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CRISI CLIMATICA? COLPA DEI NAZIONALISMI
Commento al libro di Daniele Conversi
Mario Agostinelli
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Leggendo con attenzione questo importante saggio di Daniele Conversi, Cambiamenti climatici. Antropocene e politica (Mondadori Education, 2022), mi sono immediatamente tornate alla mente le parole pronunciate sessantuno anni fa dal primo cosmonauta Jurij Alekseevič Gagarin: “Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere e confini…”. Immerso in quella straordinaria e irrinunciabile fascia di atmosfera che rende possibile la vita sul nostro Pianeta, Jiurij si accorse che da lassù si sfuocavano quei solchi profondi – di diversa natura: etnica, geopolitica e talvolta perfino interiore, spirituale e religiosa – che hanno segnato la storia dei popoli sparsi e spesso divisi e in armi su grandi e piccole tratti di territorio. Cos’erano, a fronte di un globo multiforme e dinamico perfino nei suoi colori cangianti, mai osservati prima in così rapida successione, quelle “nazioni” trattenute dai loro confini, cui Daniele Conversi nel suo bel libro attribuisce parte della miopia nel non rendersi conto delle emergenze di questa nuova era? L’autore confuta il nazionalismo – l’ideologia sottostante le realtà degli Stati-nazione – come copertura determinante della sottovalutazione dell’incombente crisi climatica, dell’espandersi dei conflitti, di una ingiustizia sociale mai tanto ferale quanto all’alba del nuovo millennio. In questa identificazione del paesaggio terrestre ridisegnato dai confini con istituzioni e poteri colpevolmente ripiegati su se stessi e in esasperante competizione, sta molto della drammaticità “epocale e antropogenica” di un futuro prossimo in cui il tempo viene a mancare.
Prima di entrare in una disanima della situazione climatica e sociale sostenuta da dati e diagrammi aggiornatissimi – il libro, infatti, è largamente documentato e supportato da una vastissima bibliografia – siamo messi di fronte ad un difetto culturale strutturale che pervade tuttora largamente la formazione e l’informazione a tutte le latitudini: la mancanza di un approccio interdisciplinare alla descrizione scientifica della realtà. L’interdisciplinarietà irrobustirebbe la presa d’atto della catastrofe che si profila e non lascerebbe spazio ad un perverso negazionismo con cui pressoché l’intero mondo politico riduce ogni giorno di più il tempo e le risorse per l’azione pubblica.
Nei capitoli iniziali si evidenzia qualitativamente e quantitativamente il brusco allontanamento del mondo fisico e della biosfera dall’equilibrio per effetto di una condotta umana sconsiderata, che si accelera col passare degli anni. Con un tratto di originalità significativa, viene datato il “balzo” difficilmente reversibile dell’Antropocene attorno alla fine della guerra fredda, quando l’espansione dei consumi, l’estensione degli scarti e l’uniformità degli stili di vita hanno vieppiù depredato la natura con effetti già localmente catastrofici. Con la vittoria del liberismo sono diventati più deboli gli sforzi di cooperazione e di armonizzazione con l’ambiente: di conseguenza, le scelte politiche non hanno contemplato il limite da non superare, le correzioni urgenti e profonde da apportare ad un presente che è sembrato potersi reiterare all’infinito. Nell’anticipare lo sforzo economico, sociale, politico e perfino culturale necessario, questi capitoli risentono molto del fascino della Laudato si’ ed è stato per me confortante scoprire che gran parte della bibliografia citata ha le sue radici in campi contigui e talvolta comuni a quelli cui Francesco continua ad ispirarsi.
Eppure, basterebbe una narrazione più aderente agli accadimenti realmente datati nell’evoluzione dell’universo, dal big bang ai nostri giorni, per appropriarsi di conoscenze, informazioni e sensibilità che la scienza ha acquisito dal primo Novecento e accantonare così definitivamente l’indifferenza antropocentrica verso la natura, che fa ancora da perno nell’istituzione scolastica d’impronta determinista e nell’ostinata cultura della crescita. Lo stesso concetto di sviluppo appartiene ormai – come dice Wolfgang Sachs – “all’archeologia della storia umana”, da quando Gaia è diventata l’immagine della Terra. In fondo, come non capire e perché non insegnare fin dalle elementari che siamo vivi e parte del vivente perché sovrastati da un velo di gas che anche fisicamente – si tratta, infatti, di solo una sessantina di chilometri di atmosfera – ci accomuna? Un velo che filtra l’energia di una stella lontana, degradandola fino ad essere riemessa nello spazio cosmico dopo aver “rimbalzato” attraverso molteplici processi entropici, che hanno nutrito la vita, consentito la riproduzione, ingentilito e talvolta inasprito gli eventi atmosferici senza che ciò richieda l’esistenza di grandi differenze di temperatura sul pianeta. Quella stessa energia solare può vedersi mutato il proprio bilancio, interagendo con sovrabbondanze o carenze di materia o alimentandosi di combustioni, di cui è responsabile l’attività antropica che si è andata accumulando già dalla rivoluzione industriale. L’uso dei fossili, sempre più massiccio, porta ad emissioni di gas serra le cui molecole si agitano colpite dai raggi infrarossi del sole, finendo con aumentare la temperatura che inaridisce i campi, scioglie i ghiacci e aumenta il livello dei mari, acidificando gli oceani, disturbando e corrompendo il ciclo clorofilliano. In effetti, se si tratta il Pianeta come un manufatto, sostituendo irresponsabilmente l’ecosistema naturale con un ecosistema artificiale, si tranciano connessioni indispensabili alla riproduzione delle nostre vite, lasciando sì immutato l’Universo, ma spegnendo per sempre la nostra presenza di osservatori coscienti del “mondo stellato sopra di noi”.
Dopo aver messo in rilievo la funzione straordinaria che la diffusione dei testi della Riforma e dei capitoli in “vernacolare” sull’interpretazione dei Vangeli aveva avuto nel rafforzare il tessuto delle nazioni europee (e a rendere popolare un nazionalismo segnato da confini da conquistare), l’autore accenna all’importanza che nel protestantesimo venne ad assumere la ricchezza “conquistata” con il lavoro, assunta a merito sul piano etico-religioso e, quindi, anche a giustificazione di una polarizzazione della società sulla base del censo. E ciò, con la conseguente mimetizzazione del capitalismo, sotto le insegne del nazionalismo, capace di recuperare gli abitanti di un territorio ad un’identità rinsaldata dalle istituzioni a rappresentanza elitaria. Questa visione, nella società industriale e tecnologica verrà addirittura nobilitata dal produttivismo: come se lo scopo della organizzazione umana dovesse far coincidere produttività e crescita dello Stato Nazione al di sopra – egemone – rispetto ai “concorrenti”. C’è qualche tratto di questa presunzione addirittura nell’attuale Strategia di Difesa Nazionale che Joe Biden ha sottoscritto ad inizio 2023, così come la si poteva trovare nella politica di crescita economica dell’Unione Sovietica. Mentre la dimensione geoetica si contrappone alla dimensione geopolitica, dominata dagli Stati-nazione di cui è intrisa la pratica e la disciplina delle relazioni internazionali, non si può che annotare come il nazionalismo – ostile a fissare limiti anche locali allo sviluppo – abbia costituito un ostacolo all’avanzamento dei negoziati multilaterali sul clima.
A questo punto, dopo una digressione pungente sulle differenze tra nazionalismo, populismo e fascismo, ci si chiede se il nazionalismo, così padrone dell’età attuale – possa diventare sufficientemente accettabile in una versione modificata per la sfida che ci oppone alla bulimia dell’Antropocene. Si tratterebbe di un’area inesplorata a cui ricondurre, per quanto possibile, i nazionalismi esistenti. Viene documentata l’esperienza scozzese, quella catalana e, in parte, quella gallese. Si tratta tuttavia di sub-nazionalismi, in buona parte vanificati nei loro obiettivi una volta incorporati nelle istituzioni dello Stato-nazione. L’autore considera che “la sfida climatica richiede un’azione globale a cui movimenti ed istituzioni permeate dal nazionalismo tendono intrinsecamente o inconsciamente ad opporsi”. Tuttavia, si ammette che nel lungo periodo possa nascere una traiettoria per cui la conservazione del clima possa rinsaldare l’autostima e la gratificazione dell’orgoglio nazionale. Nella dimensione della costruzione di una “nazione ambientale” già l’Europa ha lanciato messaggi ed obbiettivi sul clima che hanno avuto risvolti positivi sulla costruzione della UE, almeno fino a che ha prevalso la pace. Un insieme di valutazioni portano ad affermare che la politica per la sopravvivenza climatica è più vicina al nazionalismo civico e meno compatibile con quello etnico ed è “consustanziale” al ripudio della guerra e all’armonia con la biosfera.
In conclusione, la mitigazione del clima può progredire solo se le politiche sono coordinate multi lateralmente a tutti i livelli di governance e – io aggiungo – di movimento organizzato. Non sono tanto le istituzioni statali, ma le loro articolazioni a livello territoriale, municipale e cittadino, con il sostegno della democrazia diretta, a dover coartare il nazionalismo oggi imperante. Da ultimo l’autore si chiede quale sia il ruolo della religione e della spiritualità e del loro ricongiungimento con la scienza. Di nuovo riappare Bergoglio e la sua predicazione, capace di trascendere lo stesso cristianesimo per ricongiungersi con altre tradizioni religiose nella lotta al cambiamento climatico.
Mario Agostinelli
N.d.C. Mario Agostinelli è Presidente dell’Associazione Laudato si’: un’Alleanza per il clima, la cura della Terra, la giustizia sociale di cui è promotore dal 2015. È stato capogruppo nel Consiglio Regionale della Lombardia per Rifondazione Comunista e per Sinistra Ecologia Libertà oltre che segretario generale della Cgil Lombardia. Sul piano internazionale opera da anni nel Forum Mondiale delle Alternative e nel Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, con lo scopo di costruire percorsi di coinvolgimento per affrontare la crisi ambientale, sociale e politica prodotta dall’attuale modello di sviluppo. È portavoce del Contratto mondiale per l’energia e il clima.
Tra i suoi libri: con Domenico Codispoti, La contrattazione nel settore industriale lombardo negli anni 1987-1988 (Cgil, 1989); Tempo e spazio nell'impresa postfordista (Manifestolibri, 1997); con Carla Ravaioli, Le 35 ore (Editori riuniti, 1998); No al nucleare! Si alle alternative. Istruzioni per l'uso (s.e., 2008); con Pierattilio Tronconi, L'energia felice. Dalla geopolitica alla biosfera (Socialmente, 2009); con Roberto Meregalli e Pierattilio Tronconi, Cercare il sole. Dopo Fukushima (Ediesse, 2011); con Roberto Meregalli, Nucleare addio. Harrisburg, Chernobyl, Fukushima. Diciamo si alle energie rinnovabili (Ecoistituto del Veneto, 2011); con Alfonso Navarra e Luigi Mosca, La follia del nucleare. Come uscirne? (Mimesis, 2016; 2018); con Debora Rizzuto, Il mondo al tempo dei quanti. Perché il futuro non è quello di una volta (Mimesis, 2016); Neosocialismo (Ediesse, 2018); Coronavirus ed emergenza climatica (Castelvecchi, 2020).
Per Città Bene Comune ha scritto: Per una nuova primavera ecologica (9 dicembre 2021); Più ecologia, meno disuguaglianze (18 novembre 2022); Sufficienza? Un antidoto alla modernità (20 ottobre 2023).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 31 OTTOBRE 2024 |
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