Marco Romano  
  casa-della-cultura-milano      
   
 

MEMORIA E BELLEZZA SOTTO I CIELI D'EUROPA


Riflessione a partire dal libro di Salvatore Settis



Marco Romano


altri contributi:



  marco-romano-cieli.jpg




 

Il libro di Salvatore Settis, Cieli d'Europa. Cultura, creatività, uguaglianza (Utet, 2017), appartiene a un genere letterario molto diffuso nella tradizione europea e se in fondo sono legittimato a sottoporlo a qualche commento è anche perché io stesso ne ho scritto uno riconducibile a quel medesimo genere (1). Commento che concerne la sua attendibilità morfologica nell'ambito di quello specifico genere letterario ma non la sua attendibilità come proposta nella sfera politica, ché - se tutte le opere riconducibili a questo genere letterario mettono d'obbligo in campo qualche progetto di riforma - nessuno potrebbe davvero mai sospettare che abbiano davvero una loro effettiva e immediata conseguenza in quella sfera politica cui implicitamente sembrano rivolgersi.

La forma ricorrente di questo genere letterario comporta due mosse ben distinguibili, in primo luogo una critica severa della società contemporanea e in secondo luogo, per l'appunto, un qualche suggerimento per riformarla conducendola sulla retta strada. Nella tradizione antica non mancano le reminiscenze di una mitica età dell'oro ma il suo ritorno non sarebbe stato l'esito di un radicale programma di riforma gestito dalla volontà umana ma la naturale conseguenza della circolarità del tempo, sicché la Repubblica di Platone con le sue leggi è un astratto esercizio di topografia sociale senza alcuna pretesa di legittimità politica, ché siamo destinati a ritrovarci tutti all'infinito proprio come siamo oggi. L'escatologia giudaico-cristiana impone invece un altro punto di vista: la vicenda umana ha una direzione e un senso, quello di un destino individuale codificato dopo la morte e della fine ultima del nostro mondo, sicché la razionalità della sfera politica ha in qualche misura l'obiettivo di costituire il contesto dove meglio rendere praticabile la buona vita, che ciascuno poi realizzerà con suoi comportamenti nell'ambito del suo libero arbitrio e nella prospettiva della propria morte ma anche nella convinzione appunto di essere in ogni momento comunque pronto a un'incombente apocalisse e al finale giudizio divino. La critica della società al tempo dei primi secoli cristiani trova le sue argomentazioni in un repertorio che intende esentare il lettore, nella sua estensione evocativa, dall'obbligo di sottoporre ogni voce a un giudizio razionale, convinto soprattutto dalla autorevole perentorietà della litania d'insieme: non sarà forse condivisibile in tutti i dettagli - sono davvero anch'io un peccatore! - ma Agostino, esprimendo il suo sdegno nella Civitas Dei, ritrae così i termini della decadenza morale contemporanea riprendendoli da Paolo.

Sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; e vi preavviso, come vi ho già detto, che chi le compirà non avrà parte nel Regno di Dio.

Quale sarà il rimedio? Chi appartiene alla religione cristiana ascolti la voce della Chiesa, spesso giustamente severa nei confronti dei nostri comportamenti, e la Chiesa alla quale tutti apparteniamo ha poi la voce terrena dei suoi ministri, legittimati da Gesù confidandola ai suoi discepoli, ma nel V secolo ha ancora molti avversari tra i pagani contemporanei.

La civitas, tuttavia, è anche un'istituzione civile alla quale chiediamo di porre rimedio con le sue leggi e le sue disposizioni alle conseguenze dei veri e propri delitti individuali - che possono anche essere di carattere religioso, come sarà duemila anni dopo considerata legittima la giurisdizione secolare dell'Inquisizione - e che soprattutto ai tempi di Agostino dovrebbe cancellare tutte le occasioni pubbliche del peccato, chiusi gli anfiteatri con i gladiatori e i teatri con le ballerine di Piazza Armerina, chiusi gli edifici termali e beninteso i templi e i santuari delle divinità pagane, e molto sospette persino le tentazioni del mercato nell'agorà: ora Bisanzio sarà forse davvero la Civitas Dei, una lunga strada cerimoniale con i palazzi della corte imperiale, e con una selva di monasteri ombreggianti una marea di casupole lignee dominata da Santa Sofia.

Dunque un genere letterario che prelude davvero a un programma politico? Solo per quanto concerne il rinnovo della sfera simbolica collettiva, ché poi le passioni e le fazioni resteranno quelle medesime di prima, sugli spalti in rivolta dell'ippodromo sopravvissuto a Bisanzio.

Ad Al-Farabi, che scriverà La città virtuosa verso la metà del X secolo, non occorre elencare i comportamenti trasgressivi perché in massima parte già ricordati nel Corano - che tutti i fedeli dovrebbero conoscere - e comunque ribaditi e articolati nella sunna, sottolineati nel caso da qualche imam nella moschea del Venerdì. Qui il problema è che se da un lato l'Islam è una religione individualista e il rapporto di ogni musulmano con Dio è un rapporto diretto, senza la mediazione di una gerarchia ecclesiastica, dall'altro la umma è anche una società politica la cui legittimità non è facilmente derivabile dalla religione, sicché Al-Farabi, per legittimarla, costruirà una ingegnosa interpretazione: come l'universo è connaturato ad Allah ma è anche ordinato gerarchicamente nella successione dagli angeli all'uomo e agli animali così dovrà essere la società politica, dovrà cioè essere come una piramide ordinata per strati con al suo vertice il musulmano più saggio e sapiente, un califfo cui nessuno dovrà chiedere la discendenza diretta da Muhammad - Al-Farabi non è ovviamente sciita - e che avrà tra tutti la maggior necessità di ricorrere per il proprio ruolo alle opere mondane di tutti gli altri musulmani, per costruire i suoi palazzi o le moschee e le mederse maggiori o per finanziare il suo apparato militare, e con alla sua base quanti per la propria sopravvivenza materiale non hanno bisogno di nessuno sotto di loro.

Ma a quale città pensano Agostino e Al-Farabi? La loro città non ha alcun carattere specifico, di dimensioni o di disegno come quella di Platone, è - dice Agostino - un ente politico, che

deve venire organizzato in modo tale da essere perpetuo. La morte naturale dello Stato - una morte come quella dell'uomo, per il quale non solo è inevitabile ma spesso desiderabile - non dovrebbe mai capitare perché un'entità politica, quando viene soppressa, è distrutta, è annientata; è come se, in un certo senso, tanto per paragonare le piccole cose alle grandi, tutto questo mondo scomparisse e precipitasse nel nulla.

Lo stato cui pensa Agostino è proprio l'impero romano - il solo del resto immaginabile - e se Alarico ha persino saccheggiato Roma, goti e visigoti vanno integrandosi nei suoi confini diventando persino cattolici ma smembrando poi quell'unità politica dell'impero che tanto stava a cuore ad Agostino, quello stato imperiale e religioso che riemergerà nei fatti, in formato territorialmente ridotto soltanto ai tempi di Carlomagno. Quello di Al-Farabi è poi il califfato degli Abbasidi, irradiato dalla nuova capitale a Baghdad ma ai suoi tempi ormai ridotto, dal proliferare di emirati dall'Andalusia all'India, a una sovranità nominale su una umma che in fondo non la contemplava davvero, troppo lontana le predicazione di muhammad e ritornerà un impero territoriale soltanto con gli ottomani.

Di questo impero carolingio così simile a una Civitas Dei Agostino nel IX secolo avrebbe potuto essere soddisfatto se poi le controversie seguite alla morte di Carlomagno non fossero diventate non soltanto il teatro di tutte le peggiori nefandezze evocate da Paolo ma venissero anche incrinate da interminabili conflitti dinastici che mettono in forse la legittimità stessa dello Stato. Sicché in qualche misura spaventati da questo disordine istituzionale e persino morale - che incrinava l'ordine della speranza - gli abitanti dei villaggi e delle sedi episcopali, soprattutto in Italia e in Francia, andranno costituendosi in consapevoli comunità sotto i ricorrenti principi dell'unitas e dell'aequalitas, una civitas cementata dal pubblico e ricorrente giuramento collettivo.

 

Se tutti sono contestualmente cittadini della città cristiana, della città dell'uomo e della città di Dio, con un medesimo atto esplicito del battesimo e del giuramento - ricordiamo qui che l'appartenenza all'Islam è data invece dalla nascita - la civitas nel suo corpo politico è anche un corpo mistico. Ma - se in quanto singoli cattolici i cittadini potranno poi di tutti i peccati evocati da Agostino, dei quali poi renderanno conto al Buon Dio - il principio dell'aequalitas di tutti i cittadini rende l'intera civitas corresponsabile della condizione umana dei suoi membri più poveri, mentre qualsiasi musulmano può disattendere le prescrizioni morali trasmesse nel Corano senza essere colpevole anche dei poveri alla base dell'ordine sociale, cui è obbligato soltanto dall'elemosina rituale. Se siamo tutti cittadini al medesimo diritto della civitas, allora la ricchezza individuale sullo sfondo dei suoi poveri diventerà, in Pietro Cantore o in Alessandro Neckam, l'argomento di una vera e propria campagna recriminatoria: i denari dissipati dai più abbienti nel superfluo dei palazzi, delle vesti, dei pranzi sarebbero meglio spesi sovvenendo un povero per meritarsi il paradiso, perché tutti noi siamo corresponsabili della loro medesima infelice condizione. L'esistenza medesima dei poveri è infatti nella civitas una vera e propria trasgressione collettiva della quale tutti dovranno rispondere davanti a Dio, sicché da questo momento la civitas europea, quella che dovrebbe essere la Civitas Dei di Agostino, concordia di liberi cittadini protetta dal suo parroco e dal suo vescovo, riemerge come un irrimediabile peccatore collettivo a rifondare nei suoi nuovi termini il nostro genere letterario.

Il nocciolo tematico sul versante della morale individuale resta quello agostiniano allargato al rapporto della civitas con i propri poveri, ma i predicatori di allora non sanno poi come suggerire una conseguente riforma dello Stato, che sul versante del potere laico non ha molte antiche tracce monumentali dei pagani da demolire e finirà soltanto per disciplinare severamente - con leggi suntuarie iterate fino nel Seicento - gli eccessi pubblici nella sfera alimentare (limitando il numero degli invitati ai pranzi di nozze e i piatti serviti nonché la loro consistenza e la loro composizione) e in quella dell'abbigliamento, limitando il numero e la ricchezza delle più eleganti vesti femminili. Un modo per confermare il rispetto collettivo per la povertà nella sfera visibile ma non di attenuarla, compito di istituzioni laiche e autogestite che raccoglievano e ridistribuivano le elemosine volontarie. Troppo poco per i rinnovati cultori del nostro genere letterario. Restano infatti i poveri e resta soprattutto una cultura delle élite perduta nelle dispute intellettuali ma incapace di affrontare il tema dell'aequalitas sul versante politico: la civitas è malata - sarà per secoli quella civitas costantemente malata sullo sfondo della prima mossa evocata dal nostro genere letterario - senza un vero rimedio connaturato alla civitas medesima, irrimediabilmente perduta alle speranze di Agostino, e dunque destinata a venire consegnata in condizione collettiva di peccato, come Sodoma e Gomorra, al fatidico giorno del giudizio.

Fuggite da Babilonia, fuggite e salvate le vostre anime! - grida Bernardo di Chiaravalle ai maestri e agli studenti di Parigi - volate tutti insieme verso le città del rifugio, verso i monasteri, dove potrete pentirvi del passato, vivere il presente nella grazia e attendere con fiducia l'avvenire! Tu troverai molto di più nelle foreste che nei libri; i boschi e le pietre ti insegneranno più di quanto possa insegnarti qualsiasi maestro.

Questa ouverture moderna del nostro genere letterario è clamorosamente trasgressiva della tradizione di Agostino e di Al-Farabi: ora che davvero gli europei hanno realizzato una Civitas Dei costituita e governata da cittadini cristiani e cattolici, l'inevitabile presenza del peccato individuale che nessuna sfera istituzionale sembra poter cancellare la rivela nella sua natura di fantasticheria letteraria. Il fatto clamoroso che la predicazione di Bernardo abbia avuto una conseguenza del massimo rilievo nella fondazione di innumerevoli monasteri cistercensi e nella contemporanea colonizzazione agraria di terre lasciate fino ad allora praticamente incolte non ci impedisce di riconoscere in questo successo non una nuova Civitas Dei ma piuttosto la sua stessa negazione.

 

La variante letteraria di contestare in toto l'esistenza medesima di una grande città non avrà in seguito molte repliche perché, sottolineati i suoi malanni, diventerà per secoli difficile costruire il modello di una città-stato confessionale, quello stesso di Calvino a Ginevra un irripetibile esperimento di autocrazia religiosa. Resta allora da convertire i cittadini della civitas nell'ambito stesso della loro città, dove ora i predicatori appunteranno il loro programma di rigenerazione morale. Pentitevi!, pentitevi dunque, sono le infuocate parole di Bernardino da Siena o di Girolamo Savonarola! Accendete un vero e proprio rogo delle vostre vanità, di tutte le vostre cose preziose e superflue, per santificare una volta per sempre la vostra intera civitas! Bruciate le troppe immagini custodite nei vostri palazzi e nelle vostre case! Bruciate le vesti preziose! Bruciate le carte da gioco istoriate e finiscano nel falò rigeneratore anche i dadi, tollerati forse soltanto quei quattro davvero modesti dei giocatori nell'angolo sinistro del Buongoverno. Qualche mio conoscente rimpiange le opere d'arte così immolate, ma per quanto posso immaginare le famiglie più doviziose sacrificheranno soprattutto quelle già ormai considerate obsolete, in un prudente confronto con quelle sacrificate dalle altre. Di fatto la rigenerazione della civitas coincide ora con il pentimento e l'implicita promessa - letteraria - dei suoi cittadini, perché la rigenerazione della civitas in quanto tale, quella che comporta la scomparsa dei poveri, è di là da venire.

(continua la lettura)

MEMORIA E BELLEZZA SOTTO I CIELI D’EUROPA

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

08 GIUGNO 2018

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018:

V. Biondi, La nuova crisi urbana negli USA, commento a: R. Florida, The New Urban Crisis (Basic Books, 2017)

P. Colarossi, Per un ritorno al disegno della città, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2012, rist. 2015)

A. Clementi, In cerca di innovazione smart, commento a: C. Morandi, A. Rolando, S. Di Vita, From Smart Cities to Smart Region (Springer, 2016)

P. Pucci, La giustizia si fa (anche) con i trasporti, commento a: K. Martens, Transport Justice. Designing fair transportation systems, (Routledge, 2017)

E. Trusiani, Ritrovare Mogadiscio, commento a: N. Hagi Scikei, Exploring the old stone town of Mogadishu (Cambridge Scholars Publishing, 2017)

A. Villani, Post-metropoli: quale governo?, commento a: A. Balducci, V. Fedeli, F. Curci, Oltre la metropoli (Guerini, 2017)

R. Cuda, Le magnifiche sorti del trasporto su gomma, commento a: M. Ponti, Sola andata (Egea 2017)

F. Oliva, Città e urbanistica tra storia e futuro, commento a: C. de Seta, La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi (Longanesi, 2017) e La città, da Babilonia alla smart city (Rizzoli, 2017)

J. Gardella, Attenzione al clima e alla qualità dei paesaggi, commento a: M. Bovati, Il clima come fondamento del progetto (Marinotti, 2017)

R. Bedosti, A cosa serve oggi pianificare, commento a: I. Agostini, Consumo di luogo (Pendragon, 2017)

M. Aprile, Disegno, progetto e anima dei luoghi, commento a: A. Torricelli, Quadri per Milano (LetteraVentidue, 2017)

A. Balducci, Studio, esperienza e costruzione del futuro, commento a: G. Martinotti, Sei lezioni sulla città (Feltrinelli, 2017)

P. C. Palermo, Il futuro di un Paese alla deriva, riflessione sul pensiero di Carlo Donolo

G. Consonni, Coscienza dei contesti come prospettiva civile, commento a: A. Carandini, La forza del contesto (Laterza, 2017)

P. Ceccarelli, Rappresentare per conoscere e governare, commento a: P. M. Guerrieri, Maps of Delhi (Niyogi Books, 2017)

R. Capurro, La cultura per la vitalità dei luoghi urbani, riflessione a partire da: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2017)

L. Ciacci, Il cinema per raccontare luoghi e città, commento a: O. Iarussi, Andare per i luoghi del cinema (il Mulino, 2017)

M. Ruzzenenti, I numeri della criminalità ambientale, commento a: Ecomafie 2017 (Ed. Ambiente, 2017)

W. Tocci, I sentieri interrotti di Roma Capitale, postfazione di G. Caudo (a cura di), Roma Altrimenti (2017)

A. Barbanente, Paesaggio: la ricerca di un terreno comune, commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

F. Ventura, Su "La struttura del Paesaggio", commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

V. Pujia, Casa di proprietà: sogno, chimera o incubo?, commento a: Le famiglie e la casa (Nomisma, 2016)

R. Riboldazzi, Che cos'è Città Bene Comune. Ambiti, potenzialità e limiti di un'attività culturale

 

 

I post