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LA CURA È NEL MEDITERRANEO
Commento al libro di Barbieri, Fiorelli e Lanzetta
Rosario Pavia
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La città e l’architettura del Mediterraneo sono al centro del libro di Pepe Barbieri, Angela Fiorelli e Alessandro Lanzetta, Il respiro delle città. Matrici mediterranee per abitare il futuro (Libria, 2023). Il volume si articola in tre parti. Nella prima gli autori interpretano “il rapporto tra le culture mediterranee dell’abitare, le loro matrici spaziali e la loro capacità di rappresentare un riferimento per il progetto di una città aperta contemporanea” (p. 13). La seconda, chiamata "prototipi per il futuro", esplora un vasto (e utilissimo) repertorio, sia alla scala architettonica che urbana, di soluzioni spaziali, di strategie progettuali, di figure, di pratiche compositive e attuative, di etimi ridondanti, colti nella realtà di un Mediterraneo allargato e pervasivo. La terza parte è dedicata a una sperimentazione progettuale condotta su un’area della periferia romana.
Da dove viene questo ritorno al Mediterraneo? Perché, ancora una volta, il Mediterraneo, come mito, origine e destino, sembra essere un riferimento per il futuro? Gli autori di questo utile e coraggioso libro ripropongono un tema ricorrente nella storia della nostra modernità: iI Mediterraneo come cura. Uno studioso come Raffaele Nigro soleva dire che “quando l’Europa si scopre malata è sempre nel Mediterraneo che crede di potersi curare”. Questo è vero per il pensiero politico, letterario, filosofico; lo è anche per l’architettura: basti pensare a Schinkel, al viaggio del 1911 di Le Corbusier verso l’Oriente e il Mediterraneo, all’interesse per l’architettura mediterranea di Gio Ponti e Bernard Rudofsky. Ma forse l’atto più incisivo sul piano culturale e simbolico resta il viaggio da Marsiglia ad Atene durante il quale si svolse il IV congressi CIAM del 1933. C’erano tutti i maggiori architetti e urbanisti del momento: da Le Corbusier, a Sert, a Van Eesteren, c’erano gli italiani Terragni, Bottoni e Pollini. C’era lo storico Giedion che non mancò di denunciare la violenza nazista che aveva posto termine, in quello stesso anno, all’avventura della Bauhaus. Durante il viaggio si mise a punto la Carta di Atene, manifesto della nuova urbanistica. Una urbanistica razionale, funzionale, geometrica che poco aveva della città mediterranea reale (presa a riferimento dagli autori del libro), ma che certo, a suo modo, interpretava la razionalità ortogonale delle antiche città greche.
È sempre nel Mediterraneo che si torna a discutere della crisi della città moderna. Siamo nel 1956, il VI congresso CIAM si svolge a Dubrovnik: la città dello zoning funzionale con la sua settorialità, le sue gerarchie, la sua tipizzazione, rivela i suoi limiti. È soprattutto il gruppo Team 10 (tra cui troviamo Bakema, Candilis, De Carlo, Alison e Peter Smithson) a imporre una revisione delle tesi della Carta di Atene. Si scopre la complessità, la centralità dello spazio pubblico e del quotidiano, il valore dei tessuti connettivi. Sono tutti caratteri presenti nella città mediterranea o meglio di una idea di città mediterranea. Su questi stessi caratteri tornano a ragionare dopo quasi settanta anni Pepe Barbieri, Angela Fiorelli e Alessandro Lanzetta. Il riferimento al Mediterraneo sembra una costante, una radice profondamente incardinata nell’architettura moderna e contemporanea. Non a caso un protagonista del movimento moderno come Lluis Sert poteva affermare con equilibrio: “tecnicamente l’architettura moderna è in gran parte esito dei paesi settentrionali. Spiritualmente però è lo stile dell’architettura mediterranea che influenza la nuova architettura”. È una tesi che traspare anche nelle pagine del libro Il respiro della città che esplora lo “stile” mediterraneo, ricercandolo in un Mediterraneo allagato, e senza tempo, arcaico e contemporaneo, compreso tra Oriente e Occidente tra Africa ed Europa. Un Mediterraneo che trasmigra nel cuore dell’Europa, che ritroviamo nelle strutture di migliaia di città storiche e nelle pieghe delle nuove periferie urbane (Lanzetta: 96).
Il Mediterraneo è un orizzonte mitico, in quanto tale si rinnova continuatamente, aprendosi a nuove interpretazioni. Gli autori ne sono profondamente consapevoli. Il Mediterraneo “è mille cose insieme” (RIFER.) diceva Fernand Braudel, ma è sostanzialmente una “pianura liquida”, un piano senza ostacoli che agevola le comunicazioni, che connette i territori e le città, è uno spazio di relazione. La pianura liquida evoca l’orizzontalità dello spazio: è questo il carattere primario della città mediterranea dove la verticalità è sottomessa all’estensione pervasiva del piano (il mito della torre di Babele sta a significare proprio questo: la torre non riesce a dominare, a riassumere in sé l’immensità di Babilonia). All’orizzontalità è dedicata tutta la prima parte del libro. Ma si badi come argomenta Pepe Barbieri, l’orizzontalità si pone come un suolo con uno spessore, un suolo che si radica e penetra nella terra, che si stratifica, che accoglie nel tempo architetture e manufatti edilizi, pieni e vuoti urbani; un suolo artificiale e naturale che si espande in superficie, che si eleva in alto, nell’atmosfera per far “respirare” la città. Il suolo come matrice, come impronta, dispositivo.
Questa orizzontalità rimanda ad un altro carattere su cui si soffermano gli autori: la porosità. Il riferimento a Benjamin è d’obbligo. Cosa affascinava Walter Benjamin o Ernst Bloch? La porosità sociale dell’abitare di Napoli, il debole confine tra interno ed esterno, tra privato e pubblico (il limen di cui ci parla Fiorelli: 51) o la porosità materiale e organica del suolo, della crosta urbana fatta di costruzioni, di inserti vegetali e di strati minerali? Molto verosimilmente era questo tutto questo insieme ad attrarre la loro attenzione. E non è un caso che dopo circa un secolo dalle loro visite a Napoli, il carattere di porosità continua a imporsi come un elemento determinante, non solo per la struttura qualitativa della città, ma anche per la sua resilienza al cambiamento climatico. La città come suolo, che drena le acque, assorbe anidride carbonica, mitiga il calore, ossigena l’ambiente, lo fa respirare. Questi ultimi aspetti avrebbero meritato nel libro una maggiore attenzione.
Tornare a guardare al Mediterraneo nasce dalla consapevolezza di una crisi profonda della città occidentale dove tutto è “periferia perché si vive in una città che non è stata desiderata. Perché la città contemporanea, prodotta in base ad un riduzionismo funzionalista, guidato dal potere del mercato, è sbagliata” (introduzione: 12). La città è diventata inospitale, ineguale, dissipatrice (di suolo e di energia), disarticolata, parcellizzata in una folla di oggetti e recinti urbani, di vuoti e lacerti rurali; ha perso la sua funzione di accogliere e rendere più liberi chi sceglie di viverci. Sembra non avere più una struttura che la tenga insieme, che sostenga le sue relazioni sociali. Manca uno spazio pubblico di connessione, un continuum “come una entità che tiene in relazione una moltitudine di differenze” (Barbieri: 36) in grado di promuovere l’incontro sociale e la redistribuzione delle opportunità urbane. Sono queste le ragioni per cui si torna guardare al Mediterraneo. È uno sguardo necessariamente utopico, che forza la realtà per coglierne le strutture latenti e i segnali di futuro e che ha portato Fernand Braudel a vedere nel Mediterraneo l’utopia di una rete di “città che si tengono per mano” e a Ernst Bloch a ricercare nel Sud d’Europa quel “principio speranza” indispensabile per rinnovare nel profondo le condizioni sociali di una umanità sofferente. Più recentemente è Edgar Morin a indicare il Mediterraneo come “matrice e veicolo di pienezza civilizzatrice”. Esiste un pensiero meridiano, cui questo libro appartiene, che va ripreso e reinterpretato.
Il Mediterraneo propone modelli spaziali (e narrativi) alternativi alla ragione europea continentale: lo spazio come sistema variabile di reti (città e rotte marittime che aprono il Mediterraneo al mondo); l’assenza di un vero centro, per la presenza di una moltitudine di entità statali che hanno le loro capitali lontano dalle coste; una stratificazione di forme, di stili, di linguaggi che hanno conferito alle città una temporalità diversa; il peculiare modo di coniugare globalizzazione e contesto locale (è nel Mediterraneo che si respira contemporaneamente il globale e il senso delle radici). La ricerca degli autori di matrici mediterranee per l’abitare contemporaneo nasce anche dal fascino di questa realtà complessa.
Tornare a parlare del Mediterraneo si colloca oggi in una fase di profonda crisi dell’Europa e del Mediterraneo stesso, sprofondato in una condizione di conflitto, di migrazioni crescenti, di stragi e di morte. Il Mediterraneo, da spazio strategico della globalizzazione a spazio distopico, mina la stabilità del mondo. Mentre da parte della cultura c’è una rinnovata attenzione per il Mediterraneo, l’Europa della UE continua ad ignorare la centralità strategica di questo spazio di mezzo che ci lega indissolubilmente al continente africano e all’Oriente. Invece, è proprio nel Mediterraneo che l’Europa può trovare la sua cura. Questo vale per la politica, ma anche per la cultura del progetto, come testimonia questo libro.
Rosario Pavia
N.d.C. - Rosario Pavia, già professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara, ha diretto il Dipartimento Ambiente Reti e Territorio dello stesso ateneo e il periodico "Piano Progetto Città".
Tra i suoi libri: Le paure dell'urbanistica (Costa & Nolan, 1996); con A. Clementi, Territori e spazi delle infrastrutture (Transeuropa, 1998); Babele. La città della dispersione (Meltemi, 2002); con L. Caravaggi e S. Menichini, Strade paesaggi (Meltemi, 2004); Adriatico risorsa d'Europa (Diabasis, 2007); con M. Di Venosa, Waterfront. Dal conflitto all'integrazione (LISt, 2012); Il passo della città. Temi per la metropoli futura (Donzelli, 2015); Tra suolo e clima. La terra come infrastruttura ambientale (Donzelli, 2019; RCS 2020); Bruno Zevi. Uomo di periferia (Bordeaux, 2022); Roma Babilonia. Figure dell’inerzia urbana (Bordeaux, 2024).
Per Città Bene Comune ha scritto: Il suolo come infrastruttura ambientale (11 maggio 2016); Leggere le connessioni per capire il pianeta (21 giugno 2018); Questo parco s’ha da fare, oggi più che mai (19 aprile 2019); Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici (26 febbraio 2021); Le città di fronte alle sfide ambientali (1 ottobre 2021); Le parole dell’urbanistica (21 gennaio 2022); Il porto come soglia del mondo (22 aprile 2022); Le strade sono architetture (ma non solo) (21 ottobre 2022).
Sui libri di Rosario Pavia, v. i commenti di: Renzo Riboldazzi, Città: e se ricominciassimo dall’uomo (e dai suoi rifiuti)? (23 settembre 2015); Patrizia Gabellini, Un razionalismo intriso di umanesimo (22 settembre 2016); Paolo Pileri, Suolo: scegliamo di cambiare rotta (28 giugno 2019); Luca Zevi, Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe (28 febbraio 2020); Patrizia Gabellini, Suolo e clima: un grado zero da cui ripartire (24 aprile 2020); Piero Ostilio Rossi, Zevi: cinquant’anni di urbanistica italiana (3 marzo 2023).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 31 OTTOBRE 2024 |
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