Carlo Olmo  
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ANSIA SOCIALE E PROGETTUALITÀ


Commento al libro di Vincenzo Costa



Carlo Olmo


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Le vacanze richiamano sempre meno la loro radice latina vacatio assomigliando sempre più alla manifestazione estrema dell’over, cui seguono turismo, consumismo, esibizionismo. Quello che era il tempo della noia o della conclusione del romanzo di Moravia, del ballo in maschera, è oggi forse la più radicale espressione degli automatismi sociali, descritti da François Jullien in Rouvrir des possibles (1). Eppure, quel tempo sospeso consentiva scoperte che, per comodità, si attribuivano al caso ma che, in realtà, nascevano da legami tra testi e stati d’animo che nelle furiose giornate dall’autunno alla primavera non si immaginavano neanche… possibles. È così che, rimanendo nel mio romitorio torinese, l’estate scorsa mi sono imbattuto nel testo di Vincenzo Costa La società dell’ansia (Inschibboleth Ed., 2024). Le radici di questo apparente incidente di percorso sono tante e non facili da ricomporre. L’eremitaggio produce stati di allucinazione e ansia che si traducono in una messa in scena della nostra quotidianità, che ci richiama ai territori diversi che frequentano ragioni e affetti, e che l’eremita (volontario o meno) neanche può condividere, come scriveva con ironia e autoironia anglosassone Ronald Donald Laing in Do you love me? (2). E siccome le connessioni che ci aiutano a interpretare anche il nostro fare quotidiano procedono per salti e soglie - che l’evoluzionismo volgare, ancora tanto in voga oggi, neanche concettualizza - la soglia che può rendere più che mai attuali le riflessioni di Costa - ma anche quelle di Stefan Van der Stigchel (3) - non è ardua da individuare. La solitudine non atrofizza la capacità di mettere in relazione situazioni, idee, autori, e non esclude la condivisione come invece succede quando si fatica di riconoscere l’altro. Al contrario spinge verso un metodo di lavoro, figlio essenzialmente dell’indagine e della prova, che arriva a sfiorare il rischio e la scoperta, un po' come succede al Maigret del Maigret in Corte d'Assise (4). Perché allora è importante o può esserlo il libro di Vincenzo Costa - e gli altri nominati e non - per non ridurre questa mia meditazione sul pensiero sull’architettura oggi a un elenco scombinato di letture?

La prima ragione risale a una conferenza tenuta a Torino a fine luglio organizzata per salutare Cristina Bianchetti in prossimità del suo ritiro dall’Università. Il mio interesse fu suscitato dall’intervento di Paola Viganò che difendeva il suo Il giardino biopolitico (5). Al di là del testo, quel che mi colpì fu la difesa di un approccio a uno dei temi più classici della storia dell’architettura, il giardino, rivendicando anche - certo, non solo - il ruolo delle emozioni. Era l’affermazione più forte, anche rispetto alla sua storia intellettuale, di un’analisi transdisciplinare e trasversale. Mi colpì perché avevo appena letto il testo di Costa e la quasi feroce difesa che questo autore fa di un ragionamento su esistenza e mondo. In una cultura, quella architettonica e urbana, che esalta, al limite del ridicolo, un cartesianesimo vestito dei panni dell’eroe nietzschiano, la riproposizione di una società che sia una produzione e distribuzione delle emozioni (6) - a parte ridar voce a fenomenologi come Ludwig Binswanger - rilancia un atteggiamento culturale ormai mortificato da una collettività ridotta a pavloviane reazioni - e alla contemporanea distruzione del tempo che ne consegue - o alla riduzione della persona - e qui sarebbe troppo lungo il percorso che ci riporta indietro da Heidegger sino a Bergson - a parodie del Chaplin di Tempi moderni.

Ma Costa ci aiuta a compiere un passo ulteriore. Le emozioni sono state nel tempo addomesticate e ricondotte prima a “bisogni”, oggi a norme astratte e spesso repressive, andate a sbattere contro narrazioni e risposte preordinate che non lasciano - quasi in maniera scontata - spazio a sospensioni o forme intermedie di meditazione - e qui bisognerebbe introdurre un altro personaggio fondativo di questo ragionamento, Pierre Hadot e il suo testo Esercizi spirituali e filosofia antica del 1981 (7) -. Questo ulteriore passo, tuttavia, obbligherebbe a tornare alla solitudine e alle sue diverse temporalità. Costa, in realtà, procede oltre e ci aiuta a riflettere sul rapporto con l’autorità, con un’affermazione molto dura. Sarebbe l’intellettualizzazione delle società occidentali a farci perdere il contatto con la vita e subire, quasi con ottusa felicità, il determinarsi di verità universali senza alcuna trasformazione del sé (p. 41). Persino Platone in questo mondo sarebbe uno straniero!

L’urbanistica prima e l’architettura, poi, hanno subito questi passaggi quasi senza ribellione. Sarebbe sufficiente analizzare come è stato usato dagli anni ottanta del Novecento ad oggi il termine “universale” collegato ad architetture, luoghi, territori che, oltretutto, vengono fermati nella loro evoluzione all’immagine e al momento in cui quell’immagine (e le sue retoriche) vengono riconosciute come tali. Con una non marginale e ulteriore notazione. L’universalità (dei valori sociali, culturali, politici) segue l’evoluzione del pensiero occidentale dagli estensori dei codici napoleonici, a Hegel, a Marx, sino alle diverse formulazioni di quello che per semplicità si chiama welfare state. Ma quell’universalità oggi è rifiutata. Assistiamo infatti alla frantumazione postmoderna delle identità (8). Nulla, probabilmente, ne dimostra la frantumazione più dell’architettura post-funzionalista, con la contemporanea trasformazione dell’universale in una sorta di bandierina da attribuire di volta in volta a una zappa come a un ballo, alla Mezquita di Cordoba come all’intera città di Roma dentro le mura aureliane.

L’ansia allora è non solo il prodotto di un sistema di vita e della riduzione merceologica del tempo (della vita, del lavoro, del divertimento), ma di un tempo che insieme è il frutto di un dover essere immobile e che sbandiera le sue tavole e i suoi comandamenti. Un paradosso che può arrivare a generare una città indemoniata da nuove streghe (9) e un’urbanistica che risponda a valori e norme necessari per rimuovere le emozioni e affermare una normalità - e qui la letteratura sulla psichiatria degli anni sessanta e settanta andrebbe tutta rivisitata - che possa garantire l’accettazione sociale e di conseguenza il controllo dell’ansia. Chi siano le nuove streghe e perché non vengano bruciate sarebbe dunque una domanda interessante.

Qui, però, che si apre una fissure come scrive François Jullien che il legame con l’attuale riflessione sull’architettura e sulla città moderna può generare. Le esistenze in questa condizione non agiscono più per progettualità o per rispondere a possibilità riflessive che il mondo offre, ma per garantire appartenenza e accoglienza. La narrazione della società aperta diventa pura retorica come quella dell’architettura polisemica, quando il cambiamento, che ci assedia e ci rende insicuri, si trasforma in rispetto di una normalità garantita dall’osservanza di formulazioni immutabili. Forse nulla più dell’omologazione globale delle new towns ( variamente rititolalate) oggi nel mondo può spiegare lo scambio ineguale tra accettazione e normalità, tra essere appiattiti nella conformità e quelli che si espongono alla conoscenza dell’altro. Oggi, ad esempio, andiamo a Singapore per riconoscere una mitologia che sfiora la propaganda, non per farci interrogare se quello è davvero il nostro futuro.

Nel caso dell’architettura l’altro è troppo spesso già normalizzato, prima che ci si possa porre la domanda sul Das Ding di ciò che si studia. Esporsi, invece che appiattirsi in ruoli e procedure, vuol dire conoscersi grazie all’altro. Esporsi agli altri domanda, oltre al rischio di trovarsi in terre sconosciute - come sarebbe bello che si tornasse a leggere von Humboldt e il suo Viaggio nelle regioni equinoziali del Nuovo Continente - un’attenzione che non è solo concentrazione. Perché per fare un’esperienza e non una forma del ritrovarsi - condizione oggi resa persino patetica dalla società dei follower - è necessaria un’attenzione spasmodica a non farsi ridurre in vittime - e qui la differenza tra riconoscimento e conoscenza diventa stridente - dei luoghi comuni che tanta letteratura ha sparso non solo nella storiografia architettonica o artistica. Borromini interroga, ripeteva spesso Paolo Portoghesi. Ma è davvero possibile - ci chiediamo - sviluppare un’attenzione critica nel mondo dei like e degli influencer, delle fake news come strategia e della rinunzia alla prova, per cui chiunque può interloquire con chiunque, chiamando questa “cittadinanza” e “democrazia”? E a quale prezzo un’attenzione alle domande che, ad esempio, un’architettura ci pone ci richiede la contemporanea rinuncia a quella che Paul Ricœur chiama la mémoire obligée , con il conseguente e implicito devoir de mémoire che ne deriva? (10) La memoria può ridursi, nel primo caso, a una splendida forma di controllo dell’ansia cui rinunziare è molto difficile.

Per questa ragione San Carlino ci mette ansia e noi non possiamo trovare le ragioni della sua straordinaria progettualità usando categorie rassicuranti. Le emozioni devono essere vissute e non consumate, se si vuole generare un lavoro emotivo che esca dal circolo vizioso che costringe a placare l’ansia con azioni che alimentano la nostra alienazione (11). Ed è proprio il circolo vizioso che genera il lessico stesso di chi ha costruito una narrazione su San Carlino che consente di sottrare il possibile visitatore dall’essere interrogati e a interrogare le nostre emozioni, e ad accettare una risposta già formalizzata e accettabile. Saper vedere - da Marangoni a Zevi, a Gombrich - indicava strade percorribili ma tutte interne ad un cartesianesimo neanche esplicitato, e per questo non possono darsi senza rinunziare alle emozioni che un luogo può generare. Alcuni anni fa mi succedeva spesso di accompagnare miei illustri amici a visitare il padiglione B di Torino Esposizioni. E senza vergogna li vedevo lasciarsi andar a piangere in quello straordinario spazio vuoto. E dal pianto emergevano letture non codificate.

Le riflessioni di Stefan Van Der Stigchel sull’attenzione, tuttavia, consentono di procedere oltre (12). La società dell’ansia sembra minare alla base l’attenzione, soprattutto quell’attenzione che si presenta come un’autentica epochè. Distratti, aiutati a riconoscere dall’uso frenetico di enne strumenti digitali, alla “caccia” perenne di una velocità nell’individuare che ormai è una nevrosi sociale, l’attenzione - scrive Van Der Stigchel - può operare solo e quando, in un universo di over informazioni - questo autore parla soprattutto della distrazione visiva, questione rilevantissima per architetti e urbanisti - ne sospende il valore: quando cioè l’attenzione ci aiuta a vedere ciò che non ci si aspetta di vedere. Certo ritorna in ballo l’autorità e la sempre crescente difficoltà a riconoscerla, che è il vero cane nero della nostra epoca. Ma se non vogliamo solo essere accettati, quest’attenzione ci pone quasi al limite della comunità (scientifica, sociale, politica) cui apparteniamo e delle sue regole costruite per placare l’ansia con azioni che alimentino invece la nostra attenzione.

E qui vorrei tornare al testo di Paola Viganò. Un libro che non esprime solo il punto di vista di una studiosa e progettista in un mondo quasi necessariamente segnato dalle normatività della società globalizzata. Il giardino serve a Viganò per tentare di uscirne e la biopolitica ne è la strategia essenziale. Leggere il libro infilandosi nell’enorme letteratura sull’Antropocene, significherebbe sottrarlo alle emozioni da cui nasce l’esigenza di non utilizzare strumenti che la storia dell’architettura offre a centinaia proprio sul tema del giardino. È la ricerca di salvaguardare la progettualità dal dover essere normativo e omologante, che oggi impera anche quando si parli di “verde”, che dovrebbe interessare il lettore, forse anche il progettista. E’ dal provare a mantenere le emozioni come strumento di interrogazione dell’oggetto giardino che muove il testo. Forse più che biopolitico, allora, il giardino di Viganò è prima di tutto anticartesiano. Ma non vorrei cadere in quella trappola che Samuel Beckett indica come passaggio necessario per leggere i Finnegans Wake di Joyce: ritornare a Giambattista Vico! (13). Troppo facile sarebbe infatti l’ironia sull’uso di una rassicurante ciclicità come cura dell’ansia, quando la progettualità nasce proprio dalla sospensione della mémoire obligée in cui viviamo, che è la radice del pensiero di Vico!

Se posso, un grazie a Vincenzo Costa e alle tante relazioni - non solo tra valori e norme, tra esperienze e codici - che il suo testo ci suggerisce, esponendoci a percorrere sentieri che ci interrogano, ma forse non solo. Il libro - come suggerisce Pierre Hadot - è un Apprendre à lire et à vivre.

Carlo Olmo

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Note
1) F. Jullien, Rouvrir des possibles. Décoïncidence, un art d'opérer, Éditions de l'Observatoire, Paris 2023.
2) R. D. Laing, Do You Love Me? An Entertainment in Conversation and Verse, Pantheon Books, New York 1976.
3) S. Van Der Stigchel, How Attention Works. Finding Your Way in a World Full of Distraction, MIT Press, Cambridge MA, 2019.
4) G. Simenon, Maigret in Corte d'Assise, traduzione di Laura Frausin Guarino, Adelphi, Milano 2006.
5) P. Viganò, Il giardino biopolitico. Spazi, vite e transizione, Donzelli, Roma 2023.
6) V. Costa, La società dell’ansia, Inschibboleth Ed., Roma 2024, p. 9.
7) I. Malaguti, Dalla meraviglia all’ammirazione. Memoria e attualità ermeneutica di Pierre Hadot, in “Gregorianum”, 2, 93, 2012, pp. 315-331.
8) A. Cavarero, Il racconto dell’identità, in Grillo, Enciclopedia Multimediale delle scienze Filosofiche 2019
9) P. Boyer e S. Nissenbaum, La città indemoniata. Salem e le origini sociali di una caccia alle streghe, Einaudi, Torino 1986.
10) Sèbastien Ledoux, Le “devoir de mémoire” comme formule-tierce, in “Intermédiares”, 21/2013 Seuil, Paris 2000, p. 243.
11) Costa, p. 84-5.
12) S. Van Der Stigchel, cit, p. 87sgg.
13) S. Beckett, Our Exagmination Round His Factification for Incamination of Work in Progress, 3, 1926, tr. it in S. Beckett, Introduzione a Finnegans Wake, Milano 1964, pp. 9-26. Beckett fa riferimento alla prima stesura del Finnegans che portava il titolo di Work in Progress.
14) C. F. Worms, in A. I. Davidson e F. Worms (a cura di), Pierre Hadot, L’enseignement des antiques, l’enseignement des modernes, Rue D’Ulm, Paris 2010, p.13 sgg.

 

 

N.d.C. - Carlo Olmo, professore emerito di Storia dell'Architettura del Politecnico di Torino, è stato preside della Facoltà di Architettura e ha coordinato il dottorato di ricerca in Storia dell'Architettura e dell'Urbanistica presso lo stesso ateneo. Ha insegnato all'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in numerose università straniere. Ha inoltre curato una quarantina di mostre di architettura a Torino, Venezia, Roma, Parigi, Bruxelles e New York.

Tra i suoi libri: Politica e forma (Vallecchi, 1971); Architettura edilizia. Ipotesi di una storia (Torino, 1975), con Roberto Gabetti, Le Corbusier e L'Esprit Nouveau (Einaudi, 1975); con Riccardo Roscelli, Produzione edilizia e gestione del territorio (Stampatori, 1979); La città industriale. Protagonisti e scenari (Einaudi, 1980); Aldo Rossi attraverso i testi (Mazzotta 1986): tr. ing. in "Assemblage", 5, 1988: Turin et des Miroirs feles, in "Annales", 3, 1989; con Roberto Gabetti, Alle radici dell'architettura contemporanea. Il cantiere e la parola (Einaudi, 1989); con Linda Aimone, Le esposizioni universali, 1851-1900. Il progresso in scena (Allemandi, 1990; ed. fr. Belin 1993); con Luigi Mazza (a cura di), Architettura e urbanistica a Torino, 1945-1990 (Allemandi, 1991); Une architecture imperfaite. La reconstruction de via Dora Grossa à Turin, in “Annales” 1991; (a cura di), Cantieri e disegni. Architetture e piani per Torino, 1945-1990 (Allemandi, 1992); Urbanistica e società civile. Esperienza e conoscenza, 1945-1960(Bollati Boringhieri, 1992); Gabetti e Isola. Architetture (Allemandi, 1993); (a cura di), La ricostruzione in Europa nel secondo dopoguerra (Cipia, 1993); (a cura di), Il Lingotto: 1915-1939. L'architettura, l'immagine, il lavoro (Allemandi, 1994); (a cura di) con Bernard Lepetit, La città e le sue storie (Einaudi, 1995); (a cura di), con Alessandro De Magistris, Jakov Cernihov: documenti e riproduzioni dall'archivio di Aleksej e Dimitri Cernihov(Allemandi, 1995; ed. fr. Somogy editions d'art, 1995; ed. ted. Arnoldsche, 1995); Le nuvole di Patte. Quattro lezioni di storia urbana (FrancoAngeli, 1995); (a cura di), Mirafiori(Allemandi, 1997); (a cura di) con Lorenzo Capellini e Vera Comoli, Torino (Allemandi, 1999); (a cura di), Dizionario dell'architettura del XX secolo (Allemandi, 2000-2001, 5 vol.; ed. Enciclopedia Treccani, 2002); Costruire la città dell'uomo. Adriano Olivetti e l'urbanistica (Edizioni di Comunità, 2001); (a cura di) con Walter Santagata, Sergio Scamuzzi, Tre modelli per produrre e diffondere cultura a Torino (Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci, 2001); con Michela Comba, Marcella Beraudo di Pralormo, Le metafore e il cantiere. Lingotto 1982-2003 (Allemandi, 2003); (a cura di) con Michela Comba e Manfredo di Robilant, Un grattacielo per la Spina. Torino, 6 progetti su una centralità urbana, catalogo della mostra (Allemandi, 2007); Morfologie urbane , “Quaderni Storici”(il Mulino, 2007); (a cura di), Giedion, Sigfried, Breviario di architettura(Bollati Boringhieri, 2008); (a cura di) con Arnaldo Bagnasco, Torino 011: biografia di una città. Saggi (Mondadori Electa, 2008); Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori (Donzelli, 2010); (a cura di), con Cristiana Chiorino, Pier Luigi Nervi. Architettura come sfida (Silvana ed., 2010, 2012); Architecture and the 20. Century: Rights, conflicts, values (List Lab, 2013); Architettura e storia. Paradigmi della discontinuità (Donzelli, 2013); con Susanna Caccia Gherardini, Le Corbusier e il fantasma patrimoniale (Il Mulino 2015) e Metamorfosi americane. Destruction throught neglect: Villa Savoye tra mito e patrimonio (Quodlibet, 2016); con Susanna Caccia, La villa Savoye. Icona, rovina e restauro (1948-1968) (Donzelli, 2016); con Patrizia Bonifazio e Luca Lazzarini, Le Case Olivetti a Ivrea (Il Mulino, 2018); con postfazione con Antonio De Rossi, Urbanistica e società civile (Edizioni di Comunità, 2018); Città e democrazia. Per una critica delle parole e delle cose (Donzelli, 2018); Progetto e racconto. L’architettura e le sue storie (Donzelli, 2020); Storia contro storie. Elogio del fatto architettonico (Donzelli, 2023).

Per Città Bene Comune ha scritto: Spazio e utopia nel progetto di architettura (15 febbraio 2019); La città tra corpo malato e corpo perfetto (3 luglio 2020); La diversità come statuto di una società (19 febbraio 2021); Biografia (e morfologia) di una strada (22 ottobre 2021); Gli intellettuali e la storia, oggi (4 febbraio 2022); Per una nuova Progressive Age (10 settembre 2022); La memoria come progetto (24 febbraio 2023); Un’urbanistica della materialità e del silenzio (30 giugno 2023), Le molteplici dimensioni del tempo (12 aprile 2024).

Sui libri di Carlo Olmo, v. i commenti di: Cristina Bianchetti, Lo spazio in cui ci si rende visibili… E la cerbiatta di Cuarón (5 ottobre 2018); Giampaolo Nuvolati, Scoprire l’inatteso negli interstizi delle città (20 settembre 2019); Carlo Magnani, L’architettura tra progetto e racconto (11 settembre 2020); Piero Ostilio Rossi, Modi (e nodi) del fare storia in architettura (2 ottobre 2020); Gabriele Pasqui, La storia tra critica al presente e progetto (23 ottobre 2020); Andrea Bonaccorsi, La storia dell’architettura è la storia (26 gennaio 2024).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 

 

 


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19 SETTEMBRE 2024

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G. M. Flick, La città dal diluvio universale all'arcobaleno, commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio (a cura di), La città dopo la pandemia (Aracne, 2023)

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