Francesco Cardullo  
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NON TUTTO È CITTÀ


Commento al libro di Giuseppe Fera



Francesco Cardullo


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Ho studiato presso la Facoltà di Architettura di Palermo tra il 1971 e il 1976. Ho sostenuto l’esame di Storia dell’architettura con Leonardo Benevolo e Vieri Quilici (prima che diventasse docente di Composizione Architettonica). I libri di testo fondamentali erano Spazio Tempo ed Architettura di Sigfried Giedion e Storia dell’architettura moderna di Leonardo Benevolo: tutte le immagini erano in bianco e nero. Anche Alberto Samonà (figlio di Giuseppe Samonà) nei suoi corsi di Composizione, che ho frequentato, e di cui parlerò più avanti, faceva studiare moltissimi esempi di architetture del Novecento, e quartieri, e città: sempre in bianco e nero. L’architettura moderna, per me, era bianca o tonalità di grigio.

Il libro digitale di Giuseppe Fera, Spazio pubblico e paesaggio urbano nella città moderna (Planum Publisher, 2020), ha moltissime immagini a colori, degli stessi progetti che ho studiato, da studente, in bianco e nero. Questa è stata la prima cosa che mi ha colpito, oltre all’uso di Google Maps o consimili, che consente di vedere le opere (architetture, quartieri, città) dall’alto, in foto, ed a colori; oggi, come si sono trasformate, e non solo in una planimetria di progetto.

Dopo l’Introduzione, il testo è articolato in cinque capitoli: La Città Giardino e l’Organicismo, Il Movimento Moderno, La permanenza della tradizione, Urbatettura, Gibellina ultimo atto. L’illustrazione di molti esempi, con molte immagini a colori consente di capire, appunto, che il Novecento, in realtà, è spesso colorato e non solo bianco come, spesso, ma non sempre, voleva Le Corbusier nei suoi progetti e nelle sue opere realizzate.

Sostanzialmente il saggio si configura come una “Storia dell’Architettura” dei primi Settanta anni del secolo scorso. Certo dovrei essere maggiormente corretto nei confronti di Fera che è un docente di Urbanistica e, secondo i dettami contemporanei dei saperi, scrivere “Storia dell’Urbanistica”. Ho comunque qualche resistenza e preferisco di gran lunga la formazione e la sintesi dei saperi di tutti i protagonisti di questi settanta anni che erano architetti, urbanisti, pianificatori, paesaggisti, conservatori ed anche, in qualche caso, designer. Una sintesi dei saperi che è stata la base della mia formazione, dei rapporti coi docenti che ho conosciuto; sintesi che, decisamente, mi convince di più di quello che è successo alla formazione dell’architetto negli ultimi decenni (a cui ho contribuito pure io, per carità!), e su cui tornerò molto brevemente, alla fine.

Attraverso i cinque capitoli e con l’ausilio di molti esempi, tutti fondamentali per le vicende storiche dell’architettura e dell’urbanistica, Fera sviluppa riflessioni, snodi critici, evoluzioni, trasformazioni (si sofferma anche sui fallimenti) di alcune risposte all’aumento della popolazione urbana: le risposte della disciplina al fabbisogno di case, di alloggi, della prima parte del Novecento, diciamo i primi Settanta/Ottanta anni.

Articolo ed intreccio le riflessioni di Fera contenute nel testo con le mie, secondo una successione che non è quella dei capitoli del libro (a proposito, forse è errato scrivere libro, trattandosi di un formato digitale?); brevemente e, volutamente, senza note e bibliografie: mi sono stancato e staccato dalle convenzioni accademiche.

 

Residenza = casa + servizi

Nell’anno accademico 1974/1975, nel corso di Composizione di Alberto Samonà (che ho frequentato anche per la redazione della tesi finale), nella Facoltà di Architettura di Palermo, Residenza = casa + servizi era lo slogan che guidava sia lo studio, molto approfondito con lezioni ed esercitazioni, di innumerevoli esempi e realizzazioni in Italia, in Europa e nel mondo, sia l’esercizio progettuale che concludeva l’esperienza. Erano ancora gli anni dell’espansione e dello sviluppo, e la casa era ancora la necessità primaria che superava qualsiasi altro bisogno umano. Quello slogan però, negli anni Settanta, voleva aggiungere qualcos’altro. Vivere non significa soltanto avere una casa, una abitazione, un rifugio, un tetto, ma anche usufruire di servizi, di attrezzature collettive: quindi risiedere, abitare come direbbe Martin Heidegger, significa non soltanto avere la casa, ma anche usufruire di servizi collettivi, per i bambini, per gli anziani, per gli adulti. E tutti gli esempi che si studiavano del Movimento moderno, dalla Russia, alla Germania, all’Austria, alla Francia, all’Inghilterra, andavano in tale direzione. Ma progettare quartieri residenziali che hanno case e servizi, molto spesso minimi, troppo minimi, strade e in qualche caso spazi pubblici aperti (definirle piazze mi sembra improprio e storicamente esagerato) significa vivere in una città, abitare in una città, risiedere in un luogo che ha l’effetto città? Credo semplicemente che tutti i quartieri residenziali più o meno periferici, descritti da Fera e studiati nella formazione dell’architetto sino agli anni Settanta, e quelli che erano periferici negli anni Settanta ed adesso sono centrali, non sono città, non hanno l’idea di città, come si è sviluppata sino all’ottocento, ma luoghi dove rifugiarsi, proteggersi, stare da soli o in minima compagnia (compagno, moglie, figli, amici). Forse occorre rinunciare del tutto all’idea che i caratteri identitari di una città siano replicabili: vivere in un quartiere o in un insediamento nuovo, anche di lusso, anche immerso nel verde, nel parco con il lago, il fiume le colline o altro, non significa vivere in una città, abitare in una città.

 

Città grandi, città medie, città piccole: sull’identità urbana

Di quale dimensione di abitanti parliamo quando parliamo di città? A quale numero ci riferiamo? A quale dimensione ci riferiamo, escludendo le megalopoli che mi sembra appartengono ad un’altra categoria. Nel 2005 ho scritto un capitolo di un mio libro che si intitolava “Dimensioni delle città meridionali” (Architettura e Meridione: temi e progetti delle città del sud, Officina ed.). In questo capitolo schematizzavo i dati delle città italiane di allora (e poi di quelle meridionali), da cui derivavo che, Istat 1998, le “metropoli” italiane (con più di un milione di abitanti) erano tre: Milano, Roma e Napoli. Le città “grandi” (con più di 500.000 abitanti) erano tre: Torino, Genova e Palermo. Le città “grandi” (con abitanti tra 500.000 e 250.000) sette. E le città “grandi” (tra 250.000 e 100.000 abitanti) erano 28. Le città “medie” (tra 100.000 e 20.000 abitanti) erano 430. Le città “piccole” (tra 20.000 e meno di 2000 abitanti) erano 7.629. Nel 1998, in Italia, il 47% della popolazione viveva in città “piccole”; il 29% in città “medie”; il 15% in città “grandi”; ed il 9% nelle “metropoli”. Naturalmente, dopo più di 25 anni, qualcosa sarà cambiato. Per alcune città in peggio, con la perdita di abitanti (per esempio Messina dove vivo, ha perso più di 20.000 abitanti); o in meglio, con la crescita sicura degli abitanti delle metropoli. Naturalmente anche i confini numerici che definivano grande, medio e piccolo, saranno cambiati, con i contributi di altri studiosi ed altre ricerche. Mi pare però che sostanzialmente non si è modificato il dato che dice che quasi metà della popolazione italiana vive in città con meno di 20.000 abitanti. Questo significa che, quasi sicuramente, queste città non hanno un museo, un ospedale, un tribunale, un teatro, uno stadio, un palazzetto dello sport, un mercato, forse neanche un cinema o una sala concerti. L’effetto città, i caratteri della città, l’idea di città sono attributi che derivano dai servizi, quelli minimi ovviamente, ma anche quelli di grande scala. Un panificio ed un alimentare ed una farmacia non fanno “effetto città”, né nei quartieri residenziali alla periferia delle metropoli e delle grandi città, né nelle centinaia di borghi italiani, con poche migliaia di abitanti, che si stanno spopolando, malgrado siano bellissimi e rivalutati dalla disciplina negli ultimi anni. L’effetto città, la “città di pietra”, è dato certamente dal costruito delle case, ma soprattutto dai servizi grandi e piccoli, dalle piazze su cui affacciano le istituzioni ed i servizi, dalle strade coi marciapiedi dove affacciano i negozi, i cinema, le biblioteche, le gallerie d’arte, le scuole, l’università, i bar, gli alimentari, le trattorie, gli uffici, le palestre, le officine, i barbieri, eccetera, eccetera. E poi dalla Storia, dalle accumulazioni e sedimentazioni della Storia delle pietre. Certamente un sistema di collegamenti efficace, molto efficace e funzionante, può collegare le periferie delle metropoli e delle città grandi con il centro città, dove sono ubicati i servizi; ma altrettanto certamente chi vive, abita, in periferia quando esce a piedi potrà camminare in mezzo alla natura, ma non in un marciapiede di una strada o di una piazza di una città, per raggiungere un cinema, o una sala concerti, o un semplice barbiere. È evidente che si tratta di un’altra cosa. Poi certamente si può pensare che stando davanti ad uno schermo, in una stanza, a distanza di migliaia di chilometri, si può vedere una partita di calcio, un museo, un film, un concerto, un’opera teatrale, senza alcun bisogno di contatto umano, cioè senza alcun bisogno della città. Non ci sono alternative alla città, neanche quando si dibatteva sul rapporto tra città e campagna. La città è artificio, è case, attrezzature collettive, marciapiedi, strade, piazze, belvederi, lungomare, lungolago, teatri, musei, cinema, istituzioni, e innumerevoli altri servizi. Berlino Britz o il Dammerstock o Falchera o tanti altri ancora, erano e sono dei “quartieri dormitorio”, come in senso dispregiativo vengono definiti, oggi, i quartieri periferici, marginali o adesso anche abbastanza centrali, anche se il verde urbano è cresciuto ed è rigoglioso, ed anche se sono delle icone dell’architettura del Novecento. Perché, comunque, sono dei luoghi per abitare nel senso di mangiare, vedere la TV, dormire: insomma stare in casa, e non abitare nel senso di vivere in città.

 

Verde urbano, città-campagna, spazio pubblico, paesaggio urbano

Alcune banalità. È evidente che a Piazza del Campo a Siena o a Piazza San Marco a Venezia, o in innumerevoli altre piazze italiane, sarebbe incongruo, semplicemente criminale, piantare anche un solo albero o un cespuglio o una aiuola, o ancora collocare giochi per bambini (a proposito è abbastanza demenziale piantare palme a Piazza Duomo a Milano). La piazza italiana, nelle città italiane, è tutta artificiale, di pietra, marmo, mattone e con le cortine delle facciate delle architetture (belle o brutte) che la delimitano. Altra cosa sono gli slarghi, gli spazi residuali tra incroci, le rotonde, i vuoti in prossimità di strade, le aree di confine indefinite: lì si collocano, da qualche anno un po’ ovunque, giochi per bambini, aiuole, cespugli, alberi, panchine: ma non chiamiamole né piazze, né giardini. Altra cosa è un giardino urbano o ancora più grande un parco urbano: per intenderci Central Park o Hyde Park. All’interno della città storica consolidata, metropoli, città grande o media o piccola, a partire dall’ottocento, si sono realizzati giardini e parchi, con aree concentrate di alberature e natura, di varia tipologia, più o meno grandi, che sono “servizi” esattamente come un mercato o un ospedale o un palazzetto dello sport. Anche le strade, i viali, i controviali sono spesso caratterizzati da filari di alberi, di cespugli, di aiuole, ma non sono verde urbano o giardini o tantomeno parchi: sono forme di decoro urbano delle città. Per tornare al “quartiere dormitorio” (su cui non ci trovo nulla di dispregiativo), tutti o quasi tutti gli esempi citati da Fera sono oggi “ingentiliti” da alberature e natura, o perché nel frattempo è cresciuta o perché la sensibilità contemporanea le ha piantate. Va benissimo, ovviamente, ma non trasforma questi paesaggi urbani, questi quartieri, queste zone residenziali, anche molto vaste, molto ricche di natura, molto curate, molto ben progettate, in città. La città ha dei caratteri, la campagna ha altri caratteri, la città-campagna ha ancora altri caratteri, ma non è città.

 

Crisi e fallimenti

È piuttosto complesso addentrarsi nelle cause per cui alcune esperienze architettoniche ed urbanistiche, alcune teorie ed alcune realizzazioni, sono presto entrate in crisi e quindi fallite, sino ad arrivare alla decisione di demolire e ricostruire. Ci sono certamente fattori interni alla disciplina, errori, anche macroscopici dei progettisti: cito soltanto l’enorme infatuazione degli anni Settanta sulla “tipologia” applicata alla residenza: perciò il tema della casa alta, della casa a schiera, della casa a ballatoio, della casa in linea, che doveva risolvere d’incanto tutti i problemi dell’abitare. Ci sono in verità problemi sociali, questioni economiche, questioni politiche, questioni sanitarie, o semplicemente questioni umane e psicologiche, che hanno determinato crisi e fallimenti di progetti anche molto ambiziosi (e Gibellina è uno di questi). Tra gli esempi clamorosi di fallimento, che avevo studiato ed analizzato da studente come esempio fondamentale di riferimento per il progetto, cito Thamesmead una città di 100.000 abitanti, progettata dal Great London Council, vicino Londra, famosa perché Stanley Kubrick vi ha ambientato “Arancia meccanica”, che si è spopolata molto presto, che è stata in parte demolita, che non ha funzionato. Invece ha funzionato quello che è stato fatto ad un altro esempio iconico degli anni Settanta: Park Hill a Sheffield. Si trattava di un quartiere residenziale progettato da Womersley e Lynn tra il 1957 ed il 1961, 996 appartamenti per 3.000 abitanti di ceto basso. Alla fine del Novecento si era deciso di demolirlo, per varie ragioni. Poi si è deciso di ristrutturarlo, rigenerarlo, in modo drastico. I vari edifici lineari sono stati ridotti soltanto all’ossatura strutturale e si sono completamente modificate le finiture interne, molto curate e molto moderne, e le varie tipologie degli alloggi. La facciata esterna si è risolta con una parete di vetro da pavimento a solaio incastonata nella struttura di cemento armato a vista del telaio: praticamente il progetto urbanistico e lo spazio pubblico, diciamo il paesaggio urbano, sono rimasti intatti, anzi migliorati e potenziati, mentre il progetto architettonico è stato radicalmente modificato. Certo i nuovi abitanti sono di un ceto sociale completamente diverso ed apprezzano molto l’aspetto particolarmente moderno, quasi esclusivo, degli interni delle case.

Dove invece gli abitanti, di ceto sociale modesto, sono rimasti gli stessi, anzi hanno continuato ad abitare i loro appartamenti durante le trasformazioni, è nell’esempio del Grand Parc a Bordeaux. Anche in questo caso si tratta di edifici a lamella che dovevano essere abbattuti e che contenevano 530 appartamenti. A. Lacaton e J. P. Vassal, Pritzker Price nel 2021, trasformano queste stecche, nel 2011, aggiungendo in una di esse da entrambi i due lati, ed in due stecche da un solo lato, un corpo aperto e trasparente di profondità di mt. 3,00, dopo aver eliminato le pareti esterne, e creando continuità tra l’esistente ed il nuovo. Il risultato è un ampliamento della superfice dell’appartamento, (quanto siamo lontani dall’exsistenzminimum), la creazione di un giardino d’inverno, la soluzione naturale alle questioni climatiche di raffreddamento e riscaldamento. Su YouTube ci sono interessanti documentari che descrivono questi progetti e le loro trasformazioni.

Concludo con una brevissima nota sulla formazione italiana universitaria. La legge 240 del 2010, detta Riforma Gelmini, è stata un vero disastro: ha di fatto eliminato le Facoltà e favorito il moltiplicarsi del Corsi di Laurea, ed impedito di fatto ai docenti a tempo pieno di svolgere la professione. Giuseppe Samonà, Ludovico Quaroni, Paolo Portoghesi, Carlo Scarpa, per citarne solo alcuni di quella generazione, hanno svolto ruoli apicali nelle istituzioni, erano docenti, erano professionisti che hanno sperimentato e realizzato opere, erano teorici che hanno scritto testi fondamentali, ed erano architetti, urbanisti, pianificatori, conservatori, paesaggisti ed in qualche caso anche designer. Da qualche anno in Italia non è più possibile riprodurre figure di questo genere. Scrive Alberto Ferlenga nel suo libro, Architettura. La differenza italiana, (Donzelli, 2023): “Si determina così il paradosso di un mondo sempre più interconnesso che avrebbe bisogno di sguardi d’insieme in grado di coordinare varie competenze e di un quadro educativo che, invece, tende alla costruzione di visioni separate rinunciando a fornire quelle visioni che sono state tra le caratteristiche della cultura architettonica italiana”. Sottoscrivo pienamente.

Francesco Cardullo

 

 

 

N.d.C. Francesco Cardullo, architetto, già professore ordinario di Composizione architettonica e urbana presso il Dipartimento DASTEC dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria. Ha svolto ruoli istituzionali come presidente di Corso di Laurea, direttore di Dipartimento, prorettore, presidente del Nucleo di Valutazione, senatore.

Tra i suoi libri: La ricostruzione di Messina 1909-1940: l’architettura dei servizi pubblici e la città (Officina, 1993); Il progetto del padiglione: didattica e progetto (Edas, 1995); La Fiera di Messina: un esempio di architettura razionalista (Officina, 1996); Gli schizzi di studio (Officina, 1996); Architettura e Meridione. Temi e progetti delle città del sud (Officina, 2005); Giuseppe e Alberto Samona’ e la Metropoli dello Stretto di Messina (Officina, 2006); Messina-Reggio: 1908-2008 (Officina, 2008); Architettura e città: scritti su Messina (Officina, 2010); La Stanza e la Finestra (Officina, 2013); L’idea del Territorio dello Stretto: dalla conurbazione alla città metropolitana (Magika, 2016); Il Pilone del Ponte sullo Stretto di Giuseppe Samonà (Officina, 2016).

Opere realizzate: Progetto di una scuola elementare a Saponara (Messina), 1980; con M. Garufi ed U. Giorgio; Progetto di dodici alloggi di edilizia agevolata a Giuntarella (Messina), 1981, con U. Giorgio; Progetto di trecentosessantacinque alloggi di edilizia economica e popolare a Santa Lucia (Messina), 1985, con De Cola associati e N. Tricomi; Progetto della Facoltà di Veterinaria a Messina, 1986, con De Cola associati e N. Tricomi; Progetto di piazza Matteotti a Letojanni (Messina), 1987; Progetto di restauro e completamento del Castello di Carini, Palermo, 2000, con G. Palazzo, A.M. La Fisca, F. Ficarra, I. Strani; esecutivo e direzione lavori nel 2005-2007; Progetto della chiesa e della parrocchia di Sant’Elena, Messina 2000, esecutivo 2007-2012, con F. Ficarra, G. Scarcella, I. Strani; Piano particolareggiato del Gran Camposanto Monumentale di Messina, 2001, con: A. Indelicato, G. La Rocca, e con la collaborazione di G. Farina, P. Raffa, G. Scarcella.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

25 OTTOBRE 2024

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