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CITTÀ FEMMINILI? AHIMÈ, NON ANCORA ...
Commento al libro di Elena Granata
Bianca Bottero
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Gli anni ’50 e ’60 hanno visto in Italia un grande arricchimento del pensiero femminista che – in particolare con Luisa Muraro, Lia Cigarini e il gruppo raccoltosi attorno alla Libreria delle donne di Milano – sottolineò con forza, a partire dal fondamentale contributo di Luce Irigaray, il pensiero della differenza sessuale e la necessità di opporsi alla marginalizzazione della donna imposta, anche nel mondo occidentale, dalla centralità assoluta del logos razionale maschile. In tale orizzonte, la riflessione sul rapporto delle donne con la città si avvaleva anche della critica alle istituzioni elaborata nei precedenti decenni in Francia – coi nomi di Foucault, Deleuze, Derrida, Morin – e trovava anche un rafforzamento nelle iniziative delle attiviste americane così come negli importanti contributi di Bateson e nel nascente pensiero ecologista. Da qui un percorso di crescita che si espresse costruendo reti, dando vita a iniziative e movimenti, attraverso i quali si raccolsero preziose analisi rispetto alle condizioni di vita (e alle modalità di sopravvivenza) delle donne nelle molteplici, maschili, insidie delle città. E non solo di sopravvivenza si parlò, ma anche di capacità di espressione e di lotta, di radicalità, e si elaborò un pensiero nuovo che aveva al suo cuore i temi della libertà femminile della cura, dell’ecologia, della bellezza.
In questo ricchissimo contesto confluirono anche le rivolte nelle università che, se pure confusamente, espressero un tentativo di rinnovamento dagli stanchi stilemi della progettazione accademica che poco o nulla potevano e sapevano rispetto ai bisogni della popolazione femminile nei contesti urbani. Ho presente, per esempio, l’insegnamento di Ida Farè, che nella Facoltà di architettura di Milano istituì negli anni ’70 un corso che ragionava sulle modalità di pensare e progettare le città: città da reinterpretare a partire anche dai tempi, dai desideri, dalle modalità di vita delle donne, per una convivenza all’insegna del bello, della memoria e del sensato, non soltanto dell’utile (cfr. Ida Farè e Silvia Piardi, a cura, Nuove specie di spazi, Liguori 2003). E ricordo l’azione costante della rete delle Città vicine che da più di vent’anni ha agito e agisce da Catania in tutto il meridione e in numerose città del nord con una sua attività stringente e inflessibile, a condannare abusi, violenze, sulle donne e sull’ambiente e insieme ad esaltare la vita e le bellezze dell’arte e dei luoghi. Rete che nel 2008 – presso la Libreria delle donne di Milano – organizzò insieme Politecnico di Milano un convegno al quale parteciparono con contributi critici, esperienze, testimonianze, più di cinquanta donne da ogni parte d’Italia. Gli atti – poi pubblicati a cura di chi scrive, con Anna Di Salvo e Ida Faré, in un volume intitolato Architetture del desiderio (Liguori 2011) – contenevano capitoli quali: Vivere e abitare la città, Pratiche che fanno la città, L’arte ci prende per mano, Microarchitetture del quotidiano, Sapere femminile e cura della città. Titoli che nel loro insieme delineavano un vero e proprio capovolgimento epistemologico rispetto al fare città, dove il progetto dell’ambiente urbano perdeva ogni astratta tecnicità e la vita tornava a rappresentarsi in racconti dai quali emergevano preziosi frammenti di paesaggi, pensieri, percorsi, ritmi, di accelerazioni e pause: una città, non solo usata, ma guardata con affetto, curiosità, vissuta persino con rabbia.
Altre importanti riflessioni si sono succedute e la centralità dell’esperienza femminile nella definizione e progettazione degli spazi nella città ha trovato più di un riconoscimento. Per esempio, sempre presso la Libreria delle donne, con la creazione di un Laboratorio per la città che per cinque anni ha seguito le orme delle vita di un gruppo di donne di varie estrazioni sociali e di varie età, e ha prodotto un atlante fatto di mappe, racconti e libere riflessioni, ridisegnando in qualche modo la città di Milano. Come per l’istanza ecologica, tuttavia, esistono ancora nel mondo accademico e nella prassi istituzionale – ben più che nella stessa società – strutture salde, che io chiamerei di pseudorazionalità, che marginalizzano questi pensieri sottoponendoli a un brutale processo di verifica positiva, dal quale ricavano apparenti indicazioni, parziali regole, riduttive visioni che ne indeboliscono il significato fino ad annullarlo. Soprattutto a Milano dove il prevalere di una sorta di ansioso, irrefrenabile attivismo parrebbe superare ogni limite, togliere spazio e credibilità a qualsiasi riflessione meno che funzionale al successo e al denaro. Sentiamo tornare violento – pur se apparentemente temperato con alcune nuove formule accattivanti – l’ansito tutto maschile del progresso inteso secondo i soliti parametri, declinato seguendo i soliti ritmi, nel perdurante orizzonte dell’economico. E ciò malgrado tutto quanto, anche attorno a noi, anche nel nostro Occidente in fase di veloce cambiamento. Il grande sviluppo tecnologico non basti a rassicurarci rispetto alla crisi ambientale, al mutamento climatico, alla crescente quantità di rifiuti e di spreco, anche personale, di cui l’umanità stessa è resa partecipe.
È in questo quadro che è uscito quest’anno – per i tipi di Einaudi – l’ultimo libro di Elena Granata, Il senso delle donne per la città. Curiosità, ingegno, apertura. Si tratta di un testo pieno di curiosità, ingegno, sottile sensibilità, che rimette al centro il problema della città quale è patita e come al contrario potrebbe essere pensata e goduta dalle donne. È difficile se non impossibile fare aderire questo sogno a una Milano, quella di oggi, punteggiata di gru nelle residue aree verdi attorno alla città, dove si sopralzano i volumi più modesti delle vecchie strade, si copre il suolo delle corti un tempo alberate nelle parti più antiche e vi si edificano nuovi volumi. Una Milano dove i marciapiedi sono coperti di tavolini, verandine, box improvvisati, dove un esercito di turisti sosta, mangia, fotografa, riparte… Eppure, il sogno di Elena Granata sembra sorvolare su tutto questo. Sembra non solo auspicare, ma intravvedere una città tutta diversa, dove le panchine vengono disposte con cura per il sole o per l’ombra, dove i bambini possono andare a scuola sicuri, non travolti dal traffico o accompagnati in macchina dai genitori; dove i vicini accolgono i giovani immigrati senza famiglia; dove i marciapiedi sono larghi, accoglienti per le carrozzine; dove le chiazze di verde sono aperte per i giochi dei ragazzi, per il riposo dei vecchi, per la sosta. Siamo qui lontani dalla conflittualità che esprimevano le passate battaglie femministe. Qui il tono è pacato, si affida a una ragionevolezza che si avvale – come il suo precedente, fortunatissimo, libro: Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo (Einaudi, 2021) – di riferimenti, di esempi, di libere associazioni: con la volontà di non farsi coinvolgere da un pensiero unico, ma di dare corpo a riferimenti multipli, relazionali come è spesso l’agire della donne. Un agire che non ha un piano alto e uno basso né nel fare né nel pensare, perché al centro di quello femminile resta comunque sempre il corpo, il proprio o quello del proprio bimbo o della propria madre o di colui o colei o coloro che dalle donne sono curati e coi quali entrano in relazione. Ciò non sottrae forza al crescere, al confermarsi di un orizzonte teorico, che attorno a questo elemento fondante costruisce una successione coerente di prove e di controprove, descritte nelle loro caratteristiche più immediate, le loro relazioni più evidenti, attraverso una lettura multidisciplinare diretta, priva di regole, di modelli, di metodi, ma piena di storie, di vissuto concreto (compreso il riferimento anche alla propria malattia). Che sottolineano quanto il vero benessere, che è insieme del corpo, dei sensi, della mente, sia del tutto ignorato entro l’univoca (apparente) razionalità che governa la progettazione degli spazi urbani, incapace di cogliere ciò che nella mobilità e imprevedibilità e ricchezza della natura, e in genere della vita, è racchiuso di bellezza e che solo un pensiero ecologico, radicalmente alternativo, potrebbe riscoprirvi.
Granata – che insegna Urbanistica presso la Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle costruzioni del Politecnico di Milano – affronta così, coraggiosamente, il tema di una progettazione consapevole degli spazi di vita nella città ritenendo che la sua disciplina abbia praticamente dimenticato, arrendendosi - in sostanza - a un funzionalismo dominato dalla rendita urbana. Rispetto all’ottimismo che caratterizzava il suo testo precedente, in cui affiancava ai numerosi interventi sull’ambiente guidati da interessi multidisciplinari, ecologici o politici del tutto estranei alle accademie, anche alcune proposte di architetti e urbanisti consapevoli, questo nuovo testo mi pare dunque che si mostri più preoccupato di fronte al compito di una progettazione urbana le cui difficoltà si fanno a ogni livello più evidenti e portano alla urgente necessità di un profondo ripensamento dei metodi e dei contenuti disciplinari.
Proprio per l’onestà, la franchezza, il coraggio e la finezza di analisi con cui l'Autrice guarda in faccia una simile situazione, questo lavoro non solo aiuta tutti a percepire quello che solo un’assuefazione (forse) incolpevole ci ha abituato a non guardare, così che produciamo e scartiamo senza più neppure vedere o fiutare quanto sgradevoli, inutili, dannosi siamo a no agli altri, all’ambiente, al paesaggio. Ma attraverso le sue intelligenti riflessioni e ai numerosi esempi positivi che riporta, trasmette ai giovani - alle sue studentesse e ai suoi studenti - curiosità e ottimismo, disincagliandoli da un apprendimento dell’architettura e dell’urbanistica del quale non possono non sentire l’inadeguatezza, a cui in molti, putroppo, reagiscono con l’apatia o lo sconforto.
Bianca Bottero
N.d.C. – Bianca Bottero, già professore ordinario di Tecnologia dell’architettura, ha insegnato Progettazione ambientale presso la seconda Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Ha svolto attività di ricerca nel campo della progettazione urbana, della sostenibilità e dell’abitazione sociale col Laboratorio ABITA da lei diretto. Ha creato con Lorenzo Spagnoli e altri nel 1987 l’annuario internazionale “Housing” che ha diretto fino al 2000. Da dieci anni collabora con l’Associazione di volontariato Alfabeti, insegnando italiano alle donne extracomunitarie che vivono nel quartiere San Siro a Milano.
Tra i suoi scritti: a cura di, Città e campagna (Edizioni del sole, 1975); con Lodovico Meneghetti, a cura di, Il problema della casa (Clup, 1977); a cura di, Alain Lipietz, La rendita fondiaria nella città. Circolazione del capitale e proprietà fondiaria nella produzione edilizia (Feltrinelli, 1977); La cultura del 900. Architettura (Gulliver, 1979; Mondadori, 1982); a cura di, Progetto e gestione dello spazio nelle società complesse. Rapporto di ricerca dai paesi anglosassoni (Clup, 1984); Progetto o metodo. Variazioni sul tema della Salina di C. N. Ledoux (Guerini, 1988); a cura di, Decostruzione in architettura e in filosofia (CittàStudi, 1991; Clup, 2002); a cura di, Progettare e costruire nella complessità. Lezioni di bioarchitettura (Liguori, 1993); con Anna Di Salvo e Ida Faré, a cura di, Architetture del desiderio (Liguori, 2011).
Per Città Bene Comune ha scritto: Città vs cittadini? No grazie, 10 febbraio 2023.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 18 OTTOBRE 2024 |
CITTÀ BENE COMUNE
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