Antonio Calafati  
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CAPITALISMO E DEGENERAZIONE URBANISTICA


Commento al libro di Francesco Chiodelli



Antonio Calafati


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I mercati sono costruzioni sociali. Tutti i mercati lo sono, ma i mercati della terra, del lavoro e della moneta lo sono più di altri. Ce lo ha fatto capire Karl Polanyi con il suo libro più noto, The Great Transformation (1944), e in tanti altri scritti successivi. Terra, lavoro e moneta sono mercati speciali perché il loro funzionamento ha conseguenze estese, ramificate e profonde sul benessere sociale, più di qualsiasi altro mercato. E nelle democrazie chi governa prova a farli funzionare come crede debbano funzionare.

I mercati sono costruzioni sociali perché il loro funzionamento è determinato dall’interazione tra leggi e regolamenti (norme formali), da una parte, e codici morali (norme informali) degli individui e delle organizzazioni, dall’altra. Le norme formali – i fondamenti giuridici dello scambio – si modificano nel tempo attraverso l’azione politico-amministrativa. Gli agenti economici le percepiscono come un vincolo, perché in uno stato democratico lo sono: non determinano le scelte ma circoscrivono il campo di scelta. Le norme informali – i fondamenti culturali dello scambio – evolvono nel tempo lungo linee difficili da ricostruire e prevedere. Sono un fatto individuale, mediato dal milieu sociale al quale si appartiene, che l’azione collettiva può provare a influenzare con la persuasione morale e sanzionando le scelte anti-sociali.

La storia del capitalismo è anche la storia di come si sono modificate (e continuano a modificarsi) nel tempo le istituzioni – il sistema delle norme formali e informali – che regola i mercati della terra, del lavoro e della moneta. Sono i mercati più ideologizzati, più regolati, più de-regolati, più studiati, più monitorati. D’altra parte, sono i mercati più importanti del capitalismo, sui quali si manifestano i suoi maggiori confitti politici. Il mercato della terra che diventa suolo su cui edificare è l’oggetto di riflessione del recente libro di Francesco Chiodelli – Cemento armato. La politica dell’illegalità nelle città italiane (Bollati Boringhieri, 2023): il mercato della terra-suolo come costruito e de-costruito dall’azione politica e dall’evoluzione culturale in Italia negli ultimi decenni, il mercato che ha generato la traiettoria di sviluppo spaziale dell’Italia dal Secondo dopoguerra a oggi.

 

La Rivoluzione industriale e la Grande urbanizzazione modificano profondamente la posizione della terra nel processo economico. Nel capitalismo che prende forma tra Settecento e Ottocento deve diventare suolo in una misura mai verificatasi nella storia. Deve ospitare il capitale strumentale necessario allo svolgimento dei processi sociali elementari: abitare, produrre, auto-produrre, consumare, scambiare beni e risorse, socializzare.

Ogni nuova espansione della città fisica si manifesta con una specifica morfologia spaziale, alla quale corrisponde una specifica distribuzione interpersonale di costi e benefici sociali; ogni nuova espansione crea e distribuisce reddito e ricchezza in modo specifico: l’espansione della città fisica – lo sviluppo spaziale – è un processo profondamente politico – e i suoi profondi e ramificati effetti sul benessere individuale e collettivo entrano nella ‘funzione di preferenza sociale’, per definizione il dispositivo di orientamento delle scelte nelle democrazie.

In Europa, l’urbanistica moderna si consolida nel corso dell’Ottocento per diventare una disciplina di cui la democrazia non può fare a meno. L’urbanistica diventa uno strumento della democrazia, come lo era diventata l’economia tra Settecento e Ottocento. E come nell’economia, anche nell’urbanistica le democrazie possono cadere nella tentazione di farne un uso ideologico: utilizzarla nel conflitto politico, adottare o promuovere questo o quel paradigma scientifico.

Come tra gli economisti – ma in modo meno evidente –, anche tra gli urbanisti è diventato egemone un paradigma di funzionamento dei mercati astratto: “un mercato è un mercato” e tutti i mercati funzionano allo stesso modo. La complessità del sistema degli attori che con le loro scelte generano lo sviluppo spaziale collassa nell’agente rappresentativo, che ha un comportamento conosciuto a priori. E l’urbanista – come l’economista – non ha bisogno di lasciare la poltrona filosofica per capire come concretamente funziona il mercato della terra che diventa suolo. La complessa configurazione istituzionale che genera qui-ora lo sviluppo spaziale si dissolve.

Molto diverso è il progetto di ricerca da cui nasce Cemento armato. L’Autore si muove nella sfera empirica, nella sfera del resoconto della configurazione di scelte pubbliche e private che hanno determinato un insieme di emblematici ‘fatti spaziali’. Attraverso le storie che racconta prova a restituire la complessità dei fattori istituzionali che sono all’origine della degenerazione dello sviluppo spaziale in Italia. Cemento armato è un singolare reportage intellettuale, di un urbanista che crede che l’urbanistica alimenti e orienti le politiche urbanistiche, ma non che le determina.

 

Quando Leonardo Benevolo pubblica Il tracollo dell’urbanistica italiana (Laterza, 2012) stampa il suo autorevole sigillo sulle innumerevoli valutazioni critiche – critiche fino allo sgomento – dello sviluppo spaziale italiano, il quale si manifesta violando gli assunti elementari di qualsiasi paradigma urbanistico. Posa lo sguardo sul territorio italiano e proietta su ciò che vede un meta-modello morfologico che contraddistingue la città europea del XX secolo, quella ereditata e rivisitata del XIX secolo. E questo modello, come Bernardo Secchi ci ha insegnato (La città del ventesimo secolo, Laterza, 2005), non era la città fisica come opera d’arte, bensì la città fisica come dispositivo democratico.

Il tracollo dell’urbanistica italiana appare come una cesura: non si è potuto più nascondere, dopo, che l’accento sul ‘carattere risolutivo’ della qualità del progetto urbanistico era un’illusione. Nella costruzione della città e del territorio dagli anni Cinquanta, non erano certo mancati in Italia progetti di grande valore disciplinare e politico-amministrativo. Progetti che sembravano avanguardie di un nuovo paradigma, ma che sono poi diventati solo simbolici gesti di resistenza, testimonianze. Ma da dove ricominciare? Questione che resta ancora aperta, che non compare neppure più nell’agenda politica e disciplinare.

Il paradigma urbanistico diventato nel frattempo egemone ha liberato la democrazia dal peso del progetto urbano e territoriale. Che è ora affidato al Mercato competitivo – che, nel caso della terra-suolo, diventa “urbanistica contrattata”. Sarà il Mercato a risolvere il conflitto sulla distribuzione del reddito, della ricchezza e dei costi sociali che le trasformazioni urbane – l’uso e il riuso del suolo – sempre sollevano. La razionalità (postulata) di ogni negoziazione di mercato si comporrebbe in un ‘equilibro generale’: l’urbanistica si omologa all’ideologia del paradigma mercatista.

Ora, il libro di Chiodelli sembra aprire un varco, ricostruendo da una prospettiva metodologica originale la complessa configurazione di fattori all’origine della degenerazione della regolazione dello sviluppo spaziale. Dopo Cemento armato non dovrebbe essere più possibile ignorare il perverso intreccio di dispositivi ideologici e tecnici che governano lo sviluppo spaziale in Italia. Hanno tutte un valore metodologico le storie di profonda distorsione della “grammatica dell’urbanistica” raccontate nel libro. Storie da leggere due volte: la prima per lasciarsi andare al ritmo incalzante dalla narrazione; la seconda per distillarne le implicazioni per l’agenda di ricerca degli urbanisti e degli economisti.

 

“Dov’è il mercato?” – il mercato competitivo di cui parlano i neoliberali – sei costretto a chiederti al termine del racconto sulla vicenda della realizzazione del nuovo stadio della Roma (Capitolo 4). Chi compete con chi e per che cosa in questa vicenda? Una storia che inizia con una porzione di territorio che, per scelta politica, diventa suolo edificabile. Un tipo di scelta che ha due dimensioni, spesso non allineate temporalmente, tanto da non far comprendere la relazione tra di esse: a) si sceglie una specifica porzione di terra da rendere edificabile; b) si sceglie che cosa si può edificare (o ri-edificare) su quella porzione di terra che (ri-)diventata suolo – quali funzioni, quale scala delle funzioni. La scelta b) retroagisce sul valore del suolo in misura esorbitante.

Lo sappiamo, ma l’Autore prova a ricordarci che dovremmo essere sgomenti per il fatto che sono ancora lì le norme che permettono a una scelta politica di far crescere a dismisura il valore di un asset – la terra-suolo – che nella quai totalità dei casi è una proprietà privata privato. E che sia ancora lì – si può aggiungere – anche dopo che il paradigma della ‘città verticale’, che fa letteralmente esplodere il prezzo del suolo edificabile, ha iniziato in Italia a orientare la costruzione della città – di Milano, naturalmente (ma anche altre si stanno mettendo sulla stessa strada).

La storia inizia da un “progetto (privato) in cerca di suolo”. E un suolo lo trova, in un mercato della terra-suolo che, per scelta politica, non è un mercato competitivo. Nel linguaggio dei neo-liberali il progetto è un’innovazione che un’impresa ha il diritto di realizzare, e che sarà poi il Mercato a certificarne il valore sociale. Ma non c’è nessuna città – neppure in quelle la cui civitas è estenuata – in cui non sorgano domande sul senso dei progetti di trasformazione urbana. Domande che interrogano gli attori pubblici che devono prendere formalmente le decisioni a) e b). E lo devono fare sotto il vincolo dell’interesse pubblico – di una valutazione collettiva sui benefici sociali netti generati dai progetti di trasformazione urbana.

L’interesse pubblico del progetto dello stadio della Roma viene certificato durante la Giunta Marino, ma messo poi in discussione nel dibattito pubblico che precede le elezioni comunali dal M5S. Vinte le elezioni, la Giunta Raggi (M5S) nomina Paolo Berdini Assessore all’urbanistica, e come da programma elettorale inizia la procedura amministrativa per bloccarlo. Poi le cose precipitano, dalla parte che non ti aspettavi. L’Assessore viene rimosso, la Giunta Raggi negozia e accetta una riformulazione del progetto e si appresta a dare l’autorizzazione a realizzarlo. Storia nota quella che segue: un’inchiesta della Magistratura travolge il progetto.

Questa storia è emblematica nello schema interpretativo che l’Autore propone nel libro per mettere in evidenza un carattere strutturale del mercato della terra-suolo in Italia: è un mercato segnato non da semplici episodi di corruzione, bensì da corruzione sistemica. Questo progetto – come tanti altri in Italia – nasce, prenda forma e poi si afferma come necessario e benefico in un contesto di corruzione sistemica – come le inchieste della Magistratura hanno certificato – e non da una corruzione occasionale. Uno stato delle cose che interroga la politica, non la Magistratura.

 

La vicenda dello stadio della Roma è utilizzata nel libro per raccontare un’altra storia, che credo sia la più importante. Il racconto può iniziare in tanti modi, e il migliore è probabilmente quello scelto dall’Autore (pp. 92-95): il “famo ‘sto stadio” con cui Luciano Spalletti dà il suo sostegno pubblico al progetto, al quale segue l’altrettanto grottesco “vogliamo il nostro Colosseo moderno” di Francesco Totti. Uno sconclusionato sentimentalismo che pone il progetto fuori dalla valutazione critica, dalla razionalità collettiva. Ugualmente grottesca sarà poi la dichiarazione pubblica del sindaco di Roma Virginia Raggi, con la quale giustificherà il cambiamento di opinione sul progetto, dal no al sì:uno stadio fatto bene nel solo interesse dei cittadini”.

Il “progetto in cerca di suolo” non era il nuovo stadio della Roma. Era ben altro: un’imponente trasformazione urbana – 125 ettari la sua estensione (e tre grattacieli di oltre 100 metri nella versione originaria –, di cui lo stadio era solo un frammento. Ma anche pretesto, perché, nel frattempo, come si ricorda nel libro, il Governo Letta, manifestando la visione che ha dello sviluppo spaziale la Sinistra italiana, aveva proposto una legge (prontamente approvata dal Parlamento) che permette di realizzare unitamente a uno stadio di calcio un intervento di trasformazione urbana che prevede funzioni che vanno ben oltre i servizi necessari a far funzionare lo stadio. La realizzazione di uno stadio diventa strumento retorico per legittimare e strumento tecnico per realizzare un grande progetto di trasformazione urbana.

Questo slittamento verso la retorica e l’inganno per giustificare le politiche pubbliche è un problema vitale in una democrazia, e così esteso da essere difficile da afferrare. Sul rigore deontologico e sulla competenza della burocrazia, da un lato, e del milieu professionale, dall’altro, le democrazie europee hanno fondato gran parte della legittimazione politica ed etica delle loro deliberazioni. È il primo pilastro su cui si reggono. Il secondo è, naturalmente, la densità del dibattito pubblico e, in particolare, il ruolo svolto dagli intellettuali pubblici, la loro capacità e impegno a riflettere criticamente sulle politiche pubbliche. Burocrazia, milieu professionale e intellettuali pubblici sono dispositivi fondamentali della democrazia. Che accade, quindi, se smettono di funzionare, se la corruzione, l’incompetenza o l’ignavia ne bloccano o distorcono il funzionamento?

Nella vicenda del nuovo stadio della Roma esponenti della burocrazia e delle professioni mettono le loro competenze e il loro potere al servizio delle pratiche corruttive, mentre gli intellettuali pubblici, con rare eccezioni, si defilano. E l’opinione pubblica perde l’orientamento, mentre argomentazioni e retoriche senza senso logico ed empirico egemonizzano la costruzione del consenso su questa scelta.

Un tema ostico questo, che l’Autore ha il coraggio di affrontare soffermandosi su un caso in cui esso si presenta persino con più chiarezza: il Piano urbanistico di Desio, piccolo comune nell’hinterland di Milano. Un “piano qualunque”, lo definisce l’Autore, senza particolari difficoltà tecniche di realizzazione, di un comune con un territorio poco esteso e per il 70% già edificato – che redigerlo “dovrebbe essere una passeggiata per urbanisti esperti come quelli incaricati”. Un Piano commissionato a urbanisti esperti, che non si accorgono né di redigerlo in un modo che corrisponde agli interessi della criminalità organizzata – come le inchieste della Magistratura hanno poi dimostrato –, né di lavorare per una burocrazia (e una classe politica) corrotta. Un piano urbanistico per il quale i magistrati competenti si costringono a scrivere che “non fa onore alla professionalità dei tecnici” che lo hanno redatto. (Onore che andrà alla successiva Amministrazione comunale e ai tecnici che redigeranno il nuovo Piano urbanistico.) E una comunità scientifica che si disinteressa completamente di ciò che sta accadendo a Desio – d’altra parte, è un tema prosaico, poco accademico.

 

Nel 1993 a Douglas North viene assegnato il premio Nobel per l’economia per aver portato al centro dell’attenzione il fondamentale ruolo delle istituzioni nel capitalismo con un libro – Institutions, Institutional Change and Economic Performances (1990) – che influenzerà profondamente la riflessione teorica e la ricerca empirica nei decenni successivi. Ma devono trascorrere molti anni prima che l’ortodossia economica si arrenda all’evidenza dell’importanza del programma di ricerca neo-istituzionalista. Nel 2009 viene assegnato il Nobel per l’economia a Oliver Williamson ed Elinor Ostrom, autori di due libri, anch’essi pietre miliari della riflessione economica del Novecento, rispettivamente The Institutions of Capitalism (1985) e Governing the Commons (1990).

Nel programma di ricerca neo-isituzionalista, per comprendere l’enorme importanza dei fondamenti istituzionali dei mercati, è sufficiente introdurre le ipotesi secondo le quali l’asimmetria informativa tra gli agenti è un dato di fatto e gli agenti (individui e imprese) sono “selfish with guile”; ovvero, perseguono i propri obiettivi sfruttando le asimmetrie informative e hanno orientamenti opportunistici. Queste ipotesi – due ovvie verità, si dovrebbe dire – sono sufficienti a far crollare l’intera retorica dei mercati competitivi come esposta nei libri di testo della scolastica neoliberale, e a dimostrare che, senza un’appropriata configurazione di norme formali e informali, il capitalismo degenera.

Ma quanto è importante il disegno istituzionale della regolazione del mercato della terra-suolo, dati gli specifici caratteri di questa merce che Polanyi ci ha insegnato a chiamare ‘fittizia’? E quanto è importante farlo in una società nella quale esiste una corruzione sistemica, nella quale gli attori non sono soltanto opportunisti ma, all’occasione, corrompono e minacciano? Che cosa accade in una società con un diffuso orientamento verso l’illegalità se il sistema delle norme formali che regola lo sviluppo spaziale è mal progettato? Che cosa accade se le istituzioni del mercato della terra-suolo sono state fatte degenerare per calcolo politico?

 

Attraverso quali vie in Italia si è fatto degenerare il sistema di norme formali che regola il mercato della terra-suolo? Per cercare – e trovare – la risposta, in Cemento armato l’Autore sceglie una prospettiva metodologica che gli permette di tenere assieme fenomeni che nelle riflessioni disciplinari e nel dibattito pubblico sono tenuti separati. Decide di sfruttare l’ambiguità semantica che nella lingua italiana ha il termine ‘politica’ per mostrare, appunto, che “la politica dell’illegalità nelle città italiane” – il sottotitolo del libro – è fatta di un impasto di ideologiche retoriche, da una parte, e distorte scelte pubbliche, dall’altra, e che tra queste due dimensioni c’è una “connessione strutturale. Alla riflessione sulle connessioni che l’Autore ritiene più importanti è dedicato gran parte del libro.

Il primo capitolo, “Città abusive”, racconta di una connessione strutturale che, da sola, fa crollare l’intero edificio della regolazione dello sviluppo spaziale. Racconta una storia nota: si può edificare abusivamente in Italialo si può fare. E l’abuso può restare lì, per anni, sotto gli occhi di tutti. Poi, a un certo punto, l’abuso viene condonato. Una sequenza di eventi ‘classica’ in Italia: lo Stato emana la norma, non la fa rispettare, ne sospende l’applicazione con valore retroattivo (e selettivo). Lo Stato mostra che è disposto a negoziare sull’applicabilità delle norme che emana. Rendendo possibile l’abuso edilizio, la scelta individuale – in contrasto con la norma – legittima la primazia dell’iniziativa privata. Come dire: le regole formali che vincolano le trasformazioni della città fisica vengono violate perché sono di ostacolo al raggiungimento di un equilibro collettivo. Lo Stato osserva le scelte private, che gli rivelano le preferenze sociali – e le legittima sospendendo le norme: “Intraprendenza individuale in risposta a storture e rigidità dell’azione pubblica. (E, certamente, non poteva essere che Milano la città nella quale è l’attore pubblico ad affermare a voce alta che le norme formali sono una complicazione alla contrattazione di mercato della terra-suolo.)

Il secondo capitolo, “Città occupate”, aggiunge un’altra dimensione nella quale la legalità viene risucchiata e scompare. Pagine da leggere per liberarsi dalle narrazioni ideologiche del fenomeno delle occupazioni abitative illegali. Nelle città che si trasformano nella loro base economica, nella loro morfologia sociale e nella loro scala, parti di città diventano obsolete e restano in un cono d’ombra finché non tornano ad acquisire un valore di mercato. Lo Stato si fa da parte, rivolge lo sguardo alla città dei ricchi e lascia il problema abitativo alle dinamiche informali della città dei poveri, che si manifestano laddove la città fisica mostra segni di obsolescenza. Le lascia a chi di quella città fa parte e cerca freneticamente un alloggio tra disperazione, ricatti, criminalità organizzata. Nelle enclave urbane dove i lampioni sono spenti, la democrazia liberale, che della garanzia di offrire una decorosa abitazione a tutti aveva fatto un carattere distintivo – carattere che ha segnato la storia della città europea dopo la Rivoluzione industriale –, rinnega se stessa. Se la sequenza abuso-condono sospende le norme, il fenomeno dell’occupazione abitativa segnala che in Italia ci sono parti di città dalle quali lo Stato semplicemente si ritira. E lo fa finché il Mercato non torna a scoprire che il loro riuso è profittevole – magari come effetto di una nuova linea metropolitana realizzata con risorse pubbliche –, allora prova con la forza, confusamente, a riportarle sotto la propria giurisdizione, così da poterle riconsegnare al Mercato.

Il terzo capitolo, “Città informali”, parla degli ostacoli che lo Stato (Regioni e Comuni) hanno posto in questi anni alla costruzione di moschee, facendolo con norme e provvedimenti amministrativi che violano diritti costituzionali. Sembra una digressione, una riflessione su una questione importante, ma comunque laterale rispetto ai temi del libro. È, invece, una questione di grande rilievo nella storia della città europea: l’ideologizzazione dell’evoluzione della morfologia fisica della città. Piuttosto che riconoscere e permettere i cambiamenti della morfologia fisica richiesti dalle trasformazioni della morfologia sociale – come sempre è stato nella storia della città europea –, si preferisce impedirli nella loro manifestazione formale canonica, culturalmente determinata. Che si manifestino, piuttosto, in modo informale e non riconoscibile, nei meandri delle periferie disarticolate, ai margini della città, dove si è permesso il tracollo dell’urbanistica italiana – quello sì, in tutte le forme canoniche. Lascio al lettore – al racconto che ne fa l’Autore di Cemento armato – scoprire le contorsioni lessicali, cognitive e morali alle quali ha condotto l’ideologizzazione della morfologia fisica della città in Lombardia.

Dopo il capitolo sulle “Città corrotte” – il progetto dello stadio della Roma e il PRG di Desio narrati come casi emblematici –, “Città criminali” segna l’ultima tappa del percorso lungo il quale si snoda, nelle complesse forme che il libro svela, la ritirata dello Stato dalla regolazione dello sviluppo spaziale, l’eutanasia della democrazia italiana. Un capitolo da leggere, per porsi la domanda che chi studia la città sempre si pone: Chi governa la città, qui-ora? Sono queste le città della “fine della storia”, quelle del trionfo del Mercato senza Stato?

 

Tante storie in questo libro per raccontarne una soltanto, che le contiene tutte: come la democrazia italiana ha fatto degenerare – fino a vederlo disfarsi, con soddisfazione – il sistema di norme che regola lo sviluppo spaziale. In Cemento armato il lettore troverà il racconto dei mezzi e degli espedienti utilizzati per riuscirci. Francesco Chiodelli ha scritto un reportage intellettuale che riporta l’urbanistica applicata italiana all’anno zero: e adesso, adesso che si fa? Il primo passo da effettuare, conclude l’Autore, sarebbe “riconoscere che l’illegalità urbana è un problema significativo”. Ma, anche solo per veder compiere questo atto, siamo da molto tempo (quasi) tutti in ansia a scrutare l’orizzonte.

Antonio Calafati

 

 

N.d.C. Antonio Calafati ha recentemente pubblicato L’uso dell’economia. La Sinistra italiana e il capitalismo 1989-2022 (in-corso-d’opera, 2023). Ha scritto Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia (Donzelli, 2009) e curato la raccolta di saggi Città tra sviluppo e declino. Un’agenda urbana per l’Italia (Donzelli, 2015). Il suo sito web è: www.antonio-calafati.it

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

18 OTTOBRE 2024

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