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LA STANZA E L'ASTANZA IN LOUIS KAHN
Commento al libro di Federica Visconti
Marcello Sèstito
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“Non voglio dire che la monumentalità si possa ottenere scientificamente o che l’opera di un architetto renda il suo sommo servizio all’umanità nel momento in cui conduce un concetto verso la monumentalità. Semplicemente difendo, perché lo ammiro, l’architetto che possiede la volontà di crescere con le molte angolazioni del nostro sviluppo. Perché un uomo del genere si trova molto più avanti dei suoi colleghi” L. Kahn, Monumentality, New York, 1944
Uno scandaglio entro gli intimi anfratti di ciò che dovrebbero essere le ragioni prime del fare architettura connota il testo di Federica Visconti, Lo spazio al centro in Kahn (LetteraVentidue, 2023), teso a dare conto di un comportamento progettuale che si attua non solo in ragione del fare architettonico ma cogliendone le motivate origini. Come risponde l’autrice a questa sua ossessione kahniana? Risponde con la voce dell’architetto “estone di Philadelphia” proponendo una lettura mirata e circoscritta per dare voce a quelle architetture che a partire da uno “spazio centrale” – sue parole –, “reificano le più profonde riflessioni di Kahn sulla costruzione dello spazio architettonico”, e ci conducono per mano alla comprensione cercata e voluta dell’atto primigenio, dell’archè dello spazio.
Delle pur profonde riflessioni attorno a dei nuclei centrali del comporre kahniano, organizzati nelle qui elencate opere – la Morton Goldenberg House; l’Unitarian Church; il Salk Institute; la Hurva Synagogue; la National Assembly di Sher-e-Bangla Nagar – scegliamo, non solo per comodità di lettura, ma per ragioni affini, l’ultima delle architetture attenzionate da Federica Visconti: il Roosevelt Memorial a New York. Proiettato come la punta di una freccia, Kahn sembra porgerci quest’ultimo progetto come il dono degli inizi e della fine: in esso, infatti, si coagulano i termini estremi del fare architettura. L’archetipo ha svolto il suo ruolo, ha compiuto il suo percorso, come il baco poi farfalla e l’architettura pone una seria questione di circolarità.
Ed è proprio la punta di questa freccia, che non offende, a fare di questo monumento un vero testimone dell’architettura. La stanza, la cellula primigenia, quella che vediamo raffigurata nei geroglifici egiziani, quella che i migliori architetti di tutti i tempi si sono costretti ad inseguire nei loro progetti, più ancora che la casa di Adamo in paradiso del Rykwert, si pone frontalmente alla coscienza chiedendo risposte, attivando dubbi, perseguendo direzioni. Se una rosa è una rosa, una stanza è una stanza. Come non trovare assonanze con i monumenti rossiani proposti: è del 1962 il monumento alla Resistenza di Cuneo, purtroppo mai realizzato, ma che anticipa il monumento a Sandro Pertini a Milano del 1988. È del 1972 il lavoro di Kahn, di un decennio successivo. Una introspezione e un confronto tra le due opere apparirebbe necessario soprattutto per individuare le ragioni intime del monumento caro a entrambi, pur con risvolti differenti.
E leggendo il testo di Federica Visconti “Lo spazio al centro in Kahn”, per una strana assonanza linguistica, o fonetica se vogliamo, si è fatto “spazio” entro di me il ricordo delle notazioni che Cesare Brandi avviava in merito al concetto di astanza. “L’astanza è, in altre parole, una qualità intrinseca dell’arte che trascende l’esistenza e il tempo e si conforma a una immutabile eternità. La temporalità nell’astanza infatti si condensa in un hic et nunc, una eternità che è attualità di partecipazione coscienza-opera. L’astanza è quell’attimo in cui una espressione artistica – o sarebbe meglio dire la realtà pura dell’arte – si presenta alla coscienza, condensandosi in una immagine, che può essere anche, come nel caso della poesia o della musica, ma direi anche della danza, il prendere forma di un indefinibile, il farsi presenza di un’assenza, un mostrarsi del lato in ombra del mondo, un assumere figura di un infigurabile”. Queste le parole riprese da Elisa Anzillotti, nel suo Fantasmata: l’astanza della danza? Estendendo il concetto all’architettura si comprende come tutta l’opera kahniana sia pervasa da questo sentire, sia preventivamente assoggettata all’idea di rispondere a questo imperativo primordiale.
Gli esempi che Federica Visconti porge all’attenzione, e che si snocciolano in altrettanti brevi capitoli, insistentemente di questo ci parlano, a costo di volute e palesi omissioni. La lente dell’autrice si concentra su quello che poi è il nocciolo duro della questione: si può dare architettura, oltre le facili condizioni o richieste funzionali? Si può pensare a questa arte del comporre indipendentemente dalle esigenze prettamente materiali? Si può estrarre – come la stessa suggerisce – dalla sua immensa opera il tema delle istituzioni umane e della rappresentatività che l’architettura potrebbe dare loro?
Le risposte date attraverso i progetti di Kahn, sapientemente rielaborati dall’autrice, tanto da tradurli anche graficamente a una lettura omogenea e coerente, esaltano questo lato intimo del progettista Iperboreo. Come per Caillois che vedeva nelle pietre la summa delle domande possibili da fare all’esistenza, Louis Kahn interroga il mattone chiedendogli cosa esso vuole essere, permane “il demone dell’analogia, e la ricerca degli echi, delle corrispondenze disseminate nell’universo continuerà a sorreggere la riflessione e la (sua) scrittura” (Tomaso Cavallo).
Ma il mattone non basta, da solo non fa spazio, questo lo si dà con la cellula primitiva, la stanza, crogiolo di qualunque cominciamento, per questo si amano gli “inizi”. Non a caso, per raffigurare la casa, nei geroglifici dell’antico Egitto, gli arpedonapti incidevano una sorta di modesta spirale avvolgente un perimetro murario: bozza e sintesi dell’idea di stanza. Louis Khan fa lo stesso con le sue architetture che si dipartono da un nucleo incandescente capace di aggregare, come un magnete, altri corpi similari, stanze su stanze, quasi frattaliche, ove l’esito finale di questa lunga peregrinazione risulta essere, a ben vedere, proprio il Roosevelt Memorial. Qui tutto si fa palese, i tagli delle fenditure per osservare il paesaggio, le ali murarie aperte come ad abbracciare lo spazio accogliendolo, il dentro che coincide con il fuori. La stanza, che si proietta avvelenata nella punta della freccia, non necessita nemmeno di una copertura, basta il cielo stellato, proprio perché sotto di esso si raccolgono le istituzioni, quelle in cui Kahn credeva, a patto che queste non si riducessero a sterili programmi, ma racchiudessero l’essenza della vita civile, quella cercata in ogni sua architettura.
Un monolite gigantesco e intimo allo stesso tempo, da germinazione cristallografica che a tratti arresta la sua espansione, un’architettura del frammento preventivo, della rovina, del bombardamento, che ha tagliato le radici e la chioma, un luogo religioso, il più laico e umano dei luoghi sacri, una cava di pietre messe in ordine, dove crediamo si riconoscesse, tanto da farci pensare con Roger Caillois – e molte cose lo fanno supporre nell’opera kahniana – che “L’estrema acèdia (come si chiamava allora la tristezza propria dei religiosi) riduce l’uomo ad uno scoramento ultimo e insondabile: lo rende assolutamente identico ai minerali”: mattone tra mattoni.
Marcello Sèstito
N.d.C. Marcello Sestito è professore ordinario di Composizione architettonica e urbana all’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Insegna Composizione architettonica e urbana e Urban design presso l’area Architettura di ateneo e svolge attività di ricerca al Dipartimento di Architettura e Territorio.
Tra i suoi libri: Alfabeti d'architettura (Gangemi, 1994); Colonne stilate (Sapiens, 1994); Il gorgo e la rocca. Tra Scilla e Cariddi territori della mente (Giuditta, 1995); Architetture globali solidi fluidi, o Del comporre retto e curvo (Gangemi, 2002); L'architettata mano. Pentedattilo palmo di pietra (Rubettino, 2004); (a cura di), Architettura & (Jason, 2004); Immedesimazioni (Prospettive, 2008); (a cura di), Eugenio Battisti, Intorno all'architettura. Scritti dal 1958 al 1989 (Jaca book, 2009); Fata Morgana o la città riflessa (Rubettino, 2010); (a cura di, con Antonella Pavia), Renato Nicolini, Cartoline 2005-2012 (Prospettive, 2012); In cARTE di pane. Architetture 1980-2013 (Citta del Sole, 2013); Architettura animale. Bestiario ininterrotto (Rubbettino, 2015); Architettando- Artichettando (Rubbettino, 2016); Corpo e architettura, o De humani fabrica (Rubbettino, 2017); (a cura di), Giuseppe De Fazio, Grumi contratti di senso (Rubbettino, 2017); Globopolis, radiolarcity e archikoltura (Lussografica, 2018); 99 + 99: codice riflesso. Incontro con il Codice Romano Carratelli (Mediano, 2019); I guardiani dell'orizzonte. Antropometrie e corpi misurati (Iiriti, 2019); (a cura di), Luigi Vietti. Osteopaese (Timía, 2021); (a cura di) La Palazzata Bifronte (Rubbettino, 2021); Il ponte incontinente. Nello Stretto di Messina l'avventura di un archetipo il condensarsi di un simbolo (Mediano, 2021); (a cura di) Scenari postpandemia. Arte, architettura, utopia (Timia, 2021); L'architettura dei volti. Tratti. Ritratti. Autoritratti, 1975-2022 (Timia, 2022); (a cura di), Paolo Portoghesi, Dicaia (Timia, 2022); Rifrazioni (Mediano 2024). Di prossima pubblicazione: Grammatiche Terrestri (Timia, 2025).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 15 NOVEMBRE 2024 |
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