Michela Barzi  
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IL POTERE DEI PARCHI URBANI


Commento al libro di Marco Sioli



Michela Barzi


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Il libro di Marco Sioli, Central Park. Un'isola di libertà (Elèuthera, 2023), oltre a essere un utile compendio di storia degli Stati Uniti d’America dalla fine della guerra civile ai giorni nostri, è un valido spunto di riflessione sul potere che hanno avuto i grandi parchi urbani nel conferire identità alle città in cui sono stati realizzati e delle quali sono una delle più importanti trasformazioni. Central Park, la straordinaria creatura di Frederick Law Olmsted - a sua volta lo straordinario inventore dell'architettura del paesaggio americano - emerge, nel racconto dell’autore, come uno dei luoghi simbolo della democrazia americana. Olmsted, Yeoman del New England rurale, nasce in Connecticut nel 1822. Sono gli anni, ricorda l’autore citando Henry David Thoreau, della rivoluzione agraria che condurrà a quella industriale e alle conseguenti minacce all'integrità ambientale. Per Ralph Waldo Emerson, il maestro di Thoreau, il culto della Natura, titolo del suo libro del 1836, era la via verso il divino che avrebbe accomunato tutti gli americani al di là della condizione culturale e sociale. È Thoreau che fa diventare la natura elemento politico e la wilderness uno strumento della disobbedienza civile allo sviluppo economico e dell’aspirazione alla libertà dell'individuo. Con questi principi Olmsted progetta Central Park, che al tempo del suo piano del 1858 era la terra di mezzo tra il ricco uptown e il downtown degli immigrati europei e degli afroamericani in fuga dal Sud schiavista. Il grande rettangolo del Greensward di Olmsted si inserisce nella griglia su cui si sviluppa Manhattan con l'intento di offrire ai suoi abitanti, in grandissima parte emigrati dal vecchio continente, l'esperienza di una natura selvaggia a loro sconosciuta.

Prima di essere, insieme all'architetto britannico Calvert Vaux, il progettista di Central Park, Olmsted era stato giornalista e scrittore ed è da un viaggio in Inghilterra, riportato nel suo Walks and Talks of an American Farmer in England pubblicato nel 1852, che egli acquisisce alcuni degli elementi trasposti nel progetto elaborato con Vaux. È soprattutto nella terra in cui si afferma la rivoluzione industriale che il parco urbano diventa uno strumento di riforma della crescita urbana e di controllo igienico e sociale delle sue implicazioni. Del Birkenhead Park di Liverpool, il primo parco inglese realizzato con fondi pubblici nel 1847 su progetto di Joseph Paxton (progettista del Crystal Palace) che Olmsted visita nel 1850, egli ammira «il modo in cui l'arte è stata impiegata per ottenere dalla natura una tale bellezza, (...) nella democratica America non vi era niente che fosse comparabile con questo giardino per il popolo». Che la natura e gli scorci paesaggistici del parco potessero essere goduti da tutte le classi sociali è ciò che ispira Olmsted nella progettazione di Central Park, insieme all'adozione di percorsi separati per pedoni e carrozze (Ponte, 1990: 379). Secondo Lewis Mumford il concetto di landscape park incorpora gli elementi del paesaggio del nord America – «le Mammouth Caves del Kentucky, il corso sinuoso del Mississippi, le alte vette delle Montagne Rocciose (...) un prato e poche pecore, o una roccia affiorante con un chiosco di fronte a una macchia di pini» - e fa presa sulla natura romantica dell’americano medio. Tuttavia, il parco non poteva essere visto «come una sorta di «ripensamento» o di semplice aggiunta correttiva in un piano utilitaristico per altri versi conchiuso». Compito del progettista non era quello di riempire con un’area verde un certo numero di isolati nella grigia stradale sulla quale si stava sviluppando la città dal 1811 poiché Il parco è parte integrante della progettazione urbanistica. In quanto fulgida manifestazione di quelle Brown Decades che dalla fine della guerra civile segnano l’eclettico sviluppo architettonico e urbanistico di New York City (frutto dell’aggregazione, nel 1898, dei cinque distretti di Manhattan, Brooklyn, Queens, Bronx e Staten Island), il progetto di Olmsted anticipa l’idea della separazione dei flussi di traffico - veicoli da una parte e pedoni dall’altra - che verrà concretizzato nelle città giardino promosse dalla Regional Planning Association of America di cui Mumford è stato uno dei protagonisti. Per lui questo diventa il più importante lascito di Olmsted.

Ai nostri giorni, nei quartieri residenziali, tali principi essenziali sono stati ulteriormente sviluppati: i migliori urbanisti europei e americani ripropongono la medesima distinzione olmstediana tra traffico su ruota e scorrimento pedonale; in tal maniera Henry Wright ha progettato una città nel New Jersey, Radburn, basata su di un sistema interno di parchi completamente separato dal traffico. Questo progetto contemporaneo non può che contribuire a rafforzare l’ammirazione per le invenzioni di Olmsted: senza dubbio egli fu una delle menti migliori prodotte dai Brown Decades.

Olmsted e Vaux sono i progettisti di Riverside, garden suburb di Chicago che preannuncia l’espansione suburbana attorno alle grandi città americane. «Olmsted aveva creativamente compreso e definito tutti gli elementi interagenti nella pianificazione degli spazi verdi, e in un piano di sviluppo urbano complessivo», aggiunge Mumford implicando che il progetto di Central Park, configurava un principio urbanistico: la funzione del parco «aveva diritto ad esistere in quanto tale, senza bisogno di musei, piste per pattinaggio, teatri, spettacoli o altri armamentari della vita civile» (Mumford, 1977: 78-81). Con Olmsted la figura del giardiniere-paesaggista, che a partire dal XVIII secolo aveva avuto modo di esercitarsi sulle grandi estensioni di terreno dei parchi dell'aristocrazia europea, coincide con quella del pianificatore, che mutua dai suoi predecessori le tecniche di progettazione di vasti ambiti territoriali. Così come la sua opera si è propagata negli altri distretti urbani di New York City, e in generale in altre grandi città americane, allo stesso modo la quantità e la qualità degli spazi verdi pubblici, vera e propria infrastruttura urbana, diventano uno degli indicatori del concetto stesso di grande città in opposizione ai sobborghi dei quali è circondata, dove il verde è solo privato.

Nel racconto di Sioli l'isola verde in cui chiunque poteva sperimentare «a sense of enlarged freedom» (p. 39) è anche uno strumento di mitigazione delle disuguaglianze sociali nella formazione di una metropoli. Alla morte di Olmsted nel 1903 la New York City che noi conosciamo esisteva da soli cinque anni ma ciò che tuttavia già si era affermato era la coscienza di una grande città: non solo il luogo dei moli allungati, delle banchine, delle manifatture, dei depositi di prodotti, per usare le parole di Walt Whitman, ma il posto delle grandi folle di uomini e donne dove cessa la condizione di schiavo e quella di padrone. La wilderness nella città, preesistente la privatizzazione del suolo e l’urbanizzazione dell’isola di Manhattan, custode della sua natura geologica e antropologica (la Mannahatta di quella tribù del popolo Lenape da cui l’isola prende il nome) è uno spazio democratico che ha il potere di preservare il parco dalle numerose minacce alla sua integrità. Molte delle quali sono opera del più famoso tra i commissari cittadini ai parchi, ovvero quel Robert Moses che Jane Jacobs definirà la cosa più vicina a un dittatore che abbia (finora) afflitto New York e il New Jersey. Sioli sottolinea l'aspetto autoritario dell’intervento di Moses sul parco attraverso il racconto della risposta che le sue iniziative hanno avuto soprattutto “dal basso”. Vale la pena richiamare una vicenda in particolare, perché in essa si riassume molto del rapporto con il potere - quello dell'autorità e quello dei cittadini - che un grande parco pubblico è in grado di detenere. Uno dei casi più significativi di opposizione alle iniziative di Robert Moses riguarda la sua proposta dell'aprile del 1956 di costruire un parcheggio su un'area erbosa frequentata da madri e bambini. Anche in presenza di una petizione contraria al progetto, Moses ordina alle ruspe di procedere con la costruzione del parcheggio, suscitando l'indignazione dei residenti che si radunarono per fermarle. Nonostante la protesta e la sua copertura mediatica, Moses inizia i lavori nottetempo ma nel luglio dello stesso anno il Dipartimento dei Parchi annuncia che la costruzione del parcheggio non sarebbe continuata (Caro,1975: 984-1004). Sioli ricorda che da quando Moses era diventato commissario ai parchi su nomina del sindaco Fiorello La Guardia le sue manomissioni della grande isola verde di Manhattan avevano suscitato non poche perplessità e tuttavia la sua fama di costruttore di playground (peraltro a privilegio prevalentemente dei quartieri bianchi) continuava a rappresentare una garanzia di consenso. Consenso che la battaglia con le madri di Central Park erode definitivamente: di lì a qualche anno Moses perderà l’enorme potere che aveva accumulato grazie alle numerose cariche non elettive da lui ricoperte.

 

L'isola di libertà raccontata da Sioli è quindi anche il luogo di grandi manifestazioni, oltre che di concerti e happening: dall’esibizione di Barbra Streisand, nel 1967, alla prima manifestazione contro la guerra del Vietnam, dello stesso anno e al primo Gay Pride del 1970. Tra scarsità di fondi per la manutenzione e iniziative per la sua conservazione, questo «spazio di libertà estesa» nei decenni successivi sarà spesso il luogo simbolo, soprattutto nell'immaginario cinematografico, non solo di Manhattan ma di tutta New York City (a Olmsted e Vaux si deve la progettazione anche di Prospect Park a Brooklyn). Nel 2022, a duecento anni dalla nascita e con un sito internet a lui dedicato, la figura di Olmsted ottiene la notorietà che merita tra i fruitori della sua opera.

Central Park oggi è un esempio di forestazione urbana, un provvedimento di mitigazione dei cambiamenti climatici. Allo stesso modo, oltre un secolo e mezzo fa, è stato una misura di contenimento di tutto ciò che la nascita di una metropoli portava con sé: «problemi sociali, etnici, razziali e di genere», ricorda Sioli (p.155), luogo in cui le classi sociali sono in grado di mescolarsi, perché sta “dove sorge una grande città (where a great city stands)”, per usare le parole di Whitman suo grande estimatore. La visione di Olmsted e di Whitman per Sioli «univa la sfera privata con quella pubblica: immergersi nella natura attraversando Central Park era come entrare in un museo o leggere un libro di poesia». In quanto opera di due testimoni della guerra civile il parco e la poesia sono stati strumenti per la «resurrezione della democrazia ferita dalla guerra fratricida. (...) La gente di Manhattan festeggiava questa democrazia sciamando verso Central Park», i lavoratori del Lower East Side e i borghesi dalle cui abitazioni era possibile vedere la vegetazione del parco.

 

La storia di Central Park ha il merito di portare il lettore a riflettere sulla natura democratica di uno spazio emblematico dell’esperienza urbana contemporanea e in generale su ciò che riguarda il rapporto tra spazio pubblico e democrazia. Tuttavia, se ciò è senz’altro vero per la grande isola verde nel cuore di Manhattan non è detto che a tutte le grandi aree verdi pubbliche possa essere attribuita questa prerogativa. Il King Salman Park, ad esempio, non è soltanto un grandissimo parco urbano ma anche un'operazione di propaganda delle capacità della monarchia saudita, promotrice del progetto, di realizzare qualcosa di imponente in condizioni estreme secondo i principi di sostenibilità ambientale che sarebbero alla base della Saudi Vision 2030. Con una estensione sette e cinque volte quella di Hyde Park e di Central Park, quello che sembra essere il parco urbano più grande del mondo, con una superficie di oltre 16 chilometri quadrati che dal 2019 sta prendendo il posto della base aerea di Riyadh, a ben vedere è anche l'unico parco urbano della capitale saudita, almeno a giudicare dalle mappe di Google. La gestione di grandi aree verdi in un clima come quello della penisola arabica sembra essere impresa assai difficile ed è questo forse il motivo che spiega la quasi totale assenza di verde all'interno della città, la cui impressionante crescita - la sua popolazione in un secolo è passata da poco meno di ventimila abitanti agli oltre sette milioni odierni - deve aver lasciato poco spazio alle aree verdi pubbliche. Il parco però è anche un'operazione immobiliare, come si può evincere da una visita al sito istituzionale, che promuove oltre alla sua realizzazione quella di un nuovo distretto della città. Dimensioni a parte, le differenze tra i due celebri parchi di Londra e New York non si fermano necessariamente agli elementi botanici e alla loro relazione con il contesto ambientale. Anche le conseguenti divergenze stilistiche - da una parte la concezione paesaggistica britannica e la celebrazione della wilderness americana, dall'altra la tradizione dei giardini islamici - non sono ciò che renderà totalmente diverso il King Salman Park dai grandi parchi urbani occidentali. La differenza è, piuttosto, politica e radicata in un'idea di spazio pubblico che rispecchia il modello di società a cui il parco è dedicato. Mentre Hyde Park, con il suo Speakers’ Corner, e Central Park sono luoghi simbolo della libertà di opinione e di manifestazione lo stesso difficilmente si potrà dire del parco di Riyadh, almeno finché la monarchia saudita continuerà a negare questi e altri elementari diritti ai propri cittadini.

Il «parco per il popolo» di Olmsted è stato concepito anche con la funzione di educare coloro a cui è destinato al rispetto e alla cura del bene comune. I poliziotti deputati al suo controllo più che forze dell’ordine erano Keepers, custodi di un suo uso appropriato in cui l’appropriatezza coincide con il rispetto delle prerogative del parco (pp. 47, 49, 59). Le quali, tuttavia, finivano per essere meno ideali di quelle immaginate da Olmsted e legate alla funzione di innalzare e preservare, oltre alla sua integrità, anche i valori immobiliari attorno al suo perimetro (p.109). Qui sta precisamente il potere del titolo di questo contributo: il parco come bene comune e, allo stesso tempo, strumento dell’interesse privato.

L’idea che gli spazi dedicati alla vegetazione, all’aria e alla luce in generale possano cambiare la natura della città è ciò che si trova nella radiosa utopia antiurbana di Le Corbusier. La sua traduzione nell’urban renewal, di cui Moses è stato un fervido sostenitore, è una delle matrici dei disastri documentati da Jane Jacobs in Vita e morte delle grandi città. Oggi l’ipotesi che nelle trasformazioni urbane i parchi possano fungere da argine al dilagare del cemento (il concetto di cementificazione concentra, nell’immaginario collettivo veicolato dai social network, ogni aspetto negativo della condizione urbana contemporanea) è diventato un claim molto popolare che sembra ignorare l’esistenza della proprietà privata e di tutti i diritti ad essa connaturati. Eppure, la discussione che ha preceduto la formazione di Central Park non ha minimamente riguardato il diritto di coloro (afroamericani scappati dalla schiavitù, contadini irlandesi e tedeschi) che abitavano più o meno informalmente i terreni coinvolti (p.25) ma la natura giuridica di questi ultimi in un paese in cui la proprietà privata è inviolabile (Rosenzweig,, Blackmar, 1992: 59-91). Come sia stato possibile raggiungere la forma di contratto sociale che ha permesso a quel parco di continuare ad esistere per più di un secolo e mezzo è qualcosa che coloro che discettano (e persino scrivono) di trasformazioni urbane, spesso più con l’intento di definire uno schieramento ideologico che di ragionare sulla loro essenza, farebbero bene a prendere in considerazione anche grazie alla lettura del libro di Sioli.

Michela Barzi

 

 

Riferimenti bibliografici
Caro R. A. (1975), The Power Broker. Robert Moses and the Fall of New York, Vintage Books, New York.
Mumford L. (1977), Architettura e cultura in America dalla guerra civile all’ultima frontiera, a cura di Francesco Dal Co, Marsilio, Venezia.
Ponte A. (1990), Il parco pubblico in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Dal genius loci al genio della civilizzazione, in M. Moser, G. Teyssot, a cura di, L'architettura dei giardini d’Occidente. Dal Rinascimento al Novecento, Electa, Milano, pp. 369-382.
Rosenzweig R., Blackmar E. (1992), The Park and the People. A History of Central Park, Cornell University Press, Ithaca e Londra.

 

N.d.C. - Michela Barzi, laureata in Architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, si è occupata di pianificazione territoriale e urbanistica per vari enti locali. Ha pubblicato numerosi contributi sui temi della città, del territorio e dell’ambiente costruito e collaborato con istituti di ricerca e università. Ha curato e tradotto l’antologia di scritti di Jane Jacobs, Città e libertà (Elèuthera, 2020). Oltre a essere responsabile del sito Millennio Urbano scrive per altre riviste online.

Di Michela Barzi, v. in questa rubrica: Indagare i margini, ovunque si trovino (10 giugno 2022).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 

 


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11 OTTOBRE 2024

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