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Questo commento all’ultimo libro di Ottavio Marzocca, Il virus della biopolitica: forme e mutazioni (Efesto, 2023), ne ricostruisce i passaggi fondamentali e ipotizza che centrale in esso sia una specifica determinazione dell’idea di bíos. Per Marzocca quest'idea rinvia primariamente alla dimensione dell'esistenza entro la quale si elabora un ethos – un modo di condursi e di abitare il mondo – e come tale essa, per l’autore, si colloca nel cuore della riflessione foucaultiana sulla governamentalità, nella quale rientra la biopolitica.
Il libro muove, in effetti, dalla «prima grande pandemia del XXI secolo» (p. 13): la dirompenza di tale evento, capace per due anni di modificare radicalmente gli stili di vita della popolazione mondiale, sembrava destinata a rivoluzionare irreversibilmente idee e comportamenti collettivi. Eppure, a quattro anni dall’esplosione della pandemia di COVID-19, la normalità appare ripristinata e il grande contagio si è definito nell’immaginario collettivo come una parentesi eccezionale, destinata a non ripetersi. Forse, ipotizza Marzocca, lo sconvolgimento seguito alla pandemia «è stato troppo repentino per influire sui modi di pensare e di stare al mondo di chi lo ha subito» (p.13).
Contro questo confortante ritorno alla normalità, Il virus della biopolitica si interroga sul disastro etico-politico prodotto da un virus che è “della” biopolitica in senso oggettivo e soggettivo: Marzocca si interroga infatti circa la pandemia come virus prodotto dalla biopolitica, e sulla biopolitica come virus. Il COVID-19 è un virus prodotto dalla biopolitica in un senso molto ristretto, nel senso cioè che le modalità di gestione della pandemia rivelano il sovrapporsi di varie forme storiche della biopolitica, delle modalità di gestione della vita, che si intrecciano con una complessa governamentalità di tipo economico. D’altronde, Marzocca mostra come l’emergere stesso della pandemia non sia sconnesso da questa governamentalità di cui la biopolitica fa parte: essa, infatti, produce la crisi ambientale che contribuisce all’emergere di nuove patologie e malattie infettive. Nel secondo senso, la biopolitica è simile a un virus per la sua capacità di mutare e adattarsi alle diverse situazioni storiche, alle variabili esigenze dei poteri cui essa si appaia.
In aggiunta, due precisazioni sono opportune: Il virus della biopolitica evita di definire in modo affrettato il carattere biopolitico della pandemia. Non a caso, fra gli oggetti di discussione critica del libro troviamo la tesi di Agamben per cui il tratto biopolitico della pandemia di COVID-19 andrebbe rinvenuto nel massiccio impiego, che tale avvenimento avrebbe legittimato, dello «stato di eccezione come paradigma di governo» (p. 402)(1). Il volume delinea quella che si potrebbe definire una via lunga al chiarimento del carattere biopolitico della pandemia attraversando e andando oltre le indagini di Michel Foucault nella ricostruzione delle variazioni storiche della biopolitica, e focalizzando anche i più recenti sviluppi della medicina, la sua individualizzazione e lo smantellamento dello Stato sociale. Di conseguenza, il testo delimita storicamente e concettualmente l’estensione della biopolitica, ancorandola saldamente alla nascita della medicina sociale, e sottolineandone il carattere strumentale e strategico (p.14), in contrapposizione a ogni visione ontologizzante della biopolitica stessa: Marzocca, insomma, intende confutare l’idea che la biopolitica sia la matrice e il destino della politica occidentale.
Composto di sette capitoli, il libro può essere esaminato dividendolo in tre parti. La prima, comprendente i primi tre capitoli, delimita concettualmente e storicamente la biopolitica rispetto alla sovranità e al governo, e ne chiarisce il legame con la medicina (capitolo I); la biopolitica viene poi distinta dalla politica antica, con riferimento alle tesi di Mika Ojakangas per cui Platone e Aristotele sarebbero i padri della biopolitica (capitolo II); il volume discute poi l’ontologizzazione della biopolitica elaborata da Agamben (capitolo III). Pur riferendosi approfonditamente a Foucault e agli altri autori, questa prima parte non ha nulla della chiarificazione meramente filologica: affinare il concetto di biopolitica significa guadagnare uno strumento di precisione per l’analisi genealogica del potere.
La seconda parte analizza alcune trasformazioni cruciali della biopolitica: innanzitutto, il passaggio da un modello protettivo a uno assicurativo di gestione del rischio attraverso gli strumenti della sicurezza sociale e del Welfare State (capitolo IV); in secondo luogo, l’individualizzazione e la molecolarizzazione della medicina contemporanea attraverso le riflessioni di Nikolas Rose e Melinda Cooper (capitolo V).
La terza parte indaga in primo luogo la questione ecologica (capitolo VI) attraverso una genealogia dell’ecologia scientifica, volta a chiarirne gli assunti biopolitici e a mostrare la centralità che il rapporto fra popolazione e ambiente ha rivestito sia per l'ecologia sia per la biopolitica; infine, nel capitolo VII, viene analizzato lo specifico carattere biopolitico della pandemia, soprattutto attraverso la lente delle trasformazioni della biopolitica degli ultimi tre secoli e la tematizzazione del ruolo che la crisi ambientale ha svolto nell'esplosione della pandemia stessa.
I capitoli sulla crisi ambientale e sulla pandemia – questa è la chiave di lettura proposta in questo commento – lungi dal configurarsi come meri "esercizi di pensiero", ritornano circolarmente sul concetto di biopolitica per interrogarsi sulle possibilità di resistenza al biopotere. Il definirsi del bíos come ethos soprattutto in chiave ecologica è la strada delineata da Marzocca.
Il primo capitolo del volume parte da Foucault per definire in che senso «nella nostra società la vita sia uno degli oggetti privilegiati dell’esercizio del potere» (p. 41). Per il filosofo francese, in effetti, a partire dal XVIII secolo, la vita degli individui e della popolazione è divenuta oggetto d’attenzione crescente da parte dello Stato, interessato ad aumentare la propria potenza (p. 42): a livello individuale il potere si sarebbe servito delle discipline e sul piano collettivo della «regolazione dei processi biologici concernenti la popolazione come specie» (p. 45). Marzocca specifica alcuni dei caratteri essenziali della biopolitica foucaultiana: in primo luogo, per Foucault essa è ben distinta dalla sovranità, cui pure essa si è appaiata storicamente sino all’esito mortifero del razzismo di stato e del nazismo (pp. 42 e 76-77). In quest’ultimo, infatti, il bio-potere di vita si è rovesciato in un potere sovrano di morte. In secondo luogo, Marzocca sottolinea come la nascita del biopotere sia connessa «al ruolo svolto storicamente dai saperi e dalle pratiche mediche» (p. 49): la medicina si configura come «pilastro del biopotere» (p. 62). A tal proposito l'autore richiama alcune conferenze tenute da Foucault in Brasile nel 1974, in cui il filosofo francese mostra come la socializzazione della medicina rifletta il progressivo imporsi della rilevanza del corpo per la società capitalista. Scopo centrale di questo processo è la garanzia della sicurezza della società mediante una normalizzazione dei rischi cui la popolazione come specie va incontro.
Analizzando poi le forme storiche della medicina di stato tedesca, della medicina urbana francese e della medicina della forza lavoro inglese (pp. 50-58), Marzocca evidenzia come per Foucault la biopolitica sia stata in grado di inaugurare una bio-storia (p. 61), cioè di alterare nel tempo i fenomeni della vita umana. Tali alterazioni si basano su una profonda medicalizzazione collettiva della vita (p. 62) dagli effetti ampiamente positivi; per Foucault, tuttavia, la socializzazione della medicina può avere altresì effetti negativi, come quelli legati alle «manipolazioni genetiche […] effettuate su bacilli e virus» (p. 61), e portare a una «perturbazione, per non dire una distruzione, dell’ecosistema non solo dell’individuo, ma dell’intera specie umana» (p. 63).
Nella riflessione foucaultiana il potere sulle vite si rapporta anche a un potere sulle anime: a partire dal XIX secolo, infatti, la medicina è divenuta medicina dell’anima attraverso la psichiatria (p. 64) che ha perseguito, fra l'altro, la protezione del corpo sociale dagli "individui pericolosi", sino al punto di aspirare a prevenire i loro crimini (pp. 71 e 73). In secondo luogo, per Marzocca, il potere sulla vita in Foucault si traduce in attenzione alle anime anche nel momento in cui il filosofo francese definisce la governamentalità come condotta delle condotte, in cui «può rientrare l’esercizio di un biopotere» (p. 139).
La biopolitica è dunque un insieme di pratiche e saperi che, attraverso l’attenzione al corpo, e nell’intreccio con la governamentalità liberale e l'economia di mercato, tendono pure a dirigere i comportamenti degli uomini. D’altronde, il potere pastorale di stampo ebraico-cristiano incarna paradigmaticamente il governo in questo senso.
Il secondo capitolo del libro affronta la retrodatazione storica delle origini della biopolitica proposta da Ojakangas: per l'autore finlandese, il Platone della Repubblica, delle Leggi e del Politico, e l’Aristotele della Politica avrebbero generato concettualmente la biopolitica (p. 118).
Ojakangas ravvisa soprattutto nella pianificazione della figliazione elaborata da Platone per la classe dei governanti un intento palesemente eugenetico e perciò biopolitico (p. 118). Anche la gerarchizzazione della natura umana, presente sia in Platone che in Aristotele, e la loro tendenza a farla valere nell'organizzazione politica dello Stato, per Ojakangas, dimostra come per i due autori «il fine ultimo di tutta la politica» fosse certamente biopolitico (p.119).
Marzocca critica la lettura di Ojakangas per diversi motivi: in primo luogo, nonostante alcune affermazioni platoniche e aristoteliche siano di stampo eugenetico, almeno per Platone si può dire che egli non abbia una «visione deterministica della natura degli uomini» (p. 121). Le preoccupazioni di tipo eugenetico del filosofo greco comunque non tendono a costituire un corpo generale dello Stato etnicamente superiore, ma a creare – in modo indubbiamente aberrante – una superiorità morale dei governanti da plasmare inderogabilmente con l'educazione. Per Marzocca è certo, in ogni caso, che le preoccupazioni di Platone e di Aristotele siano di carattere principalmente morale e tutt'altro che biopolitico: Platone, per esempio, aspira ad abolire la famiglia per la classe dei guardiani, affinché la gestione della polis non sia inficiata da interessi privatistici (pp. 124-128). Analogamente, Aristotele esclude alcuni individui dalla cittadinanza non per ragioni biologiche o etniche, ma per motivazioni morali: cittadini a pieno titolo sono, per lui, gli uomini liberi in condizione di dedicarsi alla virtù, non dunque «schiavi, meteci e forestieri» (p. 152), né coloro che si dedicano esclusivamente ai loro «interessi privati» (p. 155). D'altra parte, per Marzocca, Platone esclude dal suo stato ideale la profonda medicalizzazione della società, che segna la biopolitica (p. 129). Il filosofo greco richiama a tal proposito l’antica pratica medica di Asclepio il quale sconsigliava nettamente quell'eccesso di cure mediche cui invece si dedicano i cittadini della polis della propria contemporaneità (pp. 128-131).
Inoltre, Marzocca discute l’affermazione di Ojakangas per cui il carattere biopolitico della riflessione di Platone andrebbe ravvisato nel suo paragone tra il politico e il pastore. Rimarcando che Foucault in realtà considera il pastorato come paradigma del governo, di cui la biopolitica è solo una parte (p. 139), Marzocca evidenzia che Platone, nel Politico, nega che l’arte di allevare sia simile a quella politica (p. 149) e paragona il politico piuttosto al tessitore, «capace di intrecciare e armonizzare (...) le indoli diverse e migliori degli uomini» (p. 149).
Infine, Marzocca mostra che, nel caso di Aristotele, l’attenzione del capofamiglia alla virtù nel governo della casa (oikonomia) deve prevalere decisamente sulla preoccupazione per le ricchezze e per il loro accrescimento indefinito (pp. 161-163). Il che allontana la visione aristotelica dalla governamentalità economica in cui rientra la biopolitica.
Il terzo capitolo circoscrive ulteriormente la definizione concettuale della biopolitica problematizzando l’accezione che ne ha proposto Giorgio Agamben il quale sostiene che la biopolitica rappresenti dalle origini il destino della politica e della metafisica occidentali.
Nel volume si sottolinea che Agamben aspira a individuare un punto di incontro tra le riflessioni di Hannah Arendt e di Foucault, poiché entrambi hanno ricondotto «la profonda alterazione che […] la politica ha subito in epoca moderna» alla «centralità che la vita biologica ha assunto nello spazio pubblico» (p. 170). Agamben, secondo Marzocca, si muove in tal senso anche per tematizzare il campo di concentramento come paradigma della modernità (p. 171). Un fatto che a Foucault sarebbe sfuggito. Intrecciando le tesi di Walter Benjamin sulla nuda vita e di Carl Schmitt sulla sovranità e il suo definirsi attraverso l’eccezione, l'autore italiano sostiene che biopolitico è il potere sovrano poiché esso cattura la mera vita (zoé) per trasformarla in un corpo biopolitico (bíos) (pp. 172-176).
Marzocca contrappone alle posizioni agambeniane quattro tesi principali: in primo luogo, se Agamben intende individuare il punto d'incontro tra le riflessioni di Foucault e di Arendt, egli dapprima riconosce un tale punto d'incontro nella definizione di una «soglia di modernità biologica»(2) come condizione della biopolitica; in seguito, però, egli nega di fatto l'importanza di tale soglia, facendo risalire l’origine della biopolitica alla tradizione greca e romana.
In secondo luogo, Agamben riconosce il coinvolgimento del potere medico nel biopotere; tuttavia, non è chiaro se, per lui, questo potere sia biopolitico perché dispone sovranamente della vita e della morte dei pazienti oppure in quanto potere-sapere (pp. 177-180). In tal senso Marzocca sottolinea come Agamben trascuri il ruolo biopolitico e governamentale dei «regimi di verità di un insieme di discorsi scientifici» (p.180) capaci di produrre effetti di potere.
Inoltre, Marzocca sottolinea come il concentrarsi del biopotere sulla "normalizzazione" dei comportamenti individuali e dei fenomeni collettivi, abbia un effetto deterritorializzante sul potere sovrano. Il biopotere sovrappone infatti alla territorialità del potere sovrano una forza deterritorializzante concentrata sulla popolazione – che Agamben, agli occhi di Marzocca, trascura (pp. 181-184). In tal senso, l'attuale espansione mondiale della biopolitica risulta, più che dalla generalizzazione dello stato di eccezione, dalla combinazione fra «l’imporsi della governamentalità liberale» e «la globalizzazione economica» (p. 184).
Infine, Marzocca, contrapponendosi all’idea che la biopolitica sia il destino della politica occidentale, pone l’accento sul carattere radicalmente storico ed eventuale dell’ontologia foucaultiana, considerandola di gran lunga preferibile a quella agambeniana(3).
Il quarto capitolo indaga, fra l'altro, le trasformazioni dei modi di gestire il rischio nella modernità. Un processo che consiste, per Marzocca, in un passaggio dal modello dello Stato protettivo a un approccio assicurativo che trova il suo culmine nel Welfare State.
Centrale in proposito è la trasformazione del ruolo della famiglia. Nel XVI e XVII secolo la gestione della vita familiare (oikonomia) ha svolto un ruolo di modello per l’arte del governo politico (p. 199). Tuttavia, nei secoli successivi l’incomparabilità tra la famiglia e lo Stato ha cominciato a manifestarsi (p. 200): la famiglia, perciò, ha cessato di essere un modello per divenire piuttosto un ganglio fondamentale della governamentalità biopolitica ed economica (p. 201). Secondo Marzocca, questo processo ha implicato il superamento dell'interventismo dello Stato di polizia (pp. 97-101) a favore di un’assunzione della famiglia come strumento di prevenzione del rischio e di moralizzazione economica degli individui. In tal senso, il liberalismo avrebbe modificato il governo della popolazione puntando proprio sui concetti di rischio e sicurezza, correlati necessari della “libertà (economica) liberale”.
Esemplari risultano, per Marzocca, le indagini di Malthus (1766-1834), il quale insistette sull'idea che l'assistenza ecclesiastica o statale dei poveri non facesse che accrescere il problema della miseria. Egli esaltò invece l’importanza della moralizzazione dei poveri mediante l'educazione al risparmio e alla castità, affinché evitassero di generare una sovrabbondanza di prole senza essere in grado di mantenerla. Politiche di moralizzazione economica dei poveri, in effetti, furono promosse in seguito dalle organizzazioni filantropiche (p. 209), sino al definitivo affermarsi dell’approccio assicurativo, in forma privatistica e poi statale, come strumento per affrontare gli imprevisti del futuro; approccio che in un certo senso fu il risultato principale di quelle politiche (p. 210).
Il metodo assicurativo traduce, fra l'altro, il problema emblematico degli infortuni sul lavoro nel concetto di rischio professionale da indennizzare (p. 213). Il cittadino diviene così parte di un accordo preventivo con istituzioni previdenziali private o pubbliche. L’idea stessa di "sociale" si afferma in questo quadro come ambito di conciliazione tra la collettività e l’individuo eventualmente danneggiato dalle conseguenze delle sue attività (p. 219). È dopo un lungo processo, sviluppatosi su queste premesse con le politiche della Germania bismarckiana, il New Deal americano e il piano Beveridge inglese, che il Welfare State nasce e si afferma assumendo come propri riferimenti privilegiati l’operaio professionale e la sua famiglia (pp. 220 e 237).
Riconoscendo i meriti indubbi del Welfare State, Marzocca ne individua anche le implicazioni controproducenti (p. 224): in primo luogo, esso non ha mai cancellato le pratiche di assicurazione privata, generando così una disparità di trattamento tra diversi gruppi sociali; esso, inoltre, ha provocato un vero e proprio «occultamento del legame sociale» (ibidem) con la trasformazione del singolo cittadino in «soggetto di un contratto assicurativo, in semplice contribuente e mero utente di servizi di protezione della vita» (p. 225). Infine, il Welfare State ha contribuito a una capillare medicalizzazione dell'esistenza individuale e collettiva, e a una sua crescente dipendenza dal sapere‑potere biomedico (p. 227).
Come osserva Marzocca, la progressiva contrazione del Welfare State promossa dalle politiche neoliberali negli ultimi decenni (p. 241), non ha ridotto questa dipendenza che si è tradotta fra l'altro in una crescente "domanda di salute" rivolta dai gruppi sociali meno poveri a una medicina sempre più privatizzata. Lo smantellamento neoliberale del Welfare State, inoltre, ha accresciuto la tendenza della famiglia a considerarsi come perno del governo del rischio e della ricerca individuale di sicurezza, trasformandosi così in ambito dei calcoli privati di conservazione e accrescimento del capitale umano dei propri membri (p. 243). La moralizzazione economica degli individui teorizzata da Malthus, in un certo senso, ne è risultata compiuta.
Nel quinto capitolo le conseguenze di questi processi di privatizzazione, familiarizzazione e individualizzazione crescente vengono esaminate mostrando, per esempio, come la malattia abbia subito essa stessa un processo di radicale individualizzazione: essa viene posta sempre più in relazione con il patrimonio genetico di ciascuno, col suo stile di vita, con la sua responsabilità personale (p. 260). I fattori ambientali, in quanto cause scatenanti di patologie come il cancro, ne risultano ignorati o largamente sottovalutati (p. 269). Riferimenti principali di questo approfondimento sono le analisi di Nikolas Rose e Melinda Cooper sulla medicina molecolare e genetica.
Per quanto riguarda Rose, pur apprezzando le sue indagini, Marzocca ritiene che egli sia troppo ottimista sul venir meno delle implicazioni discriminatorie, normalizzanti ed eugenetiche della genetica contemporanea (p. 264). Di fatto, Rose rinuncia ad assumere un approccio critico nei confronti della biomedicina contemporanea, insistendo sull'idea che essa si sia liberata dalla visione deterministica dell’ereditarietà genetica a favore di un'essenziale incertezza della sua concezione della vita (pp. 261).
Per Marzocca, comunque, le tesi di Rose sulla personalizzazione della medicina sono interessanti: per il sociologo inglese, infatti, la possibilità di prevedere attraverso la mappatura genetica l’insorgere di certe patologie favorisce in misura crescente le pratiche di prevenzione che coinvolgono l’individuo e la sua famiglia (p. 273). Su queste basi, secondo lui, la genetica contribuisce a rafforzare il nesso tra etica individuale, biopolitica ed economia (p. 281). Il corpo diviene il fulcro dell’esistenza dell'individuo, delle sue possibilità di vita e di miglioramento della propria condizione materiale: in questo senso, come sostiene Rose, «il bíos, inteso come modo di vivere qualificato eticamente, viene ormai progressivamente assorbito nella sfera della zoé in quanto vita biologica» (p. 279).
Secondo l'analisi di Marzocca, Melinda Cooper inquadra in maniera certamente più chiara ed efficace rispetto a Rose il rapporto fra sviluppi della genetica, strategie neoliberali e finanziarizzazione della biomedicina. Per l’autrice, la privatizzazione della ricerca genetica si avvia nel corso degli anni ’80 in relazione alla crescita dei finanziamenti pubblici destinati al settore farmaceutico in crisi. A partire dalla presidenza Reagan, tali finanziamenti sono stati orientati sempre più massicciamente verso la sperimentazione «a scopo di lucro» (p. 286).
Marzocca, inoltre, apprezza opportunamente la tesi di Cooper secondo cui la finanziarizzazione della ricerca medica trova la sua esaltazione nelle promesse della medicina rigenerativa, della «morfogenetica dei processi vitali», promesse sulle quali si basa una certa tendenza al «delirio» e alla «megalomania» delle aspirazioni della medicina contemporanea a fabbricare la vita (pp. 288-289). Sulla scorta delle analisi sia di Cooper che di Didier Fassin, Marzocca mostra anche le gravi conseguenze di questa biomedicina privatizzata, manifestatesi con l'esplosione dell'epidemia di AIDS, quando la distribuzione d'emergenza dei farmaci antiretrovirali in Africa fu ritardata tragicamente dall'azione delle grandi imprese farmaceutiche, contrarie alla sospensione dei brevetti (pp. 298-299). Contro l'epidemia, l'unica risposta possibile fu a lungo quella di tipo umanitario-militare. La biopolitica si trasformò così in una sorta di governo straordinario della vita precaria, degna di compassione, vittimizzata ed esposta "fatalmente" a emergenze catastrofiche (p. 300).
Tipica di quest'approccio è la «decontestualizzazione delle questioni che vengono affrontate» (ibidem); decontestualizzazione che si traduce, fra l'altro, in una sostanziale astrazione dalle possibili cause ecologiche del ritorno massiccio delle malattie infettive nella nostra epoca (p. 303). Non a caso, infatti, la questione ambientale oggi è diluita in una dimensione astrattamente globale che esclude la «variegata molteplicità delle sue cause e delle sue specificità naturali, storiche e politiche», come pure la «sua articolazione geografica, topologica, spazio-temporale» (p. 304).
È su questo sfondo che si situa la riflessione di Marzocca sulle relazioni fra biopolitica, ecologia e pandemia, sviluppata negli ultimi due capitoli.
Nel sesto capitolo l'autore evidenzia il ruolo che l'ambiente, come milieu, ha svolto storicamente rispetto alla biopolitica (pp. 307-309); un ruolo segnato dall'attenzione prevalente alla popolazione: «è questa, e non il milieu fisico, l’oggetto della totalizzazione dell’esercizio del biopotere, mentre il singolo organismo è il bersaglio della sua individualizzazione; (...) il milieu non è che il contesto esterno della vita dell’insieme degli uomini da governare biopoliticamente» (p. 309). Si tratta di un'esternalità dell'ambiente rispetto agli uomini e agli esseri viventi in genere, che per Marzocca può essere rinvenuta, pur in modi diversi, sia nella biologia darwiniana sia nel pensiero economico liberale, a partire da quello di Adam Smith. Non a caso, insomma, l’ecologia è stata definita per la prima volta dallo zoologo darwinista Ernst Haeckel come «la scienza dei rapporti tra l’organismo e il mondo esterno, nel quale possiamo riconoscere […] i fattori della lotta per l’esistenza» (p. 312). Per Smith, d'altra parte, il funzionamento del mercato è incentrato necessariamente sull'economia urbana; il che implica «un rapporto di sostanziale indifferenza» dell'economia stessa verso le sorti del «contesto ambientale», a partire da quello del «territorio rurale» (p. 310).
Marzocca svolge un'indagine genealogica dell’ecologia, insistendo sull'idea che è attraverso la teoria evoluzionistica che la biopolitica basata sulla razionalità economica penetra nell’ecologia: Darwin stesso esplicita l’influenza che Il saggio sul principio di popolazione di Malthus ha avuto sulla sua concezione del rapporto tra specie e ambiente (pp. 313-314). La persistenza del malthusianesimo nell’ambito dell’ecologia è peraltro chiara – come nota Marzocca – nel Rapporto del Club di Roma del 1972.
Esaminando i più recenti sviluppi dell’ecologia, l'autore mostra come anch’essi scontino un affine "riduzione" della questione ambientale alla concettualità biopolitica ed economica. L'ecologia viene tradotta generalmente in un'economia della vita (bionomics) valutando il "funzionamento" degli ecosistemi in base all'«efficienza con [cui] essi garantiscono la riproduzione quantitativa e qualitativa della vita» (p. 321). È in questo quadro che – secondo Marzocca – si collocano le strategie dello sviluppo sostenibile (p. 322).
Contro questa sorta di bio-economicismo ecologico, Marzocca propone di incrociare le indagini di Foucault e di Gregory Bateson. Quest’ultimo, in particolare, insiste sull'inafferrabile ma essenziale relazionalità, materiale e "mentale", insita negli ecosistemi, relazionalità che occorre assumere come imprescindibile per fondare l'ecologica sul «complesso flessibile organismo-nel-suo-ambiente» (p. 335). Bateson descrive gli ecosistemi e le loro parti come "menti" per contrastare l'appiattimento della questione ambientale sul problema (economico) del consumo di risorse (p. 334). Come scrive Marzocca, per Bateson il complesso ecosistemico di organismi e ambiente è una "mente" in quanto «sistema di relazioni fra parti, in cui i processi mentali – la comunicazione consapevole o inconsapevole fra gli esseri viventi e fra loro e il mondo – sono più importanti dei flussi di energia e di materia» (p. 337). Perciò, Bateson attribuisce la crisi ambientale al cortocircuito dovuto al radicarsi nell’essere umano di abitudini e forme di apprendimento improntate al finalismo strumentale, alla «finalità cosciente» (pp. 339-340), che risultano inadatti a cogliere la complessità dei rapporti dell'uomo col mondo.
Per Marzocca, d'altra parte, la riflessione dell'ultimo Foucault sulle pratiche di cura di sé degli antichi si pone in sintonia con le indagini di Bateson. Per Foucault, infatti,
«è importante considerare [il] nesso che certe scuole filosofiche dell’antichità (cinismo, stoicismo, epicureismo) mettono in pratica fra l’esperienza della cura di sé e un “sapere di carattere relazionale” che rivolge la sua attenzione al mondo: la cura di sé – ossia l’autogoverno dell’ethos, l’apprendimento di un nuovo modo di comportarsi – richiede che si debba conoscere se stessi, ma non esige “di spostare lo sguardo dalle cose della natura alla coscienza, su se stessi, verso le profondità dell’anima”. Per prendersi cura di sé occorre conoscersi, ma bisogna farlo soprattutto pensandosi come parti del mondo e, in tal senso, conoscere “il mondo, gli altri, e tutto ciò che ci circonda”» (p. 345).
Altrove Marzocca parla dell’eto-poiesi foucaultiana come eco-poiesi, modificazione relazionale dell’ethos in rapporto all’ambiente naturale e socio-politico, poiché il primo è essenzialmente modo di abitare oltre che di condursi(4).
Il virus della biopolitica mostra inoltre come l’oblio biopolitico ed ecologico dell’ambiente riceva luce anche dalla riflessione di Hannah Arendt sull’alienazione dal mondo (p. 349). Per l’autrice, l’attenzione spasmodica e contraddittoria delle società contemporanee all'espansione della vita umana si traduce in un crescente allontanamento dal mondo comune, dallo spazio concreto e relazionale che gli uomini condividono(5).
L'ultimo capitolo del libro è dedicato infine alla pandemia. In continuità con il capitolo precedente, Marzocca vi evidenzia come le cause ecosistemiche del grande contagio siano state per lo più rimosse dal dibattito pubblico (pp. 358-359). In realtà, secondo lui, i fattori ecologici hanno giocato un ruolo rilevante anche nelle grandi pandemie del passato (pp. 364-367). Oggi, d'altra parte, questi fattori assumono un rilievo particolarmente marcato attraverso urbanizzazione, deforestazione, attività minerarie, agricoltura e allevamento industriali, globalizzazione delle attività e della mobilità di merci e persone. Tutti fenomeni che, in un modo o nell'altro, accrescono le probabilità di zoonosi e di diffusione incontrollata di patogeni vecchi e nuovi. Per di più, l’intento di prevenire eventi epidemici improvvisi oggi spinge i laboratori di ricerca a un crescente contatto con patogeni sconosciuti e a una loro rischiosa manipolazione a scopo preventivo (p. 384).
La rimozione degli aspetti ecosistemici della pandemia – secondo Marzocca – ha impedito di assumere «attitudini radicalmente critiche verso le forme dominanti dello sviluppo economico e sociale, mediante le quali le nostre società continueranno a lungo a creare pericoli pandemici» (p. 375). Perciò, la pandemia di COVID-19 è stata affrontata soprattutto mediante l'oscillazione tra blocco securitario delle attività e tentativi di normalizzazione dinamica della morbilità e della mortalità, riprendendo in tal modo gli approcci tradizionali della gestione biopolitica delle epidemie, guidata dallo Stato – uno Stato che tuttavia ha subito da tempo il massiccio depotenziamento dei suoi servizi medici (pp. 381-382).
È noto, d'altra parte, che tentativi di gestione globale della pandemia, guidati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), non sono mancati. Come scrive Marzocca, la politica di questa istituzione in realtà si basa su sistemi di sorveglianza globale che a loro volta si fondano su una sorta di rassegnazione al sopraggiungere improvviso delle emergenze sanitarie: «prepararsi all’inevitabile» e garantire un «livello di rischio accettabile» sono le due polarità fra le quali si svolge questa politica (pp. 376-377). Essa peraltro fa affidamento sull'incerta collaborazione degli stati, sulla problematica fiducia che essi siano davvero capaci o disposti a comunicare tempestivamente informazioni sulle infezioni emergenti nei loro territori (p. 391).
Per ragioni come queste l'OMS si avvale anche del monitoraggio algoritmico dei Big Data raccolti a partire dall’uso che gli utenti fanno delle reti telematiche (p. 389). Una modalità di sorveglianza che in realtà non ha dato sempre buona prova di sé, come è accaduto nel caso di clamoroso fallimento previsionale occorso al syndromic surveillance system di Google Flu Trends (pp. 388-390).
Nella parte finale del libro, l'autore discute – fra l'altro – quella che possiamo definire la “via breve” al chiarimento del carattere biopolitico della pandemia, proposta da Agamben. Durante il dilagare del contagio, come si sa, il filosofo italiano ha sostenuto che le misure emergenziali adottate per frenarlo testimoniassero il progressivo espandersi dello stato di eccezione quale strumento privilegiato di un potere che dispone arbitrariamente della vita e della libertà dei cittadini (p. 402).
Marzocca evidenzia come l’uso che Agamben fa del concetto schmittiano di eccezione non sia pertinente: innanzitutto, perché la decisione sull’eccezione, che in Schmitt sostanzia la sovranità, per quest'autore è finalizzata al ripristino della norma giuridica. In questo senso, scrive Marzocca, «per Schmitt la decisione del sovrano è di gran lunga più importante dell’eccezione» (p. 403). Inoltre, la gestione dell'emergenza pandemica non si è situata sul piano della sovranità ma su quello del governo specificamente biopolitico: in essa, infatti, la norma da ripristinare o da definire non era la norma giuridica, ma quella di una normalizzazione inevitabilmente discutibile e rischiosa dei livelli di mortalità e di morbilità. Si è trattato, in definitiva, di «imporre o fare in modo che si imponesse da sé una norma come criterio di distinzione tra ciò che è normale e ciò che non lo è» (p. 404). Inoltre – secondo Marzocca – l’accusa agambeniana di credulità collettiva verso una scienza medica divenuta religione (p. 406), può esser rivolta allo stesso Agamben, poiché le sue prese di posizione si sono basate, almeno inizialmente, su un frettoloso comunicato di stampo medico del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che dichiarava l’assenza di un'epidemia di COVID-19 in Italia (p. 402).
Anche per questo, dunque, alle "vie corte" Marzocca nel suo libro preferisce la via lunga dell'analisi non solo del carattere biopolitico della pandemia, ma anche delle forme e delle mutazioni della biopolitica stessa, e del governo dell’ethos dell'uomo contemporaneo, in cui essa rientra.
In tal senso, conclusivamente, è importante soffermarsi sul significato che, agli occhi di Marzocca, è opportuno attribuire al prefisso bíos incluso nel termine biopolitica, tenendo conto della riflessione che Foucault ha svolto in proposito. In un corso tenuto nel 1980-81, il filosofo francese ha delineato con precisione la differenza tra bíos e zoé evidenziando che bíos per i Greci non indicava la vita politica o una vita genericamente qualificata; il termine indicava piuttosto la «vita qualificabile», il «corso dell’esistenza […] indissociabilmente legato alla possibilità di svolgerlo, di trasformarlo, di dirigerlo in un senso o nell’altro». Perciò, «nella riflessione di Foucault bíos ed ethos, esistenza e modo di condursi, finiscono per rinviare l’uno all’altro in un senso molto preciso: il bíos si presenta come ambito di una ethopoiesis, ossia come dimensione in cui è possibile e necessaria “la costruzione di un ethos, di un modo di essere, di un modo di fare e di un modo di comportarsi”». (p. 195)(6).
Se – come ci sollecita a pensare il libro di Marzocca – il governo biopolitico ed economico della società ha contribuito al frenetico consumo del mondo e alla rimozione dell'ambiente dal nostro orizzonte, la crisi ecologica e il disastro della pandemia non ne sono degli effetti casuali e temporanei. Un’etica dell'autogoverno di sé aperta alla relazionalità ecosistemica che ci lega al mondo naturale e artificiale è forse un’alternativa.
Letizia Konderak
Note 1) G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet, Macerata, 2020. 2) M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 127. 3) O. Marzocca, Biopolitica, sovranità, lavoro. Foucault tra nuda vita e vita creativa, in M. Galzinga (a cura di), Foucault, oggi, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 235. 4) O. Marzocca, Il mondo comune. Dalla virtualità alla cura, Manifestolibri, Roma, 2019, pp. 235-256. 5) Si veda anche O. Marzocca, “World Alienation”. Dalla scoperta dell'America alla pandemia, https://pianidisalvezza.it/world-alienation-dalla-scoperta-dellamerica-alla-pandemia/ , 19 Maggio 2023. 6) Si veda anche O. Marzocca, Foucault ingovernabile. Dal bios all’ethos, Meltemi, Milano, 2017.
N.d.C. - Letizia Konderak, già dottoranda in Filosofia Morale presso l’Università degli studi di Bari (2021) e ricercatrice postdoc presso il Center for Advance Studies – Southeastern Europe dell’Università di Rijeka (2023), è stata borsista di ricerca e studio presso l’Università di Torino e attualmente lo è presso il San Raffaele di Milano. Ha condotto parte delle sue ricerche presso l’Université Paris IV – Sorbonne e l’Hannah Arendt Center for Political Studies (Annandale-on-Hudson, New York). La sua ricerca intreccia Filosofia Politica e Filosofia Morale, e si concentra sui temi del diritto alla cittadinanza, del mondo comune come spazio dell’attualizzarsi della politica, sull’ecologia in prospettiva fenomenologica. È inoltre docente abilitata all’insegnamento della Filosofia e della Storia nelle Scuole Secondarie di Secondo Grado.
Tra le sue pubblicazioni: Mondanità dell’uomo e umanità del mondo. Il superamento dell’acosmismo in Hannah Arendt, Orthotes, 2022. Si segnalano inoltre: Potere, legge, mondo. Un’idea di cosmopolitismo attraverso una lettura arendtiana, «Etica & Politica / Ethics & Politics», 2023; Diachronies and Manifold Temporalities. A Phenomenological Approach to Climate Change and Ecological Crisis, «BioLaw», 2023; Lo spettacolo del mondo. Heidegger, Agamben e Arendt lettori delle Elegie Duinesi di Rilke, «Il Pensare», 2023; Citizen of the Polis and Citizen of the World. Hannah Arendt on Human and Civic Rights, «WCSA Journal», 2020 e Contro il consumo del mondo: l’amor mundi, «Studium Ricerca», 2018.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 08 NOVEMBRE 2024 |
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