribadisco - un contributo importante per la riflessione e la discussione sui problemi e le possibilità di una politica emancipativa oggi in Italia. In secondo luogo e in ultimo (ma non meno importante) da sociologa mi auguro che Filippo Barbera prosegua e arricchisca la sua ricerca su problemi e possibilità della politica, prendendo le distanze da quel frame e misurandosi invece più decisamente con la dimensione simbolica dell’agire: politica è l’arte del possibile, che è quel che del resto sono intenti a praticare le persone e i collettivi che popolano questo libro.
Ota De Leonardis
Riferimenti bibliografici De Leonardis Ota, 2022, Quantifying Inequality. From Contentious Politics to the Dream of an Indifferent Power, in A. Mennicken, R. Salais eds., The New Politics of Quantification. Utopia, Evidence, Democracy, London: Palgrave, pp. 135-166. Donolo Carlo, 2023, Sguardi sul mutamento globale, a cura di Furio Cerutti, Milano: FrancoAngeli. Emmenegger Camilla, 2023, La rivoluzione del mondo. Figure della soggettività in Max Weber, Firenze: Firenze University Press.
N.d.C. Ota De Leonardis, già professore ordinario di Sociologia presso il dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, è stata presidente del Consiglio Scientifico dell’Institut d’Etudes Avancées di Nantes, direttore di Rassegna Italiana di Sociologia e membro del comitato scientifico di Urban@it (Bologna). Ha studiato le istituzioni, le politiche pubbliche, le trasformazioni della sfera pubblica, della cittadinanza e della democrazia. Attualmente è impegnata nella carovana dell’ Intrapresa Sociale
Tra i suoi libri: Dopo il manicomio. L'esperienza psichiatrica di Arezzo (Il pensiero scientifico, 1981); a cura di, Il sapere della crisi. Per una storia della sociologia (Ianua, 1982); a cura di, Curare e punire. Problemi e innovazioni nei rapporti tra psichiatria e giustizia penale (Unicopli, 1988); Il terzo escluso. Le istituzioni come vincoli e come risorse (Feltrinelli, 1990); con Diana Mauri e Franco Rotelli, L'impresa sociale (Anabasi, 1994); Fabbisogni formativi e inserimento lavorativo dei giovani usciti dal circuito penale (Iard, 1995); con Lavinia Bifulco, a cura di, L'innovazione difficile. Studi sul cambiamento organizzativo nella pubblica amministrazione (F.Angeli, 1997); In un diverso welfare. Sogni e incubi (Feltrinelli, 1998; 2002); Le istituzioni. Come e perché parlarne (Carocci, 2001; 2011); con Serafino Negrelli e Robert Salais, a cura di, Democracy and capabilities for voice. Welfare, work and public deliberation in Europe (Lang, 2012); con Marco Deriu, a cura di, Il futuro nel quotidiano. Studi sociologici sulla capacità di aspirare (Egea, 2012); con Vando Borghi e Giovanna Procacci, a cura di, I discorsi delle politiche (Liguori, 2013); con F. Neresini, a cura di, “Il potere dei grandi numeri”, special issue, RIS, 3-4, 2015; con Alessandro Balducci e Valeria Fedeli, Terzo rapporto sulle città. Mind the gap. Il distacco tra politiche e città, Urban@it, Centro nazionale di studi per le politiche urbane - il mulino, 2018); “Il Mercato totale. Su diritto e democrazia”, postfazione a: Alain Supiot, La sovranità del limite, (Mimesis 2021); con Shigehisa Kuriyama, Carlos Sonnenschein, Ibrahima Thioub, a cura di, Covid-19. Tour du monde, (Manucius, 2021).
Per Città Bene Comune ha scritto: Le città sono persone che fanno cose, commento al libro di Pier Luigi Crosta e Cristina Bianchetti (4 novembre 2022).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 26 LUGLIO 2024 |
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