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“L’uomo prende coscienza del sacro perché esso si manifesta, si mostra come qualcosa del tutto diverso dal profano. Per tradurre l’atto di questa manifestazione del sacro abbiamo proposto il termine ierofania, che è comodo, tanto più in quanto non implica alcuna precisazione supplementare: non esprime di più di quanto è intrinseco al suo contenuto etimologico, vale a dire che qualcosa di sacro si mostra”(1). Così scriveva nel 1956 Mircea Eliade, evidenziando l’opposizione polare tra sacro e profano, in un piccolo volume pubblicato l’anno dopo in Germania, da lui inteso come premessa ad una storia sui generis delle religioni. E aggiungeva, esplicitando un paradosso sconvolgente ogni rigida identificazione del sacro nel quale la coscienza umana si trovi implicata: “Dalla ierofania più elementare, per esempio una manifestazione del sacro in un oggetto qualsiasi, una pietra o un albero, alla ierofania suprema, che per un cristiano è l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo, non vi è soluzione di continuità. È sempre lo stesso atto misterioso: la manifestazione di qualcosa di completamente diverso, di una realtà che non appartiene al nostro mondo, in oggetti che fanno parte integrante del nostro mondo ‘naturale’, ‘profano’”(2). Saldava così sacro, profano e storia, dalla fase arcaica all’attuale, in un unico nodo, fondamento dell’esperienza religiosa.
Ritengo che l’architetto Mario Botta abbia spesso enunciato proprio quest’essenziale articolazione eladiana, imprigionandola però in un primigenio livello intuitivo di senso e immediatamente lanciandola come slogan identificativo di una pratica di mestiere dall’intrinseco carattere inventivo. Ha evitato in questo modo di svolgerla nelle peculiarità dei nessi specifici dell’architettura con antropologia, culture e confessioni religiose. La misteriosa manifestazione del sacro è infatti, come ha precisato autorevolmente Eliade, esperienza costitutiva della coscienza umana che può stabilizzarsi in oggetti e spazi o luoghi del sacro tramite riti e miti - per il contesto cattolico tramite liturgia -, istauratori anche di un tempo sacro concomitante con lo spazio. Essa emerge nella storia delle religioni dei popoli in rapporto a storiche concezioni del mondo e dell’uomo, che si ripercuotono nei modi di vivere, dunque anche nell’abitare e nel costruire architetture. Sembra invece che l’architetto Botta abbia trattenuto in un ferreo cortocircuito la pur fertile intuizione, lungo una carriera di grandi successi, incurante - si potrebbe dire - di interrogativi e contraddizioni che essa trascina con sé. Talvolta la espresse in forme apodittiche, forse per segnare una distinzione, una specificità di ricerca; forse per opporsi a luoghi comuni o per tener fermo, comunque, un principio anche operativo di identità, senza mediazioni concettuali se non appunto ‘il sacro’, fra spazio dell’architettura e realtà. Tutta la fenomenologia dell’architettura sarebbe segnata, per sua esplicita dichiarazione, dalla polarità tra sacro e profano. In gradazioni diverse nei vari temi progettuali e con proprio apax in quello religioso - di chiese cristiane, sinagoghe, moschee - con vertice espressivo nelle chiese cattoliche ha affermato più recentemente. Al tempo stesso, la riconosce come evidente e stabile dato di cultura, imperdibile nella storia degli uomini per poter abitare, orientati alla felicità tra terra e cielo, il pianeta.
La tangenza solo puntuale della sua posizione con quella di Eliade, che mi è stata suggerita in prima battuta dalla generalità e quasi indeterminatezza della sua ormai celebre formula ‘lo spazio del sacro’, non mi pare comunque esercizio snobistico. È altro, è posizione essenziale nella dedizione al proprio mestiere. Ne trovo documentazione nel libro Il cielo in terra. Un secolo di chiese e cappelle nell’architettura moderna e contemporanea(3), pubblicato nel 2023 tra i Libri Scheiwiller, che mi accingo ad esplorare. Produzione matura della sua coscienza religiosa, esso si apre con una pagina intitolata Luce e gravità, binomio che individua attributi peculiari per costruire e vivere le architetture, ripreso dalla rubrica a sua firma comprendente la maggior parte dei testi qui raccolti, su “Luoghi dell’infinito”, mensile di arte e di itinerari di cultura ideato e diretto da Giovanni Gazzaneo, collegato al quotidiano cattolico “Avvenire”. Costruito tramite un ampio insieme di brevi esplorazioni di singole opere per lo più europee di contesto cristiano, e in ordine cronologico, non è un libro che si possa propriamente recensire ricostruendone il filo conduttore in una narrazione che ne desuma e ne riproponga i fattori fondanti. Botta vi procede per libere occasioni e per stimolanti e rapidi sondaggi. Perlomeno questa è la persuasione che ho maturato leggendolo. È un testo di notevole freschezza espressiva, che invita ad uno scambio di sguardi e di conseguenti valutazioni sul senso di chiese cristiane per il culto pubblico, non solo cattoliche, e di cappelle private di meditazione. Grazie alla propria eccezionale esperienza d’architetto costruttore delle une e delle altre, può proporle in una selezione indicativa della propria attenzione lungo tutto il XX secolo e fino ad oggi, come esemplari documenti di ‘frammenti di cielo in terra’ in grado di offrire nel finito, nel limite dunque di spazi chiusi e di costruzioni realizzate con materiali specifici, l’emergere di una non meglio individuata presenza di ciò che sta “oltre il finito”. Loro tramite, mi pare si possa dire con espressioni più convenzionali, l’architettura di chiese e cappelle può essere elevata a segno evidente del legame fra trascendenza e immanenza proprio della condizione umana, in una convergenza di dati di fatto così spettacolare da non richiede spiegazioni.
Botta si fa dunque narratore, ogni volta in due pagine comprendenti una sola immagine, della creatività religiosa di una lunga schiera di architetti ai quali riconosce il grande merito di interpretare in termini autentici una contemporaneità che chiama ‘il Moderno’ e talvolta, con formula non troppo felice perché deterministica, ‘lo spirito del tempo’. Di volta in volta esprime ammirazione e stupore, si associa e si dissocia, entra nel merito di valutazioni disciplinari quali il rapporto con il contesto della nuova costruzione, il livello più o meno raggiunto di una sintesi compositiva equilibrata, il dialogo fra le arti, molto raramente l’ordinamento liturgico. Provoca il lettore a condivisione o a differenziazione. Nel suo insieme, il libro inscena, come su un tavolo di lavoro d’architetto, la predisposizione commentata di una sequenza, quasi occasionale ma disposta in ordine cronologico, di poche e belle immagini, promemoria di dirette conoscenze de visu. Le riflessioni, non ignare di contributi letterari e storiografici, sono esposte come cenni di criteri valutativi propri di un architetto per così dire con la matita in mano, che pensa progettando, invitando a cogliere il come e il perché degli spazi del sacro cui rivolge la propria attenzione. Nel contempo, colleziona richiami di storia e di cultura che gli sono indispensabili per segnalarne il senso inseguito e raggiunto, del tutto o in parte, da chi le ha prodotte.
La lettura è accattivante, stimolante. Si vorrebbero avere a disposizione più immagini per ogni caso, ma si percepisce l’intelligenza della scelta nell’oscillazione equilibrata tra immagini e parole. Gli spazi del sacro proposti sono di grande qualità, talvolta di carattere più emotivo, in altri casi più compositivo o tecnico. Provocano giudizi che si vorrebbe fossero più circoscritti e che invece solo in parte mettono allo scoperto il narratore. Dominato dal pensiero ‘progettante’ e pertanto aperto a riconoscere quelle innovazioni che attualizzano grandi valori tradizionali, egli resta ben saldo nella individuazione di un alveo che dia ordine ai percorsi della memoria, delle sensazioni, delle emozioni, lasciati però del tutto impliciti. Guarda le immagini, le commenta, medita sugli spazi da lui stesso ‘abitati’ in qualche visita con notevole spontaneità, senza preoccupazione teorica di carattere sistematico. Non impone inoltre come termine di paragone le proprie chiese e cappelle, documentate nel libro in una breve raccolta finale in bianco e nero con specifico saggio. Ritengo peraltro che essa risponda soprattutto ad esigenze di completezza editoriale. Il loro richiamo nella pubblicazione è però utile; rende in effetti vivo il sottofondo di costante allerta dell’architetto progettista autore del libro senza interferire con quelle sottoposte a vaglio critico, prodotte nel travagliato secolo che ci sta alle spalle e nei primi decenni del nostro. Riesce così a restituire una coralità di ricerca, convincente e insieme problematica, aperta ad ulteriori sviluppi. Senza penetrare nell’intuizione laboriosa e nel cuore segreto di chi li ha realizzati e ce ne ha fatto dono, ne coglie gli esiti più brillanti, da conservare come preziosi frammenti di un tempo storico in fieri, ma non ne nasconde neppure i limiti a lui evidenti.
Insisto qui sul taglio da architetto con la matita in mano dei testi di Botta perché il loro impianto critico offre, sia pure con mano leggera, una lezione di metodo che non si lascia fuorviare da questioni di gusto. Mi ha ricordato l’affascinante ‘legge del meandro’ di Le Corbusier, da lui messa a punto nella sua segreta, ‘lunga ricerca paziente’, un teorema intuito dal grande svizzero osservando dall’areo in volo sull’America del Sud il movimento dei fiumi Paranà, Uruguay, Paraguay. Scrisse nel 1930: “Dall’aereo ho assistito a spettacoli che si potrebbe definire cosmici. […] Il corso di questi fiumi, in queste terre illimitate e piatte, sviluppa pacificamente l’implacabile conseguenza della gravità, della fisica; si tratta della legge della linea di maggior pendenza la quale, quando tutto diviene piatto, genera il teorema commovente del meandro. Io lo chiamo teorema perché il meandro che risulta dall’erosione è un fenomeno a sviluppo ciclico, assolutamente simile a quello del pensiero creativo, dell’invenzione umana. Disegnando dall’alto dell’aereo i lineamenti di un meandro, sono riuscito a spiegarmi le difficoltà dei processi umani, gli ostacoli in cui essi inciampano, le soluzioni apparentemente miracolose che risolvono situazioni inestricabili. Per mio uso ho battezzato questo fenomeno la legge del meandro”(4).
Per Le Corbusier, dunque, la mente di chi progetta, la sua in primis, mentre cerca di dar forma all’opera rispondendo ‘pacificamente’ alle implacabili leggi della gravità in senso fisico, si dibatte nel meandro delle proprie possibilità fino a trovare un compimento, una sintesi costruibile e poi costruita che lo sorprende come un miracolo. La riflessione è illuminante ma il geniale svizzero fu, come è noto, sempre geloso custode delle proprie fatiche inventive così come fu geloso dei carnet degli appunti di viaggio che raccoglievano schizzi e pensieri illuminanti. Botta sembra quasi riproporre il processo lecorbusiano, qui come del resto mi pare faccia nelle occasioni di presentazione delle proprie realizzazioni. Evidenziando nel libro, ogni volta con sorpresa, gli esiti di qualità delle opere esaminate, tace sempre sulle complessità a meandro che devono aver preceduto la soluzione finale, l’invenzione, della quale avverte sicuramente qualche premessa. Si intuisce tuttavia in lui un lavorio costante, un fervoroso impegno nella ricerca di uno spazio del sacro non estemporaneo bensì inscritto “nel solco di una storia millenaria” che lo stimola. La stessa raccolta Scheiwiller ne è documento.
In generale, i primi casi in essa trattati evocano architetture di chiese e cappelle europee molto celebri, successivamente la selezione propone anche soluzioni poco note o singolari; accentuata è inoltre la presenza di opere svizzere e tedesche, non mancano esempi delle Americhe e di area asiatica. Infine sono numerose le cappelle private. Si resta comunque distanti da una vera selezione storico geografica, del resto essa sarebbe molto complessa se non impossibile, trattandosi non di cattedrali ma di chiese parrocchiali, presenti in ogni nucleo di quartiere o di abitato anche modesto, e di cappelle private. Nella maggior parte dei casi lo studio riguarda edifici per il culto cattolico, ma vi sono anche opere di ambito ecclesiale riformato e un esempio ecumenico. È evidente l’attenzione per realizzazioni di architetti giovani. Non mancano neppure situazioni di recupero-riuso. Costante è la messa in luce del rapporto della nuova costruzione con il contesto preesistente, forse il leit motiv più accentuato e caro a Botta, con quelli della luce e della gravità. Più volte è evocata in termini generali, come confronto di essenziale e intima semplicità, l’architettura romanica.
A titolo esemplificativo richiamo qui qualche realizzazione, in una più che breve casistica, con il solo scopo di far emergere aspetti del pensiero ‘progettante’ di cui sopra ho parlato e per evidenziare nello stesso tempo un problema cruciale, formulato dallo stesso autore del libro, che conclude la mia esplorazione. Ho sacrificato allo scopo notevoli spunti e richiami ad opere di grande interesse. Molti di essi sarebbero stati utili anche ai miei obiettivi, ma mi avrebbero costretto ad addentrarmi troppo nel suggestivo universo delle chiese moderne di più di un secolo, nel quale l’autore si muove con grande agilità. Sono interessanti alcune sottolineature nei primi casi trattati.
Viene innanzi tutto evidenziata la forza di Antoni Gaudí emergente dalla costruzione ancora in corso di realizzazione dal 1882 della Sagrada Familia, consistente nella capacità di “non arrestarsi di fronte alla complessità. Quando arriva al pennacchio anziché finire, comincia con nuove geometrie. Ininterrottamente”. Si precisa però subito che si tratta di complessità “che il Moderno non può permettersi. Il suo [di Gaudí] è un gesto di contrasto che prende la via opposta a quella dello sviluppo tecnico del costruire che ha accelerato i tempi e alleggerito i dettagli” (p. 14).
A proposito della domenicana Cappella del Rosario di Henri Matisse, del 1947-1951, ammirandone senza riserve l’atmosfera di “rarefatta spazialità” realizzata dall’intervento artistico, non può trattenersi dall’annotare: “L’architetto deve – per correttezza – registrare la mancanza di una sintesi fra la composizione delle differenti parti e notare l’assenza di un adeguato controllo spaziale d’insieme” (p.30). Avendo visitato la cappella, trovo quest’osservazione preziosa in una ormai generalizzata celebrazione troppo aprioristica, che non sa fare distinzioni.
Inevitabile l’ammirazione per Notre Dame di Haut a Ronchamp di Le Corbusier del 1955, che, scrive Botta, “conserva una forte attualità; testimone dei valori, delle memorie e delle speranze che spazio, luce e gravità riescono ancora a comunicare” (p. 30). Vi si ritrovano “la stessa potenza, intensità, semplicità e intelligenza costruttiva delle chiese del romanico”. In essa inoltre: “L’architettura moderna si riconcilia pienamente con lo spirito del grande passato; e l’architettura ecclesiastica ritrova la forza espressiva che ne ha connotato le origini” (p. 35).
Più avanti nel libro emerge un importante richiamo a Le Corbusier, “nostro costante riferimento” annota l’autore. Di lui, evocando il valore di protagonista della luce nella composizione architettonica, richiama la celebre espressione ‘spazio indicibile’ che attende ancora a mio parere approfondita comprensione. “Lo spazio è dentro di noi, - scriveva Le Corbusier - l’opera può evocarlo ed esso può svelarsi a coloro che lo meritano; a chi entra in sintonia con il mondo creato dall’opera, un vero altro mondo. Si spalanca allora un’immensa profondità che cancella muri, scaccia le presenze contingenti, compie il miracolo dello spazio indicibile” (p. 108). Qualcosa oltre la contingenza, oltre il finito e le sue misure vede la luce in chi entra in sintonia con ‘il mondo’ posto in essere da un’architettura. Indicibile ma percepibile perché reale, esso non si svela a tutti, poiché non ha automatica evidenza.
Spesso ho registrato l’identificazione tra indicibile e sacro senza mediazioni; io mi chiedo invece se il grande svizzero non si riferisca con quest’aggettivo alla forza delle immagini, al loro potere rivelativo di realtà altrimenti, vale a dire con parole e concetti, non dicibili. Fin dalla prima giovinezza Le Corbusier ne visse la spasmodica ricerca e le colse con straordinaria intensità, come raccontò nei reportages dei viaggi che compongono Le voyage d’Orient (5), pubblicato poco dopo la sua morte, nel 1966, e che lessi affascinata nel 1974, in prima edizione italiana. L’immaginazione è capacità umana esercitata come modo di vedere il mondo reale oppure come rappresentazione di qualcosa che ancora non esiste; è fondamentale dato antropologico, talento che artisti in campi diversi ed architetti di alta levatura possiedono ad un grado eccelso per dote di natura ma anche grazie al proprio impegno. Può sfociare nell’esperienza del sacro in stretta correlazione con qualità formali e spaziali, dunque estetiche, di un’architettura. Giustamente di recente il domenicano Timothy Radcliffe(6) ha segnalato l’urgenza di un diffuso esercizio dell’immaginazione in ambito religioso, auspicando un suo moto controcorrente di matrice cristiana nei confronti di tutta la realtà. La differenza che introduco non mi pare di poco conto.
Torno qui, più avanti, su Le Corbusier; proseguo ora nell’esplorazione della casistica del libro. Tra le molte chiese parrocchiali cattoliche vagliate dall’architetto ne segnalo cinque. In primo luogo, richiamo quella romana di Richard Meier dedicata a Dio Padre Misericordioso, del 1995-2003. Botta ne riconosce la qualità eccezionale per il linguaggio chiaro e rigoroso, non condivide però le “acrobazie costruttive […] eccessive in rapporto alle dimensioni di una chiesa di quartiere” messe in campo dalle imprese esecutive, anche perché oltretutto, precisa, un edificio di questo tipo ha sempre un budget limitato (p. 100). Inoltre, approfondendo criteri di cultura europea e cristiana, si chiede: ”[…] dov’è il grande passato di una storia millenaria? Nella contemporaneità non esiste un territorio della memoria? Si può oggi costruire una chiesa come se fosse un oggetto autoreferenziale? Quale significato assegnare ad un sagrato ridotto ad una piattaforma espositiva che si estende fino ai confini di proprietà dove - impietosi - si affacciano i condomini che dominano l’intorno?” (p. 101). Il giudizio implicito sulla committenza è impietoso ma lucido. Così lo interpreto: indifferente al difficile contesto urbano che la circonda, questa chiesa non evoca l’identità della comunità ecclesiale romana dalla storia millenaria, le è anzi completamente indifferente nella propria autoreferenzialità. É bella, ma estranea al contesto e straniante.
Condivido pienamente il suo entusiasmo per la chiesa parrocchiale del Gesù a Donostia-San Sebastiàn (Spagna) del 2004-2011, di Rafael Moneo. Connessa con varie funzioni parrocchiali in una “dualità volumetrica grazie alla quale differenti geometrie generano immagini distinte” (p. 116), essa dialoga positivamente con il contesto circostante. Botta offre inoltre un prezioso richiamo alle chiese tradizionali - è notevole questa precisazione sul piano storico critico - che presentano “nell’intradosso della copertura l’impronta planimetrica della croce latina” (p. 117). La permanenza non stilistica ma compositiva di questo dato del comporre nello spazio è esaltata dalla presenza perimetrale della luce zenitale che lo evidenzia.
Sollecitato dalla sapienza costruttiva di Moneo, l’architetto svizzero appunta qui una riflessione di carattere generale: “Siamo convinti - scrive - che queste nostre pagine, che presentano chiese e cappelle come testimonianze della cultura moderna e contemporanea, portano con sé anche la consapevolezza degli aspetti fondativi dell’architettura e dei valori insisti in questo nostro mestiere. Attraverso il - assente nei miliardi di metri cubi costruiti ai tempi della globalizzazione - la storia dell’architettura ecclesiale si segnala per importanti conquiste di qualità anche nel nostro tempo” (p. 117). Pare di cogliere l’affiorare qui di una sintonia simpatetica con l’intenzione originaria della costellazione di chiese cristiane, vastissima tuttora e in crescita nel mondo, per parrocchie e diocesi: sacri contrassegni nel territorio, esse portano con sé l’identificazione di principi e valori fondativi del costruire nei suoi modi più alti e più professionalmente qualificati.
Per altre due chiese l’attenzione di Botta mette in luce la logica del comporre complessivo in senso stretto. Quella romana di San Corbiniano del 2008-2011, di Umberto Riva, è valorizzata per la sua “netta contrapposizione rispetto ai modi di comporre della modernità che, in massima parte, procedono da un’idea d’insieme dell’impianto urbano per delinearsi, poi, nelle varie componenti” (p. 122). In essa, invece, il progettista, dotato di grande sapienza artigianale, scompone; progetta cioè per parti funzionali, ognuna fissata nella propria peculiarità, sorprendendo il fruitore. Mancano purtroppo puntuali considerazioni sulla singolarità dello spazio ecclesiale, affidate ad una eventuale verifica personale de visu del lettore. Magistrale dono alla nostra contemporaneità – e “c'è da augurarsi che lo sia anche per le commissioni liturgiche o di che gravitano attorno ai problemi degli edifici di culto” (p. 158) - è per Botta la chiesa del 2018 dedicata al Beato Padre Rupert Mayer, a Poing in Baviera. In essa, opera “di grande forza espressiva” del giovane architetto Andreas Meck prematuramente scomparso, si attua in estrema essenzialità l’armonico comporsi tra innovazione liturgica post-conciliare e moderna qualità architettonica. Anche in questo caso il principio compositivo è affermato ma non criticamente evidenziato.
Emerge invece qui in evidenza di giudizio il tema che mi interessa mettere a fuoco perché sottende tutto l’argomentare dell’autore del libro che scrive: “Il tema dell’equilibrio fra lo spazio liturgico, necessariamente chiamato a seguire le trasformazioni sociali, e la qualità dello spazio architettonico dell’edificio è stato il problema e nel contempo l’enigma centrale, il confronto-scontro attorno al quale si sono cimentati molti architetti. Dai primi esempi paleocristiani fino alle disposizioni del Concilio Vaticano II, la dualità fra lo spazio architettonico del tempio (luogo simbolico di culto per la polis) e quello auspicato, invece, per favorire una liturgia sempre più partecipata rappresenta una sfida costante che accompagna i linguaggi espressivi - gli stili - lungo lo scorrere della storia. La cultura moderna, soprattutto in Germania, in primis con il pensiero di Guardini e Schwarz, ha fatto certamente la sua parte, favorita anche dalla semplificazione del linguaggio razionale adottato. Ma, se osserviamo molte delle chiese costruite nei decenni scorsi, oggi emergono, forse ancor più che in passato, incertezze e disinvolte approssimazioni nelle quali prevale di volta in volta la qualità dello spazio architettonico o, viceversa, l’organizzazione della funzione liturgica. In questi esempi, in realtà, l’espressione del linguaggio architettonico e l’ordine liturgico sono affrontati separatamente. Spesso perfino negli esempi eccelsi, nei quali la qualità del linguaggio adottato è indiscussa — basti pensare ad Aalto, Michelucci, Le Corbusier, Utzon o Böhm - la soluzione liturgica si configura come servizio in qualche modo subordinato al Diktat dell’architettura: le due componenti non riescono a interagire tra loro e ad arricchirsi reciprocamente” (p. 158).
La lunga citazione merita di essere considerata in tutta la sua articolazione. Precedentemente nel libro l’autore aveva richiamato, tra le opere del tedesco Rudolf Schwarz, sia la Cappella e Sala dei Cavalieri del Castello di Rothenfels, del 1927-1928, sia la chiesa di Sant’Anna a Düren, del 1951-1956. Nel “sodalizio” tra Schwarz e il teologo Romano Guardini aveva colto l’emergere chiaro di “un nuovo rapporto tra liturgia e architettura” che aveva dato luogo a modifiche delle tipologie ecclesiali tradizionali “con spazi e comportamenti capaci di interpretare i valori più profondi dell’incontro assembleare”. Di Schwarz, “indiscussa figura di riferimento per pensieri e interpretazioni sull’architettura del sacro”, aveva evidenziato la fiducia nella forza delle immagini.
L’argomento così sinteticamente sollevato non può essere discusso in poche righe o pagine: è tema sia della novità delle chiese ‘moderne e contemporanee’ di contesto cristiano, particolarmente vivace in quello cattolico, sia della continuità d’utilizzo di quelle preesistenti, anche antiche, con esigenze inevitabili di modifiche per l’attuale vivibilità. Tema dunque di nuovi progetti e di modifiche di architetture d’altri tempi tuttora in uso. Argomento di enorme portata, al quale si collega la cultura artistica e abitativa, urbana e non della civiltà occidentale, europea ma non solo; è questione identitaria drammaticamente imperdibile. Se colgo il senso della pagina che ho trascritto, essa vale come sintetico bilancio della storia di almeno un secolo in un giudizio che ha il sapore di una sfida. In prima battuta, mi è inevitabile chiedere: dopo la segnalazione della sintesi tra architettura e liturgia raggiunta dall’architetto Meck, non era più che plausibile attendersi una qualche chiarificazione anche su valore e senso della liturgia chiamata positivamente in causa?
La sfida merita comunque l’organizzazione di un importante convegno internazionale. Per cenni, propongo qui solo alcune puntualizzazioni che mi stanno a cuore. In primo luogo ritengo che la dualità liturgia/architettura(7) costituisca un principio positivo non eliminabile: ambedue riguardano certamente una medesima realtà - la vita sacramentale, in spazi e tempi liturgici dotati di propria istituzionale obiettività, delle comunità cui sono destinate le costruzioni, nuove o antiche - ma rimandano ad ambiti disciplinari distinti ai quali va riconosciuta paritetica dignità come, nell’ormai lontano 1982, affermò Giovanni Paolo II(8). Il percorso dell’armonizzazione, in un reciproco influsso e infine sintesi, non è certo facile ma è l’obiettivo cui mirare. Il dialogo tra architetti e liturgisti ai fini della comprensione dell’unico scopo è fondamentale. Da architetto, io stessa ho vissuto spesso un notevole disagio nel paragone con molti liturgisti, coinvolti in conflitti di interpretazione, spesso aspri. Mi sono parsi inoltre per lo più, a parte rare eccezioni, indifferenti all’interazione delle concrete relazioni spazio temporali che i riti instaurano e che l’architetto deve saper riconoscere, interpretare - funzionalmente e simbolicamente - secondo un ordine immaginativo proprio, senza dissonanze con l’assetto ereditato nel caso di un intervento di adeguamento in chiese preesistenti.
È diffusa inoltre, non solo tra loro ma anche fra gli architetti che si concepiscono demiurghi, la strana convinzione che un’architettura possa possedere nell’immediato della sua costruzione la consistenza di luogo, che la rende ogni volta fattore di appartenenza. Invece, come disse Giancarlo De Carlo ad una giornalista, “per un architetto il problema di progettare e costruire gli involucri dei suoi spazi è a breve termine, ma invece è a lungo termine il problema di realizzare la trasformazione degli spazi in luoghi. Per di più, non dipende solo da lui. Il prendere vita degli spazi, il loro diventare luoghi, e cioè riempirsi di vita, è lungo. È come lo sviluppo degli alberi che crescono ed entrano a far parte della natura”(9). Non enigma ma vita nella sua complessità, nelle sue contraddizioni e non solo nei suoi esiti di grande qualità, documenta la storia delle chiese dal paleocristiano ad oggi. Né la liturgia cattolica né l’architettura di chiese, inoltre, è, fortunatamente, solo problema degli specialisti di ognuno dei due ambiti. Conta, deve contare anche il ‘sentire’ lo spazio più diffuso, meno specialistico, avendo l’edificio chiesa carattere eminentemente comunitario.
Nel suo breve bilancio, l’architetto Botta individua un unico momento di riuscita del connubio tra architettura e liturgia nell’esperimento tedesco, in particolare nel sodalizio tra Guardini e Schwarz degli anni venti del secolo scorso. Sono tornata in più occasioni sulle peculiarità che legano il filosofo italo tedesco e l’architetto di dodici anni più giovane di lui, suo allievo dapprima nel gruppo dei Quickborn che si ritrovavano al castello di Rothenfeld, successivamente suo collaboratore e architetto responsabile del riordino di questa loro sede fino al 1933, quando venne chiusa per ordine del regime nazista. Ognuno dei due lascia una propria, distinta eredità che molti indizi - dalla continuità di studi a richiami attuali, a mutazioni storiografiche in corso - segnalano tuttora operante, ben al di là di tendenze formali d’epoca. Soprattutto emerge da entrambi, ma con accenti non del tutto coincidenti, il volto di un secolo ben diverso da quello che racconta la manualistica dell’architettura moderna. Per quanto qui interessa, l’eredità del primo è accessibile in due piccoli volumi: Formazione liturgica del 1923 e La fine dell’epoca moderna del 1950, assertivo l’uno della formazione, nella liturgia cattolica, di una coscienza comunitaria capace di opporsi alla pagana religiosità stimolata dal nazismo; l’altro della fine della grande avventura umanistica moderna, in un’Europa sempre più indifferente alle radici cristiane. La storia dell’architettura del XX secolo, così come è narrata nei manuali, è stata a lungo invece e in gran parte lo è ancora, narrazione troppo esclusivamente celebrativa di una grande epopea costruttiva internazionale e tecnologica, di cui oggi raccogliamo i molti esiti problematici.
D’altro canto l’eredità di Schwarz nella sua ampia sperimentazione di edifici per il culto, guidata da un pensiero ancorato alla cultura mistica tedesca e pertanto distinto da quello di matrice latina di Guardini, risulta tuttavia consonante con lui nel porre al centro dell’attenzione la vita di comunione cristiana con genesi nel rito cattolico. Da parte sua l’architetto propone, secondo una articolazione teorico-pratica ancora tutta da comprendere, sette ‘matrici’ di progetto: sacro anello, anello aperto, calice luminoso, , cammino, calice oscuro, volta luminosa, intero; sei hanno il valore di ‘semi’ storici di forme (l’ultima invece è sintesi che le trascende), nelle quali la vita di comunione “viene portata avanti […] Tramandata in mille modi, ma sempre con amore vivo… [non in una] dottrina che si impanchi a insegnare la forma, senza scintilla incandescente, [che] rimane vuota e lascia freddi”(10).
Torno infine su Le Corbusier e Ronchamp. Nel progetto della cappella l’architetto non fu certo indifferente alla liturgia cattolica. Ne aveva talmente chiara la rilevanza d’avere, come è noto, dapprima rifiutato decisamente l’incarico; lo accettò in seconda battuta perché invitato caldamente ad assumerlo da chi riteneva che l’architettura contemporanea, non ancora genialmente sperimentata in questo tema, avesse però qualcosa di essenziale da dire alla stessa liturgia e suo tramite. Per i rapporti con la committenza, la Commissione d’arte sacra di Besançon, rimando alla vivace e a tratti divertente ricostruzione filologica elaborata da Françoise Caussé(11). Da parte mia ho vissuto nella prima e nelle successive visite a Ronchamp una felicità di cui ho trovato autorevolissima corrispondenza nel teologo Han Urs Von Balthasar che scrisse nel 1958: “Ronchamp: perché è diventata un segno così importante per noi […]? Da dove viene tanta gioia e speranza in Ronchamp? - le due parole definiscono il centro dell’evento […], se questo spazio serve alla liturgia in tutto il suo svolgimento, allora questa costruzione, illuminatrice dell’ingegno umano, non finirà per incontrare un altro spirito che alleggia, quello dello Spirito Santo? […]”(12).
Si è accesa in Notre-Dame du Haut una scintilla di genio che porta felicità. Sono convinta che l’insieme delle immagini che hanno generato questa cappella e quelle che a sua volta essa può provocare in chi la frequenta e la abita orienta verso un senso del sacro cristiano che ha propria singolarità espressiva di unicum, come accade nel caso di opere che sorprendono, anche in visite ripetute, per una loro densità e ricchezza che chiamiamo in sintesi bellezza.
Analoga felicità, con percezioni emotive e riverberi immaginativi ogni volta diversi, nuovi e a modo loro unici, mi è capitato di vivere in altre occasioni, in casi citati da Mario Botta e in altri, ad esempio per la cappella di Santa Coloma de Cervellò di Antoni Gaudì, indispensabile per comprendere la basilica della Sagrada Familia, o per qualche chiesa di Gio Ponti, in particolare per quella del ligure Carmelo al Bonmoschetto presso San Remo e per la grande cappella e chiesa parrocchiale del milanese Ospedale di San Carlo, o ancora per il complesso parrocchiale milanese dei Santi Giovanni Battista e Paolo di Luigi Figini e Gino Pollini, e per altri ancora. Una sintesi di architettura e liturgia è dunque accaduta in ambito cattolico nel corso del XX secolo. Occorre prenderne atto, come fatto possibile seppur non meccanicamente programmabile.
Torno, infine, ancora al libro di Botta, per ricordare il tema affrontato con grande attenzione e sensibilità delle cappelle per soste di meditazione e silenzio, costruite numerose dall’inizio del nuovo millennio, in gran parte in aree extraurbane, ognuna spesso “occasione propizia per la sperimentazione di linguaggi, atteggiamenti e rischi professionali che, per una normale committenza, risulterebbero proibitivi” (p.153). Isolate in aree verdi o boscose sono: la cappella dedicata a Bruder Klaus (San Nicolao della Flüe) del 2001-2007 di Peter Zumthor, che genialmente “trasla al linguaggio architettonico le ricerche artistiche […] proprie dell’Arte povera” (p. 111); quella colta e raffinata del 2008-2009 di Cristian Undurraga nel Parco del convento dei Carmelitani di Auco in Cile, “grande scultura priva di segni tecnici o di infrastrutture che indichino uno spazio abitabile” (p. 120); di Nicolàs Campodonico quella dedicata a San Bernardo a La Payosa nella pampa argentina, del 2010-2015, scrigno dalle forme simboliche che consente di “percepire, pur nella fragilità del nostro territorio di memoria, l’eco lontana di una meravigliosa eredità secolare” (p. 141); quella minuscola, per dodici persone soltanto ma con articolazione di presbiterio e aula, con la stessa dedicazione della precedente, a Solgenreute in Austria del 2016, di Bernando Bader; le due scultoree cappelle in Baviera: una di John Pawson, del 2017-2018 a Unterliezheim, e l’altra del 2017-2021 di Wilhelm Huber, allineata con altre sei lungo un percorso ciclabile e illuminata da luce zenitale blu dal tetto lucernario. Infine, commovente nella sua semplicità è la cappella del ponte Cabbiera in Canton Ticino realizzata nel 2019 da Martino Pedrozzi con tetto a lamiera piegata ed esili sostegni, uno dei quali inciso da un minuscolo crocifisso, su una piattaforma rocciosa.
Nel cuore della città di Helsinki è invece la luterana Cappella del Silenzio del gruppo K2S Architects del 2010-2012, plastica e forte presenza urbana che irradia “sentimenti primordiali di raccoglimento e protezione” (p. 129). Esperimento di un’architettura entro un’architettura più grande è la cappella dell’Albero della Vita, del 2010 nell’atrio del seminario di Santiago a Braga, dei Cerejeira Fontes Architects, un prefabbricato in legno autonomo, spunto per ulteriori ricerche.
La tradizione ci ha consegnato, accanto a cappelle per lo più internamente affrescate, crocifissi coperti da piccoli tetti e viae crucis in edicole, anche minuscole. Prevaleva in esse un racconto che nella figurazione richiamava il messaggio del Salvatore. Domina invece oggi, senza contraddire la tradizione poiché le figure possono essere ancora presenti, la ricerca di uno spazio intimo che isoli per qualche istante dal paesaggio, anche il più meraviglioso e che nasce, forse, dal bisogno umanissimo di ritrovare sé stessi in un mondo lacerato da contrasti violenti.
Il lungo e vasto viaggio che l’architetto Mario Botta ha tracciato nel suo libro approda qui provvisoriamente, in un arco tematico che va dal tempio della Sagrada Familia alla cappella sul ponte Cabbiera, tra due apax di intensità espressiva che non tollerano graduatorie. Ne ho tratto un’occasione di dialogo, una delle molte possibili, con il suo metodo: un atteggiamento valutativo nei confronti delle architetture contemporanee ancorato con chiarezza ragionata alla evidente passione per il proprio mestiere. Il metodo, seppur da ampliare anche alla dimensione liturgica come ho scritto, mi è parso fin d’ora un bene raro ai nostri giorni, svolto su temi ancora essenziali per molti e purtroppo non più avvertiti come tali da tutti.
Maria Antonietta Crippa
Note 1) M. Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino, 1973, p. 14. 2) Ivi, p. 14-15. 3) M. Botta, Il cielo in terra. Un secolo di chiese e cappelle nell’architettura moderna e contemporanea, Libri Scheiwiller, Milano, 2023. Il libro è introdotto dal saggio Un Baedeker per il nuovo millennio, di F. Irace; comprende anche una sezione su I luoghi di culto di Mario Botta, introdotta da Costruire una chiesa oggi di A. Coppa. Le dizioni moderno e contemporaneo, usualmente accostate in Botta e in molti architetti, indicano: il primo l’architettura prodotta nell’alveo del ‘Movimento moderno’ nel periodo tra le due guerre mondiali del XX secolo; il secondo quella della seconda metà dello stesso secolo in continuità con tale Movimento, coinvolgendo anche costruzioni attuali dei primi decenni del XXI. Per ragioni di principio, in questo orizzonte interpretativo non viene mai utilizzato il termine post-modernità. 4) Le Corbusier, Precisazioni sullo stato attuale dell’architettura e dell’urbanistica, a cura di F. Tentori, Laterza, Bari 1979, pp. 14-15. 5) Le Corbusier, Le voyage d’Orient, Forces vives, Paris, 1966, éd. orig.; Le Corbusier - Charles-Edouard Jeanneret, Il viaggio d'Oriente, a cura di G. Gresleri e J. Oubrerie, Faenza editrice, Imola, 1974. 6) T. Radcliffe, Accendere l’immaginazione. Essere vivi in Dio, Emi, Verona 2021 (ed. orig. 2019). 7) Sarebbe necessario arricchire questa dualità con la componente iconografica/iconologica, di ricchezza straordinaria nella storia ma il tema esulerebbe dal taglio che l’architetto Botta ha dato alla propria indagine, richiederebbe inoltre non poco spazio. 8) Affermò il papa: “Poiché la ragione può cogliere l’unità che lega il mondo e la verità alla loro origine solo all’interno di modi parziali di conoscenza, ogni singola scienza – comprese la filosofia e la teologia – rimane un tentativo limitato che può cogliere l’unità complessa della verità unicamente nella diversità, vale a dire all’interno di un intreccio di saperi aperti e complementari”. Discorso di Giovanni Paolo II ai docenti universitari a San Domenico, Bologna, 18.4.1982, https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1982/april/documents/hf_jp-ii_spe_19820418_docenti-universitari.html 9) S. Dolciami Crinella, Dalla città del silenzio. Conversando con Carlo Bo, Mario Luzi, Giancarlo De Carlo, Quattro Venti, Urbino, 1997, p. 35. 10) R. Schwarz, Costruire la chiesa. Il senso liturgico nell’architettura sacra, a cura di R. Masiero e F. De Favero, Morcelliana, Brescia, 1999 (ed. orig. Tedesca 1947), p. 243. 11) F. Caussé, Il progetto, la genesi, i committenti, in: M. A. Crippa (a cura di), Le Corbusier. Ronchamp. La cappella di Notre-Dame du Haut, Jaca Book, Milano 2014, pp. 17-39. 12) M. A. Crippa (a cura di), Le Corbusier. Ronchamp. Cit., per il testo completo, pp. 14-15.
N.d.C. - Maria Antonietta Crippa, architetto, già professore ordinario di Storia dell'architettura al Politecnico di Milano, è stata attiva anche nel campo della conservazione e del restauro di edifici antichi e moderni, dirige la collana Fonti e saggi edita da Jaca Book, l'Istituto per la Storia dell'Arte Lombarda e la "Rivista dell'Istituto per la storia dell'Arte lombarda".
Tra i suoi libri: Carlo Scarpa. Il pensiero, il disegno, i progetti (Jaca Book, 1984); Storia dell'architettura. Il mondo delle costruzioni e le sue immagini (Jaca Book, 1992); Storie e storiografia dell'architettura dell'Ottocento (Jaca Book, 1994); Luigi Caccia Dominioni. Flussi, spazi e architettura (Testo & immagine, 1996); Cremona. il Museo civico Ala Ponzone in Palazzo Affaitati. Il contributo museografico di Antonio Piva (Electa, 2001); Antoni Gaudí, 1852-1926. De la nature à l'architecture (Taschen, 2003; ed. it. 2004, 2007, 2015); con C. Capponi, (a cura di), Gio Ponti e l'architettura sacra. Finestre aperte sulla natura, sul mistero, su Dio (Pizzi, 2005); con D. Cattaneo (a cura di), È Dio il vero tema. Cesare Cattaneo e il sacro (Archivio Cattaneo, 2011); con C. Ajroldi, G. Doti, L. Guardamagna, C. Lenza, M. L. Neri (a cura di), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento (Mondadori Electa, 2013); con Françoise Caussé, Le Corbusier, Ronchamp. La Cappella di Notre-Dame du Haut (Jaca Book, 2014); Avvicinamento alla storia dell'architettura. Racconto, costruzioni, immagini (Jaca Book, 2016); con F. Zanzottera (a cura di), Fotografia per l'architettura del XX secolo in Italia (Silvana Ed., 2018); a cura di, Antoni Gaudì. Paesaggio come dimora. Progetti di un dialogo tra natura e architettura; fotografie di Marc Llimargas (Jaca Book, 2018); a cura di, Padre Costantino Ruggeri. Artista francescano (Silvana Ed., 2019); a cura di, Italia dall'alto. Storia dell'arte e del paesaggio, fotografie di BAMSphoto Rodella (Jaca Book, 2020); con Piero Cimbolli Spagnesi, Ferdinando Zanzottera, a cura di, Arturo Danusso e il suo tempo. Intuito e scienza nell'arte del costruire (Quasar, 2020); a cura di, Eugène Viollet-le-Duc, Conversazioni sull'architettura. Selezione e presentazione di alcuni Entretiens (Jaca Book, 2021); Antoni Gaudì / Eladio Dieste. Semi di creatività nei sistemi geometrici (Torri del vento, 2022); Gaudì, la Sagrada Familia. Sfide di un cantiere in corso d'opera (Jaca Book, 2022).
Per Città Bene Comune ha scritto: Uno scatto di 'coscienza storica' per le città (20 ottobre 2017); Chiese e città: un tema non solo storiografico (16 novembre 2018); Culto e cultura: una relazione complessa (11 marzo 2022), Il paesaggio (in Sicilia) è sacro (6 ottobre 2023).
Sui libri Maria Antonietta Crippa, v. in questa rubrica: Maddalena d'Alfonso, La fotografia come critica e progetto (5 aprile 2019); Giorgio Azzoni, Per un’etica della forma architettonica (1 settembre 2023).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
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