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POLITICHE ABITATIVE E GOVERNO URBANO
Commento al libro di Anna Laura Palazzo
Bertrando Bonfantini
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È passato più di un anno da quando Orizzonti dell'America urbana. Scenari politiche progetti (Roma Tre Press, 2022) è stato discusso nel ciclo di quattro appuntamenti di Città Bene Comune del maggio 2023. Nel frattempo, l’autrice, Anna Laura Palazzo, con Antonio Cappuccitti, ha dato alle stampe un altro volume: Rigenerazione urbana. Sfide e strategie (Carocci, Roma, 2024). Tuttavia, nel riprendere la discussione su Orizzonti dall’America urbana, la prima osservazione da cui vorrei partire è relativa al titolo. Titolo che non dice che questo è un libro sulla casa e sulle politiche abitative. Lo scopriamo piuttosto dalla quarta di copertina (su cui tornerò più avanti). E lo scopriamo dalla pagina di prefazione in cui Giorgio Piccinato staglia icasticamente un ritratto essenziale dell’ideologia statunitense, riassunta nel generale sentimento antiurbano e nella percezione del planning come attività sostanzialmente antiamericana, volta a restringere le libertà fondamentali dell’individuo. Quindi conclude la sua nota dicendoci che “in questo quadro s’inserisce la vicenda appassionata e appassionante delle politiche dell’abitazione, così ben illustrate nel testo” di Anna Laura Palazzo (p. 7).
Quali, allora, le ragioni di un titolo che può apparire astinente? Avanzo due risposte possibili. La prima: perché le politiche abitative a tal punto hanno costituito e costituiscono il fuoco dell’azione pubblica sulla città da diventare rappresentative dell’agenda urbana tout court – e non una sua dimensione settoriale. La seconda: perché in realtà il libro non si occupa solo di questo, ma semmai usa le politiche per la casa per indagare i modi e le forme evolutive del governo della trasformazione urbana – come appare sempre più evidente procedendo nella lettura attraverso le pagine, e in particolare quando il libro si inoltra nei casi di San Diego (capitolo 3) e Boston (capitolo 4).
Il primo capitolo ha i caratteri sostanziali di una ricostruzione storica delle politiche di settore per la casa negli Stati Uniti – per far fronte all’urgenza e sofferenza abitativa –, nelle diverse fasi e in relazione ai diversi orientamenti politici dei presidenti e dei governi federali. Riprende, completa e discute una periodizzazione in Early, Modern e Post-Modern Era in una tanto asciutta quanto densa cronaca di atti e provvedimenti che si distribuiscono sul lungo periodo e che portano dagli anni ’30 del secolo scorso fino ad oggi. Gli aspetti principali che mi pare vadano evidenziati sono – in un processo di devoluzione progressiva – il ruolo e i modi di interazione del governo centrale con gli stati e i soggetti istituzionali di governo locale nella strutturazione delle misure a sostegno dell’abitazione.
Il secondo capitolo ha invece carattere geografico: circa le forme insediative tipiche del paesaggio urbano americano e le geografie del disagio abitativo. Rispetto a queste seconde – insieme con la distribuzione territoriale del disagio – vengono discussi i modi per valutarlo nel raffronto tra reddito e costi dell’alloggio (acquisto e affitto), ma soprattutto nella combinazione di questi ultimi coi costi di trasporto per nucleo familiare (housing+transport), un nesso che parla in particolare della situazione statunitense e la caratterizza (con il commuting che ne costituisce tipicamente condizione e cifra). Rispetto alle prime – le forme del fenomeno insediativo statunitense e il suo lessico – sono oggetto di discussione la terna urbano-suburbano-rurale, la tassonomia primary downtown/secondary downtown/edge city/edgeless city, le nozioni di area metropolitana e micropolitana, di urbanized area e urban cluster. Ma soprattutto, in questa sorta di vocabolario propedeutico alla comprensione della specificità del caso statunitense, si introduce “la nozione stratificata di Community, intraducibile nel contesto europeo, […] correntemente utilizzata sia con riferimento alle varie ripartizioni dei poteri locali che ad aggregazioni strutturate presenti in molteplici forme di associazionismo alla scala di quartiere (Neighborhood)”. Nozione che individua questa entità e ne “sottolinea l’importanza […] come soggetto collettivo, dilatandone prerogative e responsabilità nei riguardi di azioni di autopromozione e sviluppo” (p. 27).
Il terzo capitolo mette a fuoco quello che rappresenta un punto di svolta nelle politiche della casa, ma più in generale nel governo urbano – e, a mio avviso, un punto di svolta anche del libro – con la nuova centralità (dagli anni ’70) attribuita al community planning, al partenariato pubblico-privato e alle community development corporations (CDC): “organizzazioni non-profit generalmente radicate localmente in attività di supporto allo sviluppo delle comunità, formazione al lavoro, erogazione di attrezzature e servizi, promozione immobiliare o riabilitazione del patrimonio abitativo per famiglie a basso reddito, convogliando i finanziamenti di fondazioni, imprese, banche, università, organizzazioni di volontariato” (p. 51). Una centralità che viene esemplificata attraverso alcune esperienze a San Diego. Quindi: dalle politiche abitative e dal modo di dare loro forma, in questi primi capitoli il discorso si è ampliato progressivamente al senso e al protagonismo del community planning e di questo come fulcro di un’azione di governo fondata su partnership pubblico-privato (corporations) radicate e rappresentative di contesti locali di ‘quartiere’.
Col quarto capitolo, monografico su Boston, il fuoco del discorso si sposta definitivamente dalle politiche abitative agli strumenti e politiche di trasformazione urbana. Se nella prima parte la discussione del ruolo e delle forme del community planning mettono in dialogo e raffronto questo capitolo col precedente su San Diego, la parte finale – dedicata alla Greenway District Planning Initiative – si concentra piuttosto sui modi – tra norma, forma e processo – con cui dare corpo a un imponente progetto di ricucitura urbana per effetto dell’interramento di una grande infrastruttura viaria – la Central Artery di attraversamento della città.
Torno, ora, alla quarta di copertina da cui ero partito all’inizio di questo commento, e di cui seleziono queste tre affermazioni, che fissano passaggi essenziali dell’argomentazione sviluppata nel volume. La prima: “Negli Stati Uniti, l’aspirazione alla casa […] si è prestata a una narrazione collettiva bypartisan alimentata per quasi un secolo dalle politiche federali in sostegno allo affordable housing e a programmi di sviluppo locale con l’apporto di reti multiattoriali pubbliche e del privato economico e sociale”. La seconda: “È nella cornice della quotidianità urbana che trattiene i termini evocativi originari del patto di solidarietà [della nazione] che si delineano, talvolta in forme radicali, le principali modalità di rappresentazione identitaria del gruppo di appartenenza”. La terza: “Termini come empowerment, inclusiveness, capacity building, sono comunque espressivi del lavoro sulle comunità e con le comunità nella triangolazione tra politiche della casa, misure per l’occupazione e forme di sostegno all’impresa”.
Vorrei concludere con tre riflessioni, necessariamente cortocircuitate, che questo libro in qualche modo mi hanno suscitato: sulla casa, sul community planning, sulle trasformazioni urbane.
Sulla casa – Il libro si sofferma sull’irrompere e sulla diffusione progressiva di azioni che trovano il loro tratto distintivo in forme collaborative e partenariali nella produzione di quello che – trasferito nel nostro contesto italiano ed europeo – abbiamo imparato a denominare con la locuzione di “social housing”. E questo spesso in sinergia o accostamento con altre manifestazioni della cosiddetta innovazione sociale e urbana.
Tuttavia (e tornando più specificamente alla casa), nello scenario evolutivo di queste formule variamente “terzo-settoriali” si è determinato che già nei primi anni 2000 “una buona fetta dei programmi e dei finanziamenti più recenti [sia stata] destinata all’utenza cosiddetta intermedia (nella fattispecie a canone d’affitto moderato, convenzionato, a proprietà differita ecc.)” (Edoardo Marini in Aa.Vv., Cronache dell’abitare, 2007: 290). Nell’innovazione, insomma, si determina il paradosso per cui la nuova produzione di forme abitative “sociali” vede per lo più esclusi dai suoi destinatari proprio coloro che ne rappresenterebbero l’obiettivo prioritario – il segmento di popolazione in più grave difficoltà d’accesso alla casa. “Il caso italiano è esemplare di quel sociale ‘estensivo’ […] – stigmatizza Antonio Tosi (Le case dei poveri, 2017: 87) – che ostacola la selezione della domanda in funzione delle urgenze e della gravità dei problemi”.
Nel meccanismo di produzione dell’housing sociale “la logica della sostenibilità economico-finanziaria è parvasiva e caratterizza il processo in tutte le sue fasi” (Bricocoli, Sabatinelli, in Territorio n. 90/2019: 49). E, d’altra parte, il vincolo e l’illusione del “pareggio di bilancio” inibisce e atrofizza l’orizzonte delle politiche abitative “molto sociali” (secondo la definizione di Tosi), laddove per contro “occorre inevitabilmente prevedere finanziamenti […] per compensare il divario tra costi e ricavi” (Giancarlo Storto, La casa abbandonata, 2018: 192).
A margine, una notazione ulteriore. Spesso si utilizza il titolo di godimento in proprietà della casa (anziché l’affitto) come un indicatore di progresso nella condizione abitativa di un paese (e in qualche modo così avviene anche nel libro di Palazzo, che sottolinea il crescere della percentuale di proprietari nel tempo, a fronte degli affittuari). Se guardiamo all’Italia, nel 1951 il titolo di godimento dell’alloggio era per circa il 49% l’affitto e per il 40% la proprietà (11% altro). Nel 2011 per il 72% dei casi il titolo di godimento è la proprietà, per il 18% l’affitto (per il 10% le altre situazioni). È un progresso, tenendo conto del fatto che in Europa (dati OCSE) il tasso più alto di case in proprietà si registra in Romania (più del 95%), in Ungheria, Estonia, Malta, Polonia, Bulgaria (più dell’%80), e i valori più bassi si registrano in Francia (65%), Danimarca, Austria, Germania (50%), per arrivare al 42% circa della Svizzera? Non si tratta invece di un drenaggio del risparmio che inibisce il dinamismo economico e irrigidisce la mobilità, se non sociale, territoriale, vincolando la popolazione al luogo d’acquisto?
Sul community planning e sull’urbanistica di prossimità – Assistiamo oggi, da qualche anno, a quello che, trasponendo la tagliente espressione utilizzata da Giancarlo De Carlo in un suo famoso saggio (“l’entusiastico canto della fisicità”; in “L’interesse per la città fisica”, 1989), potremmo denominare come una sorta di “canto della prossimità”. In realtà il community planning e la scala di quartiere come dimensioni essenziali del progetto urbanistico non sono una novità. Hanno costituito argomenti dei progetti urbanistici di Ildefonso Cerdà, di Howard, di Clarence Perry, di Forshaw e Abercrombie a Londra, solo per citarne alcuni. Ma in tutti quei casi la declinazione della dimensione di prossimità era solo una di quelle di cui il progetto urbanistico si faceva carico e portatore, con la consapevolezza forte che questo (il progetto) non potesse risolversi in quella (la dimensione di prossimità).
Mi domando se il canto della prossimità non rappresenti una sorta di confinamento (pieno di contraddizioni neoidentitarie) di questioni che dovrebbero trovare risposta a ben altra scala del progetto di città. A me pare uno spazio autoconsolatorio. Il quartiere come metrica della città e del suo progetto costituisce una prospettiva limitante e anche un po’ mistificatoria (almeno in Italia) – non rispondente al vero, ossia non rispondente alla realtà fenomenica della città, nelle sue espressioni fisiche e nelle sue pratiche sociali, con quella assodata – lo era fino a qualche anno fa, prima della pandemia – disconnessione tra spazio e società, nelle pratiche individuali di ciascuno, le quali disegnano geografie multiple dell’abitare contemporaneo e, soprattutto, mettono in discussione il concetto di appartenenza.
Sulle trasformazioni urbane e il loro governo – Insistendo su quanto ora sottolineato, il cortile della prossimità – quello dei “processi people-oriented nella dimensione della prossimità” – mi sembra divenga la camera di espansione (o, meglio, di contenimento) di istanze che invece non trovano spazio e trattamento in quelle che Anna Laura Palazzo denomina invece come le “espressioni di modernità trionfante delle élite urbane che si rappresentano a tutt’altra scala” (dalla quarta di copertina).
Processi people-oriented nella dimensione della prossimità e, per contro, espressioni di modernità trionfante delle élite urbane che si rappresentano a tutt’altra scala sembrano disegnare due gironi diversi della trasformazione urbana – uno di serie A (il secondo) e uno di serie B (il primo) – da tenere a debita distanza. E, dunque, pur comprendendone bene la ratio e anche la pragmatica efficienza (o, anzi, proprio per questo), mi guarderei dall’assumere questo sistema binario come modello per la trasformazione urbanistica.
Quest’ultima è anche una considerazione circa l’esportabilità – la non esportabilità – di un sistema di governo urbano radicato nella specificità di una cultura, tradizione giuridica e istituzionale locale. E a proposito della lezione che possiamo trarre dalla vicenda che questo libro racconta (aspetto cui Palazzo dedica le pagine conclusive), quella che mi si è fortificata nella lettura è proprio quella della incommensurabilità e specificità contestuale delle diverse situazioni con cui l’urbanistica si confronta, e di quella statunitense tra esse. Una incommensurabile differenza di cui io credo – nonostante la globalizzazione – dovremmo continuare a tener conto.
Bertrando Bonfantini
N.d.C. - Bertrando Bonfantini è professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano dove è stato presidente dei corsi di laurea in Urbanistica e laurea magistrale in Urban Planning and Policy Design. Dirige la rivista “Territorio”, dopo essere stato vicedirettore di “Urbanistica”, rivista dell’Istituto Nazionale di Urbanistica.
Ha partecipato alla redazione dei piani di Bergamo Alta (2002-4) e di Jesi (Ancona, 2003-6). È stato consulente per i due più recenti piani urbanistici generali della città di Bologna (2006-9 e 2018-19).
I suoi temi di ricerca si concentrano sugli strumenti e le tecniche del progetto urbanistico; sulla dimensione cumulativa e diacronica dell’urbanistica come sapere pratico proiettivo; sul progetto urbanistico per la città storica.
Tra i suoi libri: Cultural Heritage Education in the Everyday Landscape. School, Citizenship, Space, and Representation (Springer 2022, con C. Casonato, a cura di); Urban Interstices in Italy: Design Experiences (LetteraVentidue 2021, con I. Forino, a cura di); Dentro l’urbanistica. Ricerca e progetto, tecniche e storia (Franco Angeli 2017); Bologna. Leggere il nuovo piano. Psc+Rue+Poc (Edisai 2009, con F. Evangelisti, a cura di); Bergamo. Piani 1880-2000 (Maggioli 2008); Milano incompiuta. Interpretazioni urbanistiche del mutamento (Franco Angeli 2007, con M. Bolocan Goldstein, a cura di); Piani urbanistici in Italia. Catalogo e documenti dell’Archivio RAPu (Maggioli 2007, con P. Gabellini e G. Paoluzzi); Progetto urbanistico e città esistente. Gli strumenti discreti della regolazione (Clup 2002).
Sui libri di Bertrando Bonfantini, v. in questa rubrica: Gabriele Pasqui, Come parlare di urbanistica oggi, 8 giugno 2017; Andrea Mubi Brighenti, Il fascino discreto dell’interstizio urbano, 27 maggio 2022.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 11 OTTOBRE 2024 |
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