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Il costrutto del libro di Francesco Indovina, Ordine e disordine nella città contemporanea (FrancoAngeli, 2017) si svolge, semplificando molto, intorno a tre passaggi: a) la città è fatta di parti "ordinate" e di parti "disordinate", b) l'urbanistica ha sempre cercato di "ordinare" senza peraltro quasi mai riuscirvi, e c) la costruzione di un ordine urbano (in corsivo nel testo, p. 181), tema rispetto al quale l'autore indica alcune questioni da affrontare.
Il tema dell'ordine e del disordine è stato oggetto di riflessione da parte di svariati autori (solo alcuni: J. Rémy e L. Voyé, Ville, ordre et violence, Formes spatiales et transaction sociale, del 1981, G. Mooney et al., Unruly Cities?: Order/disorder, del 1999, S. Fainstein, Cities and Diversity Should We Want It? Can We Plan For It? del 2005. In The Uses of Disorder, Personal Identity & City Life del 1970 Richard Sennett metteva in evidenza come "la giungla della città la sua vastità e solitudine, hanno un valore positivo. Credo davvero-affermava Sennett - che certi tipi di disordine che esistono nel mondo urbano debbano essere accresciuti in modo che l'uomo raggiunga la piena età adulta […] perdendo il gusto della violenza innocente".
Insomma, che ordine e disordine siano da sempre compresenti nella città è riflessione diffusa, come anche che il disordine sia parte costitutiva della dinamicità della vita urbana. Argomentare su ordine e disordine vuol dire quindi spostarsi su un terreno impervio. Perché ovviamente non esiste un solo ordine: ciò che appare come disordine in una determinata parte del mondo, e dunque nella società urbana che lo configura, è spesso solo un diverso ordine che si trova in un'altra parte del mondo e in un'altra società urbana, tanto più se si guarda, come fa l'autore, a periodi storici diversi. Visitando una qualsiasi città asiatica o dell'Africa subsahariana, molti sarebbero colpiti dal loro disordine. Invece funzionano piuttosto bene, soprattutto pensando al poco di cui spesso dispongono.
Indovina ricorda ripetutamente, e a ragione, che la città è il portato dell'organizzazione sociale e economica e, aggiungo, della cultura che la sottende, che la produce e la usa, ma nel libro sembra tener poco conto del fatto che esistono culture diverse nel mondo, con, appunto, le proprie specifiche organizzazioni sociali, economiche e di governo. Per un libro che propone una riflessione complessiva sul tema della città, del suo ordine e dis-ordine, si configura come una manchevolezza eurocentrica di tipo illuministico e universalistico che di tutta evidenza cozza con il fatto che le città dell'Italia e dell'Europa, oggi, sono piccola cosa rispetto alle città (se si possono chiamare ancora così, N. Brenner and C. Schmid, 2015) che si sono formate e si stanno formando altrove. E che il conflitto tra ordine e disordine non è solo un problema all'interno delle singole città e dei singoli paesi, ma tra modelli diversi di città a livello globale, con tutto quello che ciò comporta per la definizione di un nuovo "ordine" economico, sociale e culturale.
Aggiungiamo che il terreno è impervio perché ordine e disordine, oltre a essere prodotti culturali della modernità in Occidente, rispondono spesso a sensazioni largamente soggettive, difficili da definire. Affermare che "'ordine' e 'disordine' si oppongono in una specie di lotta senza quartiere, ma pur opponendosi sono elementi dinamici l'uno dell'altro, si sostengono vicendevolmente, non si contrappongono" (corsivo dell'autore, p. 11), è formulare una valutazione probabilmente largamente condivisibile, ma che senza elementi direi "concreti" a sostegno, non porta molto lontano. E se fosse vero il contrario? La "frammentazione urbana" avviene tra pezzi di quel puzzle urbano, che Indovina richiama nel libro (p. 110), che si contrappongono o che sono complementari? Le gated communities, cui anche Indovina fa riferimento, si intrecciano con ciò che sta loro intorno, o cercano di astrarsene il più possibile, contrapponendovisi? Certamente il rapporto tra ordine e disordine non è mai bianco o nero, ma è necessario capire - cioè misurare - di che tono di grigio è, diversamente non si sa da che parte andare. È come il "ricucire le periferie", o la "città porosa" o "compatta", o ancora "la città sostenibile" o "la resilienza urbana", slogan accattivanti ma che non aiutano molto a decidere su quello che è bene fare.
Incerta mi sembra anche l'affermazione di Indovina secondo cui "la città come costrutto sociale sembra deperire" (p. 66). È vero che non è il solo a pensarla in questo modo: il nuovo libro di Richard Florida (The New Urban Crisis, 2017) riguarda proprio la crescente disuguaglianza, segregazione e contrazione del ceto medio nella città americana. Tuttavia, in giro per il mondo (e anche in Europa) c'è un bel numero di città in piena espansione (economica), in pieno fervore (culturale), straordinariamente complesse (sul piano sociale), ma difficilmente etichettabili come disordinate. La complessità, che sappiamo essere il frutto dei cambiamenti intervenuti in questi decenni nel sistema economico e dunque nei rapporti di produzione, nell'impianto familiare e dunque nel tessuto sociale, nelle reti di relazioni e dunque nell'uso dello spazio urbano, nulla ha a che vedere con il disordine. Per questo, come asserisce con chiarezza Indovina, la complessità richiede capacità di guida maggiori rispetto al passato, attraverso strumenti e modalità di piano molto più flessibili di quelli disponibili e richiesti oggi (in Italia), che permettano di aggiustare il tiro in corso d'opera senza modificare nella sostanza gli obiettivi. È proprio la complessità che, davanti a politiche nazionali sempre meno incisive tanto da far avanzare l'ipotesi dell'esaurirsi dell'idea stessa di stato-nazione, spinge città come Barcellona, Berlino, Napoli, a tornare ad essere laboratori di sperimentazione e di innovazione in campo sociale e politico.
Ancora, sappiamo che l'ordine dà sicurezza, ma al tempo stesso "normalizza", uniforma, crea intolleranza per la diversità, generando spesso conformismo e noia. Basti pensare ai quartieri modello olandesi o svedesi, fulgidi esempi dell'urbanistica del dopoguerra, o alle gated communities sparse per il mondo. Il disordine può essere vissuto come insicurezza, minaccia, ma anche come stimolo e creatività, come condizione per lo sviluppo della Creative Class. Per contro, non sarei così disposto a accettare l'affermazione di Indovina per cui "la prevalenza del disordine è sempre molto vantaggiosa per pochi (i "ricchi") mentre molti ne pagano un prezzo pesante (i "poveri")" (p. 11. "Il 'disordine' degli insediamenti irregolari nelle città del sud del mondo è la risposta dei 'poveri' all' 'ordine' dei ricchi (la città formale)"). Il piano - l'"ordine" nella città - da sempre costituisce elemento di formazione della, e sostegno alla, rendita, dunque, quando non accuratamente accompagnato da adeguati meccanismi di riappropriazione pubblica del plusvalore privato che genera, di strumento che avvantaggia i "ricchi".
Il problema nella città di oggi (ma forse in quella di sempre) mi pare stia meno nell'ordine o nel disordine, più nella diseguaglianza. Sappiamo che è la crescente diseguaglianza uno dei tratti peculiari di questo inizio di millennio, se non il tratto principale. Secondo UN-Habitat (2016) la diseguaglianza attraversa fortemente le città americane, con New York al primo posto, molto quelle dell'America Latina, moltissimo quelle dell'Africa, meno quelle dei paesi orientali. In Europa le cose vanno meglio, anche se Londra, Madrid e altre ancora negli anni della crisi hanno registrato un forte aumento del divario socioeconomico e dei livelli di segregazione al proprio interno. È vero che parti ampie, amplissime, delle città - ovunque nel mondo - negli ultimi cinquant'anni sono state edificate in maniera, come dire, "affrettata", sulla spinta di un'urbanizzazione intensa. Qui Indovina ha assolutamente ragione ad avere un atteggiamento critico nei confronti del "disordine", non rispetto a un ordine urbanistico, ma perché disordine significa maggiori costi per i più deboli, quelli la cui unica alternativa sono appunto gli insediamenti costruiti dove si può e come si può, di conseguenza quasi sempre privi di infrastrutture e servizi. Con questa precarietà le città dovranno convivere, per decenni, e anche dopo. Data la situazione, difficile pensare che si possa realizzare un "ordine" come quello dell'urbanistica cui il libro fa riferimento nella prima parte, ma che appare essere quello che Indovina mette in campo anche in quelle successive. Nella gran parte delle città - nel mondo - la situazione è caratterizzata molto più dal "dis-ordine" della seconda metà dello scorso secolo che continua ancora oggi, che dall'"ordine" della città europea dell''800 (anche di quella costruita nelle colonie), o di quella dell'addizione Erculea a Ferrara, con cui il libro apre gli "episodi di urbanistica 'moderna'", cioè di urbanistica ordinata.
Il libro si colloca dunque, in generale, all'interno del perimetro della dimensione nazionale, peraltro ben rappresentato dagli autori cui viene fatto più spesso riferimento: Astengo, Benevolo, Campos Venuti, Cervellati, Rossi, Secchi, insieme a altri, le cui riflessioni muovono principalmente dalle esperienze acquisite in Italia, solo di rado in Europa, mai oltre. Una conferma di questo approccio è la sezione sui "temi emergenti della pianificazione", che Indovina indica, anche se "a modo di promemoria, senza nessuna pretesa di essere esaustivi", ma ben sapendo che una lista è sempre una lista: il recupero del patrimonio, il cambiamento climatico, lo spazio pubblico, le periferie, gli immigrati e più in generale i gruppi più deboli, la sicurezza e i trasporti. Nodi questi di cui siamo tutti consapevoli, ma che la prospettiva '"ordine" - "dis-ordine" non aiuta molto a allentare.
L'impressione è dunque che il tema trattato nel libro sia un po' accessorio rispetto al tipo di questioni che vanno affrontate nella e per la città di oggi. Occorre allargare l'orizzonte, e non di poco. Il tempo di cambiamenti profondi che stiamo vivendo impone che ci attrezziamo per sostenerli, accompagnarli o, se necessario, contrastarli. Molte sono le questioni che la città dei prossimi decenni deve affrontare, per esempio: la tecnologia, l'innovazione sociale, le forme di governo.
- La tecnologia ci sta portando alle smart o intelligent cities (Carlo Ratti parla di una "senseable city, una città capace di sentire, ma anche una città sensibile e capace di rispondere ai cittadini") cioè una città in cui l'innovazione tecnologica consente di spendere meno, in maniera più efficiente, migliorando l'accessibilità ai servizi, promuovendo la trasparenza nella presa delle decisioni e consentendo la valutazione dei risultati (non sempre è così, ma molte città hanno fatto significativi passi avanti in questa direzione); all'Internet of Things (robotica, domotica e così via); a energie più pulite, sistemi di trasporto collettivo oggi solo allo stadio sperimentale ma che rivoluzioneranno il sistema della mobilità urbana, nuovi materiali e modalità costruttive che cambieranno i modi di costruire, produzioni in casa con le stampanti 3D, e via dicendo.
- L'innovazione sociale - cioè nuove idee che rispondono a bisogni vecchi e nuovi ma allo stesso tempo costruiscono spazi di politica attraverso reti di relazioni - non è tanto uno slogan che va di moda, ma è o può divenire una modalità per costruire reti di impatto sociale e politico della cui rilevanza cominciamo appena a renderci conto. L'azione collettiva, che si è andata estendendo in questi anni come forma di difesa a fronte del contrarsi della presenza sociale dello stato, costituisce lo strumento per sostenere "l'inclusione sociale e contrastare o superare le spinte conservatrici che lavorano per rafforzare o mantenere le condizioni di esclusione" (Moulaert et al. 2013). Nella città europea queste forme di mobilitazione e di azione stanno diventando sempre più numerose nella maggior parte dei casi innovative, e per quanto riguarda l'urbanistica, "spiazzanti" perché con aspetti, azioni e risultati che escono dal recinto delle regole e dei metodi consolidati.
Innovazione sociale e tecnologia non sono in opposizione, anzi. Le città che mettono insieme coinvolgimento e soluzioni "smart" sono in generale quelle che meglio riescono a reagire alle questioni nuove che si stanno ponendo, da Seoul a Boston, da Vienna a Amsterdam, passando per Stoccolma, Parigi e Londra, per restare in Europa.
- La questione della rappresentanza, del governo (che della governance si serve, ma non può esserne sostituito) e dei suoi modi, del ruolo delle istituzioni, quindi anche della pianificazione e della norma, cioè dell'ordine e del disordine. Di fronte all'indebolimento profondo del sistema di rappresentanza cui stiamo assistendo, occorre valutare se, come e quanto le istituzioni sono in grado di modificare il proprio modo di governare, non solo (re)introducendo elementi di effettiva rappresentanza ma anche trasferendo passaggi del potere decisionale (empowerment) ai cittadini. Qui il riferimento è specificamente alla città europea, e a quella italiana, perché è qui che si sta sviluppando, sulla spinta ovviamente di Barcelona en Comù ma non solo, una linea di pensiero (il neomunicipalismo) convinta che sia il locale la risposta all'inadeguatezza delle politiche attuali. Un convincimento che si fonda sull'assunzione (constatazione) che è la città il luogo dell'innovazione, della sperimentazione, prima di tutto politica considerando la città un bene comune, dove è possibile (oltre che necessario) costruire una società cosmopolita, dove si affermano nuove forme di collaborazione e nuove modalità di interrelazione.
In tale orizzonte, soffermarsi sull'ordine e il disordine ci può certo aiutare a mettere meglio a fuoco alcune sfumature che possono esserci sfuggite sui caratteri e il funzionamento della città (italiana). Ma i temi da affrontare per e nell'"urbano" si sono profondamente spostati rispetto a solo pochi anni fa. Sembra a me che anche a quelli sarebbe bene guardare.
Marcello Balbo
N.d.C. - Marcello Balbo, già professore ordinario di Urbanistica all'Università Iuav di Venezia, è titolare della cattedra Unesco "Social and Spatial Integration of International Migrants: urban policies and practice" presso lo stesso ateneo. È stato coordinatore di diversi progetti di ricerca e consulente nell'ambito di progetti di pianificazione urbana in paesi come l'Afghanistan, la Cambogia, l'Eritrea, la Somalia e l'America Latina.
Tra i suoi libri: con C. Diamantini (a cura di), La città del sottosviluppo. Esperienze, problemi, prospettive (FrancoAngeli, 1984); (a cura di), La città degli altri. La riqualificazione urbana nei paesi in via di sviluppo (Cluva, 1989); Frammentazione della città e pianificazione urbana nel terzo mondo (Iuav, 1991); con D. Pini (a cura di), Medina di Fes. Studi per la riqualificazione dell'asse del Boukhrareb (CittaStudi, 1992); Povera grande città. L'urbanizzazione nel Terzo mondo (FrancoAngeli, 1992); con F. Navez-Bouchanine, Frammentazione spaziale e frammentazione sociale. Il caso di Rabat-Sale (Daest, 1993); con D. Pini (a cura di), Medina di Sale. Studi e ipotesi per la riqualificazione urbana (CittaStudi, 1993); L'intreccio urbano. La gestione della città nei paesi in via di sviluppo (FrancoAngeli, 1999); (a cura di), La città inclusiva. Argomenti per la città dei pvs (FrancoAngeli, 2002); (a cura di), International migrants and the city: Bangkok Berlin Dakar Karachi Johannesburg Naples Sao Paulo Tijuana Vancouver Vladivostok (UN-Habitat, 2005); (a cura di), La città nei PVS. Sviluppo e inclusione sociale (Cleup, 2009); Social and spatial inclusion of international migrants. Local responses to a global process (Iuav - Ssiim Unesco, 2009); (a cura di), Médinas 2030: scénarios et stratégies (L'Harmattan, 2010); (a cura di), The Medina: the restoration and conservation of historic Islamic cities (I.B.Tauris, 2012); (a cura di), Migrazioni e piccoli comuni (FrancoAngeli, 2015).
Del libro oggetto di questo commento si è discusso alla Casa della Cultura l'8 maggio 2018 nell'ambito della VI edizione di Città Bene Comune.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 07 SETTEMBRE 2018 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
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R. Milani, Viaggiare, guardare, capire città e paesaggi, commento a: C. de Seta, L'arte del viaggio (Rizzoli, 2016)
F. Gastaldi, Un governo del territorio per il Veneto?, commento a: M. Savino, Governare il territorio in Veneto (Cleup, 2017)
G. Nuvolati, Tecnologia (e politica) per migliorare il mondo, commento a: C. Ratti, La città di domani (con M. Claudel, Einaudi, 2017)
F. Mancuso, Città come memoria contro la barbarie, commento a: A. Zevi, Monumenti per difetto (Donzelli, 2014)
M. Morandi, Per una Venezia di nuovo vissuta, commento a: F. Mancuso, Venezia è una città (Corte del Fontego, 2016)
R. Pavia, Leggere le connessioni per capire il pianeta, commento a: P. Khanna, Connectography (Fazi, 2016)
G. Consonni, In Italia c'è una questione urbanistica?, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)
M. Romano, Memoria e bellezza sotto i cieli d'Europa, commento a: S. Settis, Cieli d'Europa (Utet, 2017)
V. Biondi, La nuova crisi urbana negli USA, commento a: R. Florida, The New Urban Crisis (Basic Books, 2017)
P. Colarossi, Per un ritorno al disegno della città, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2012, rist. 2015)
A. Clementi, In cerca di innovazione smart, commento a: C. Morandi, A. Rolando, S. Di Vita, From Smart Cities to Smart Region (Springer, 2016)
P. Pucci, La giustizia si fa (anche) con i trasporti, commento a: K. Martens, Transport Justice. Designing fair transportation systems, (Routledge, 2017)
E. Trusiani, Ritrovare Mogadiscio, commento a: N. Hagi Scikei, Exploring the old stone town of Mogadishu (Cambridge Scholars Publishing, 2017)
A. Villani, Post-metropoli: quale governo?, commento a: A. Balducci, V. Fedeli, F. Curci, Oltre la metropoli (Guerini, 2017)
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F. Oliva, Città e urbanistica tra storia e futuro, commento a: C. de Seta, La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi (Longanesi, 2017) e La città, da Babilonia alla smart city (Rizzoli, 2017)
J. Gardella, Attenzione al clima e alla qualità dei paesaggi, commento a: M. Bovati, Il clima come fondamento del progetto (Marinotti, 2017)
R. Bedosti, A cosa serve oggi pianificare, commento a: I. Agostini, Consumo di luogo (Pendragon, 2017)
M. Aprile, Disegno, progetto e anima dei luoghi, commento a: A. Torricelli, Quadri per Milano (LetteraVentidue, 2017)
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P. C. Palermo, Il futuro di un Paese alla deriva, riflessione sul pensiero di Carlo Donolo
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R. Capurro, La cultura per la vitalità dei luoghi urbani, riflessione a partire da: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2017)
L. Ciacci, Il cinema per raccontare luoghi e città, commento a: O. Iarussi, Andare per i luoghi del cinema (il Mulino, 2017)
M. Ruzzenenti, I numeri della criminalità ambientale, commento a: Ecomafie 2017 (Ed. Ambiente, 2017)
W. Tocci, I sentieri interrotti di Roma Capitale, postfazione di G. Caudo (a cura di), Roma Altrimenti (2017)
A. Barbanente, Paesaggio: la ricerca di un terreno comune, commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)
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V. Pujia, Casa di proprietà: sogno, chimera o incubo?, commento a: Le famiglie e la casa (Nomisma, 2016)
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