Francesco Ventura  
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SAPERE TECNICO E ETICA DELLA POLIS


Commento al libro di Salvatore Settis



Francesco Ventura


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Nel suo commento al libro di Salvatore Settis - Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili (Einaudi, 2017) - comparso in questa rubrica l'8 dicembre 2017 con il titolo Città e paesaggi: traiettorie per il futuro, il sociologo Giampaolo Nuvolati mette in rilievo che "la pars destruens - dal commentatore apprezzata - è scarsamente corredata da una pars construens". Penso che a chiunque legga questa raccolta di lezioni tenute da Settis all'Accademia di Architettura di Mendrisio nel 2014/2015 salti all'occhio la mancanza rilevata da Nuvolati. Eppure, sono lezioni che hanno lo scopo esplicito e ben determinato di richiamare gli studenti di Architettura alla responsabilità pubblica che loro compete: il dovere di congiungere il sapere tecnico all'etica della Polis, ossia di subordinare i molteplici fini dei committenti di opere architettoniche allo scopo supremo costituito dal cosiddetto "bene comune". Questa è la pars construens chiara e inequivocabile. Se non viene notata come tale, nonostante la sua esplicitezza, è perché implicitamente la si ritiene irrilevante nel nostro tempo. Ma se è così, anche la pars destruens è inconsistente. Se, nonostante ciò, la si apprezza è perché raccoglie e dà in qualche modo autorevolezza a un sentire diffuso, senza analizzarlo e discuterlo, incontrando così un generico consenso in uditori e lettori. Il contenuto dello scopo supremo - per Settis - è il "Paesaggio" inteso nel senso più ampio possibile, ossia l'intera configurazione dello spazio abitato, che ha qualità paesaggistica quando vi è equilibrio armonico tra "Natura" (antropizzata nella forma paesaggio) e "Cultura" (agire tecnico produttivo) e tra quest'ultima e la comunità, dove devono regnare giustizia sociale e diritti alla città, al paesaggio, all'ambiente, alla natura. Tuttavia, non vi è un'autentica argomentazione a sostegno di tale scopo e della sua etica, quanto, piuttosto, un rinvenire nel passato tale equilibrio e il suo ethos, che, nel nostro tempo, il dominio dell'homo faber sulla "natura" va infrangendo. Qui sta il facile e generico consenso verso la pars destruens: chi è che oggi non avverte uno iato tra il passato e il presente, tale da apparire senza precedenti e suscitare qualche inquietudine?

Allora, l'interrogativo centrale per un commento critico è: quale fondamento può avere, se ce l'ha, un'unica etica per l'operare dell'architetto nel nostro tempo e, più in generale, di qualsiasi tecnica? Qui sta l'autentica lacuna delle lezioni di Settis. Nulla egli dice, infatti, sul perché - in senso rigoroso e fondato - l'ethos della tradizione sia venuto meno. E se il tramonto dell'ethos della tradizione è fondato e non un puro evento storico culturale che possa essere sostituito da qualsiasi altro evento incluso il suo ritorno, ne consegue che la sua riproposizione è priva di fondamento. È sempre possibile per chiunque, soprattutto secondo il senso di libertà che domina il nostro tempo, aver fede e proporre qualsiasi etica, ed esercitare l'idonea retorica per convincere il più alto numero di persone possibile. Altro è mostrarne la fondatezza aldilà della fede, ossia secondo logos. Mi propongo dunque di mostrare l'infondatezza di qualsiasi etica, aldilà della pura fede. E ciò alla luce del pensiero contemporaneo, che ha demolito - fondatamente - ogni metafisica della tradizione. È, infatti, alla metafisica che Settis si rivolge in ultimo, pur senza nominarla esplicitamente, per dare autorevolezza alla sua proposta etica.

Settis, giustamente, ponendo a tema etica e tecnica e la loro relazione, non poteva evitare di risalire a quel testo originario del pensiero "Occidentale" che è l'Etica nicomachea di Aristotele. Vediamo innanzitutto cosa estrapola Settis dal pensiero di Aristotele in funzione della sua proposta. Le technai, quindi anche l'architettura (oikodomiké téchne), che è una téchne tra molte, si apprendono - rileva da Aristotele, Settis - dall'insegnamento e dalla pratica, ossia guardando fare, imitando e facendo, si assume col tempo l'abitudine (ethos) del technikós, dell'esperto. "Il punto decisivo - mette in luce Settis - è, in termini greci, la giuntura tra téchne (che potremmo tradurre "professionalità", "abilità tecnica specifica", o "conoscenza del mestiere") ed ethos; ma la dimensione morale - prosegue Settis - ha senso solo se commisurata sulle esigenze della comunità (in termini greci della polis) […] si pratica il mestiere "virtuosamente" solo se si seguono modelli sociali positivi in quanto orientati al bene comune, all'eudaimonia del singolo in quanto incardinato nella polis". Se ci si ferma qui, come fa il nostro autore, dove della valenza morale del fare tecnico non vi è la fondazione, ossia non si mostrano gli argomenti logico-filosofici che la pongono come necessaria, si dà l'impressione che sia sufficiente esortarne il recupero. Non viene cioè in luce il perché e il come l'originaria fondazione sia venuta meno. Eppure, Settis fa notare, correttamente, che eudaimonia viene tradotta con "felicità", ma non ha il senso della "contingenza", che invece ha l'uso di questa parola nel nostro tempo. Va precisato - e penso che Settis in qualche modo lo sappia anche se non lo dice - che non è una questione puramente linguistica, ossia una fluttuazione di sensi propria del divenire delle lingue. L'interrogativo da cui muovere, laddove Settis si ferma, è questo: perché la felicità in senso greco non è contingente? Perché e come, nel logos greco e nell'argomentazione di Aristotele, le tecniche strutturano la polis, tendendo tutte ordinatamente all'eudaimonia? Perché e come, in un lungo processo di coerentizzazione del pensiero greco, tali argomenti sono collassati secondo fondata necessità (e quindi non sono riproponibili, se non come pura ideologia o mito senza fondamento)? Proviamo a indicare, di più non è possibile nello spazio di questo commento, la direzione della risposta, mostrando ciò che di Aristotele e di Platone Settis non cita.

L'originario "bene supremo" è il Sommo Bene o Idea del Bene, il vertice della molteplicità delle Idee che compongo la realtà intellegibile ed eterna nella dottrina di Platone. Sebbene Aristotele non sia d'accordo col maestro su come tale realtà produca o si dia in quella sensibile, e infatti la discute anche nell'Etica, l'eudaimonia, quale skopos della polis, è la traduzione del Bene intelligibile nella dimensione della realtà sensibile. Ed è per questo che non è contingente, come lo sono invece gli specifici fini di ciascuna particolare tecnica (1). Siamo di fronte alla traduzione totale dell'immutabile nell'eudaimonia della polis, che perciò è "bene comune". Qui il bene è "comune" - a differenza del nostro tempo - perché non è una scelta, né un prodotto, esso s'impone con necessità assoluta su ogni agire umano. L'agire che violi la sua legge immutabile è un volere l'impossibile. È questo l'autentico senso della violenza: volere l'impossibile. Una violenza che non può riuscire nell'intento e che dunque si ritorce contro chi tenti di esercitarla. In quanto immutabile non è producibile, né distruttibile, si impone alla volontà di ciascuno e di conseguenza limita l'agire e il produrre. Limita l'uso di ogni specifica tecnica subordinando il fine di ciascuna al proprio stare necessario. L'eudaimonia è, dunque, l'immutabile che salva la totalità della polis (e ogni cittadino ubbidiente) dal dolore del divenire annientante (la felicità è l'opposto del dolore), conferendogli un senso stabile e una prevedibilità incontrovertibile, in quanto lo "scopo" non è da raggiungere: è da sempre e per sempre, e sta sempre nella luce dell'intelletto filosofico. Il sapere filosofico della tradizione dice di se stesso di essere epistéme (epì = "su" e stéme = "sta"): un sapere che "sta su", ossia che resiste a qualsiasi scuotimento, che non può essere, dunque, abbattuto né da uomini né da déi, perché il suo contenuto è l'immutabile. La scienza contemporanea è invece consapevolmente ipotetica, non mira a conoscere "leggi immutabili della natura", ma, al contrario, a esplorare e sperimentare la sua mutevolezza, ossia ciò che ne consente la manipolazione tecnica, distruttivo-costruttiva.

Adesso possiamo far emergere l'incoerenza della metafisica, che nelle lezioni di Settis resta assolutamente nascosta. Il pensiero greco conferisce alla mutevolezza delle cose del mondo sensibile un senso radicale e inaudito, ossia che non ha precedenti nell'esistenza guidata dal mito (la filosofia, infatti, nasce in opposizione al mito) e che è la "verità" indiscussa su cui si basa l'esistenza nel nostro tempo. Un passo del Simposio di Platone e uno dell'Etica di Aristotele ne danno una perentoria e decisiva definizione:

 

Simposio 205 b-c: "Ogni causa, che faccia passare una qualsiasi cosa dal niente all'essere, è produzione, cosicché sono produzioni anche le azioni che vengono compiute in ogni arte e tutti gli artefici sono produttori";

Etica nicomachea 1140a 0-15, utilizzando l'esempio proprio dell'arte di costruire, qui tradotta con "architettura": "Ciò che può essere diversamente da come è, può essere sia oggetto di produzione, sia oggetto di azione […]. Poiché l'architettura [oikodomiké téchne] è un'arte ed è per essenza una disposizione ragionata alla produzione, e poiché non c'è nessun'arte che non sia una disposizione ragionata alla produzione, e non c'è nessuna disposizione ragionata alla produzione che non sia un'arte, arte sarà lo stesso che "disposizione ragionata secondo verità alla produzione". Ogni arte, poi, riguarda il far venire all'essere e il progettare, cioè il considerare in che modo può venire all'essere qualche oggetto di quelli che possono essere e non essere".

 

Viene così stabilito il senso fondamentale del tempo e del creare o produrre. Quando a esempio si costruisce una casa, possono pre-esistere molte cose, materiali da costruzione, modelli, canoni architettonici, tradizioni costruttive. Ma perché una casa sia una creazione è necessario che almeno qualcosa, forsanche la più modesta, non pre-esista, a esempio quella particolare e assolutamente nuova configurazione dell'insieme di cose pre-esistenti usate per concepirla e costruirla. Lo stesso vale per la distruzione, che è "annientamento", perché i materiali da costruzione possono restare come macerie, ma dopo l'abbattimento la configurazione dello spazio in cui l'edificio consiste non esiste più. Lo stesso senso lo troviamo nel tempo che diciamo "naturale": in autunno le foglie dell'albero cadono a terra e la chioma finisce nel niente, non esiste più. Poi in primavera - se tutto va bene - una nuova chioma passa dal non-essere all'essere.

Che le cose escano dal niente e vi ritornino è, per il greco, un'evidenza: "è evidente per induzione" dice Aristotele nella Fisica, perciò è "verità" indiscutibile. Tanto indiscutibile quanto lo è, per la medesima metafisica, l'esistenza di una dimensione immutabile della realtà oltre la fisica e che della realtà diveniente è dominio e legge eterna (su cui si fonda l'etica della tradizione). Ora, il lettore può già forse chiedersi se mai possano coesistere due "verità", entrambe poste come indiscutibili verità di ragione e di esperienza, e, in tutta evidenza, almeno agli occhi del nostro tempo, opposte: infinitamente opposte. La metafisica ci è pervenuta soprattutto a opera dei teologi delle tre grandi religioni monoteiste. Le religioni avramidiche la hanno divulgata a livello di massa, contribuendo alla sua diffusione nel mondo, fondendo il grande mito della Bibbia col pensiero razionale greco. Ne hanno visto la forza argomentativa e la hanno posta al servizio della fede. Ogni forma di immutabile della tradizione ha preso il nome onnicomprensivo di "Dio". Un dio creatore e signore del cielo e della terra. Ma se c'è un dio creatore, che ci resta da creare? Friedrich Nietzsche in Così parlò Zaratustra dice: "se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque non vi sono dèi […]. Via da Dio e dagli dèi mi ha allettato questa volontà; che cosa mai resterebbe da creare, se gli dèi - esistessero!" (Ed. Adelphi, 2003, pp. 95-96). Se c'è una dimensione eterna della realtà al di sopra di quella sensibile, le cose non vengono dal niente e non ritornano nel niente, ma sono già tutte nella realtà eterna. L'eterno è la negazione di quell'evidenza che è l'uscire e il ritornare nel niente delle cose: di tutte le cose. Nel linguaggio filosofico viene chiamata "entificazione del niente". Il pensiero filosofico degli ultimi due secoli ha portato a compimento la confutazione del pensiero tradizionale. I pensatori che hanno demolito la metafisica, insieme a molti altri, ma nel modo più radicale e rigoroso, sono Giacomo Leopardi, Friedrich Nietzsche, Giovanni Gentile e, in un senso opposto ai precedenti, che qui non è il caso di esporre per non complicare le cose, Emanuele Severino. Basti, per indicare al lettore la direzione della confutazione, un passo di Leopardi, il grande poeta, molto letto da Nietzsche, anticipa l'intero corso del pensiero contemporaneo:

 

Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura (Zibaldone di pensieri, 1341-1342, luglio 1821): "In somma, il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v'è ragione assoluta perch'ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non v'è ragione assoluta perché una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o quel modo ec. E non v'è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, né differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili… Un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, né mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né potendo avere in menomo dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. […] La necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio".

 

Platone diceva "i poeti mentono molto". Leopardi concorda, ma a differenza di Platone che perciò voleva cacciarli dalla polis, pone la menzogna poetica come unica salvezza, perché distoglie lo sguardo della ragione dalla ni-entità di tutte le cose che rende folli (ossia infelici). Se si tiene presente che l'etimo di "poesia" è poiesis, ossia produzione, viene in luce come Leopardi anticipi potentemente il dominio cui è destinata la tecnica produttiva sulla base dell'evidenza dell'uscire e ritornare nel niente di tutte le cose, che costituisce la totalità del reale. Perché "dominio" della tecnica? Perché è la condizione senza la quale nessuno scopo può esser perseguito, che sia il profitto, la salvezza dell'anima (la preghiera è una forma di tecnica) o della città, della campagna, del paesaggio, dell'ambiente.

Laddove Settis mostra agli studenti l'unione tra il senso della tecnica e il pensiero filosofico si muove nella direzione giusta, anzi necessaria, se si vuol capire la tecnica e il suo ruolo nel nostro tempo. L'errore - mi permetto rispettosamente di rilevare - sta nell'incompletezza, ossia il non aver richiamato insieme alla metafisica, e all'intera tradizione di pensiero, la filosofia del nostro tempo che l'ha - fondatamente - demolita, liberando l'agire tecnico da ogni limite. Le conseguenze pratiche, concrete, di questa liberazione, che ai più suona come un'astrazione lontana dalla realtà quotidiana, sono sotto gli occhi di tutti, e siamo solo agli inizi. La potenza tecnica non ha ancora guadagnato il senso radicale della sua liberazione, non ha ancora completamente ascoltato la voce della filosofia contemporanea, rimanendo così tuttora invischiata nella molteplicità delle etiche in crisi e in lotta tra loro nell'uso della tecnica come mezzo di realizzazione del proprio specifico scopo. Se c'è consapevolezza - e a questo sarebbe buona cosa "educare" gli studenti - che qualsiasi etica non può avere fondamento, ma è solo una fede tra altre, e dalla fede non ci si può separare, perché il divenire, l'uscire e il ritornare delle cose, è l'assolutamente imprevedibile - ed è esso stesso una fede (2) -, allora ci sono più probabilità che si riduca il tasso di pericoloso fanatismo e di fondamentalismo nelle scelte etiche che ciascuno di noi non può non fare nella vita pratica. Lo studente deve avere libertà di scegliere consapevolmente la propria etica e insieme di possedere le capacità tecniche in grado di perseguire i più diversi e imprevedibili scopi.

Tutto ciò non implica un'accettazione passiva e dogmatica di quel che il pensiero filosofico contemporaneo va affermando, ossia non c'è niente di definitivamente pacifico. Anche se spesso è accaduto il contrario nella storia del pensiero, la ragione filosofica è essenzialmente antidogmatica. Se è seria, se è autentica filosofia, deve argomentare e dunque fondare le proprie affermazioni, qualsiasi esse siano, anche le più apparentemente assurde. E sono le argomentazioni che vanno confutate, perché senza confutazione non hanno alcun valore, non possono mostrare alcuna validità. Chiunque pensi che, a esempio, gli argomenti di Leopardi, di Nietzsche, di Gentile o di Severino, così come di altri grandi pensatori del nostro tempo, siano invalidi, deve conoscerli, studiarli e confutarli, se ci riesce. Allo stato del pensiero speculativo la demolizione della metafisica si presenta fondata, perché inconfutata, ossia non ci sono confutazioni vincenti - ch'io sappia. Il senso del divenire liberato dagli immutabili, che rimane quello greco, è oggetto di confutazione in fieri (a esempio Severino). Si tratterebbe poi di vedere in base a quale senso del fondamento del sapere - se ancora quello portato in luce dai greci o altro - tale confutazione dia conto dell'apparire e dello scomparire delle cose. Questo è quanto si può dire allo stato del pensiero filosofico - per quel che ne so.

Alla luce di questi chiarimenti - e se si ritengono tali - la pars construens di Settis, costituita dal proporre un'etica pubblica per l'architetto, è quantomeno debole e abbastanza inconsistente. E ciò tenendo innanzitutto presente che il pensiero contemporaneo ha portato al tramonto, tra molto altro, come rilevante conseguenza pratica, l'idea dello stato assoluto, di cui sono modelli originari la Repubblica di Platone e la polis di Aristotele citata da Settis. Il che ha aperto lo spazio alla democrazia moderna, che è procedurale, ossia priva di uno scopo supremo in senso metafisico. Il contenuto del "bene comune", in concreto, è scopo contingente, temporaneamente deciso dalla parte politica che ha ricevuto la maggioranza dei voti e che continuerà a detenere il potere fintanto che riesce a vincere lo scontro pratico con la parte avversa, possedendo e utilizzando una tecnica più potente degli avversari. Tramontata è, inoltre, l'idea di un diritto "naturale" o "divino", a favore di un diritto "positivo", dal latino positum, ossia "imposto" da una parte sociale all'altra parte. Perciò Nietzsche afferma che "il diritto è la volontà di rendere eterno un rapporto di potenza momentaneo". Altra conseguenza pratica la si incontra in ogni forma di "libertà", più o meno realizzata o rivendicata, inclusa la "libertà di mercato", che di nuovo implica il non essere guidato da uno scopo primario. Tutte le forme di libertà sono poi in realtà di volta in volta dominate dall'etica che riesce a possedere e usare per il proprio scopo la tecnica più potente. A esempio, il capitalismo, il cui scopo primario è il profitto, riesce attualmente a dominare il libero mercato, usando al meglio la tecno economia, ipotetica e statistico probabilistica, rovesciando il danaro da mezzo di scambio delle merci in scopo, e ribaltando la merce in mezzo (3). Non riescono invece a dominare il mercato, né le etiche del liberalesimo, laddove sostengono, con evidenti residui metafisici, che il divenire del mercato sia guidato da una "mano invisibile", o che abbia un intrinseco ordine "catallattico", ossia che si equilibra da sé; né l'opposta etica della pianificazione urbanistica totalmente identificata ad atti normativi aventi forza di legge, che la rendono non-ipotetica, deterministica e prescrittiva, sostanzialmente dipendete dalla politica e non dalla razionalità tecnico-scientifica, ipotetica e statistico probabilistica.

Se c'è un "bene comune", nel nostro tempo, nel senso che è da tutti, da ogni etica e politica, voluto, questo è costituito dalla potenza tecnica, il cui scopo, in quanto apparato scientifico tecnologico, è l'illimitato potenziamento della capacità di realizzare scopi. Questa è la tendenza fondamentale del nostro tempo, come la chiama Emanuele Severino (4). È una tendenza non ancora giunta al culmine. Nel campo della pianificazione urbanistica normativa la dimensione etica e la gestione politica delle etiche in crisi prevalgono sulla razionalità tecnica. Ciò influisce non poco anche sulla capacità di leggere adeguatamente l'ordine giuridico vigente e, di conseguenza, di vederne i limiti rispetto alla volontà di pianificare in funzione di un qualche "bene comune". Non solo, l'afflato etico annega nei luoghi comuni la capacità di interpretare l'urbanizzazione diffusa, il cosiddetto sprawl. Di fronte allo spettacolo delle distese urbane che paiono non aver limiti, soprattutto del secondo dopoguerra, capita un po' a tutti - anche a Settis - di pensare e dire: "qui è mancata la pianificazione". Questa affermazione è insieme una relativa verità e una relativa non-verità. Verità, se si pensa in astratto che la pianificazione serva a dare un qualche ordine e una qualche forma riconoscibili all'urbanizzazione. Falsità se si tiene conto che, almeno in Italia dalla legge nazionale urbanistica 1150/1942 in poi, tutti i territori dei comuni sono stati pianificati e ripianificati di continuo con quegli atti normativi detti "piani" voluti dalla legge. Non si tratta tanto di un problema di qualità delle pianificazioni, quanto della inadeguatezza tecnica del diritto urbanistico. Leggi e piani hanno sempre uno scopo etico-politico-ideologico dichiarato al quale non corrisponde alcun dispositivo normativo coerente e tecnicamente idoneo a perseguirlo. D'altra parte, l'afflato etico e l'impegno civile verso un ordine urbano accettabile e verso la tutela del patrimonio e dell'ambiente, piuttosto che indagare cos'è che tecnicamente non funziona, preferisce, più spesso - come fa anche Settis - appellarsi, a esempio, l'art. 42 della Costituzione che, secondo un diffuso luogo comune, limiterebbe il diritto di proprietà, in quanto ne dichiara la "funzione sociale".

Un equivoco, una superficialità. L'art. 42 non limita, ma nobilita il diritto di proprietà proprio declamandone, nel secondo comma, la "funzione sociale". Il senso esatto della limitazione, che comunque è andata determinandosi nell'istituto giuridico nel corso del tempo, va chiarito se si vogliono evitare fraintendimenti. Basterebbe riflettere solo un po' e tener presente che il senso della "funzione" dipende dal tipo di società. E se la società garantisce il libero mercato e l'agire capitalistico? Vediamo di esplicitare tutto ciò. Il comma innanzitutto afferma che "La proprietà privata è riconosciuta dalla legge". A questo punto, prima di proseguire, è necessario leggere cosa dice la legge, ossia l'articolo 832 del Codice Civile (1942), altrimenti non si sa di cosa la Costituzione stia parlando, ossia in cosa consista in sé e per sé tale diritto: "il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo"; "pieno" significa che non esiste alcun limite per il proprietario in relazione alla possibilità di godere o disporre della cosa; "esclusivo" significa che il proprietario può escludere chiunque dal godimento della stessa; inoltre significa che è impossibile che a uno stesso bene facciano capo diversi diritti di proprietà. Questa è la forma del diritto di proprietà moderno, che gli storici del diritto definiscono "semplice e astratto" di contro a quello medioevale che è definito "complesso e concreto" (5). È "semplice" perché il diritto sul medesimo bene può averlo un solo soggetto, sia esso persona fisica, società o ente pubblico. È astratto, perché non dipende da alcun altro diritto, ossia è assoluto, sciolto da ogni relazione, incondizionato. In sé e per sé è perciò stesso a-sociale. È come se con la rivoluzione della modernità l'assolutezza del Sovrano fosse stata trasferita al privato cittadino proprio nella forma del diritto di proprietà in specie quella dei suoli. Ed è proprio l'originaria assolutezza del diritto di proprietà privato e la sua conseguente improduttività, che il nostro tempo va erodendo. Nel nostro tempo s'è visto non v'è spazio alcuno per gli assoluti. Ma a eroderlo in concreto, per il momento, è quella produttività dominata dal capitalismo e dall'uso capitalistico del libero mercato (6). Ciò che non muta tuttavia, e costituisce un grave problema per la pianificazione urbanistica, è il fatto che solo ed esclusivamente il proprietario può usare il suolo. Vediamo come proseguono rispettivamente l'articolo del Codice e il comma della Costituzione. Il godimento e la disposizione del bene devono essere esercitati, dice il Codice, "entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico"; analogamente la Costituzione dice che la legge "ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti". Qui, a differenza del Codice, è indicato lo scopo, peraltro implicito nel Codice. Le norme di legge regolano le relazioni sociali quindi anche le attività produttive e ogni norma costituisce un limite. Perciò quando il proprietario in forza del suo esclusivo diritto usa il bene, ossia ne gode e ne dispone in concreto, per una qualunque attività, esce dall'assolutezza ed entra in relazione sociale, quindi entra in funzione, e lì incontra i limiti delle norme di legge. È questo che la Costituzione vuole, perché il diritto di proprietà è solo un diritto e non un dovere d'uso del bene. Il proprietario non è tenuto a godere e disporre del bene in concreto, può non entrare in funzione, non attivarsi e quindi essere del tutto improduttivo escludendo così un bene, per esempio un suolo, da ogni attività utile sia al singolo sia alla collettività. Ecco perché la Costituzione dice che occorre rendere la proprietà "accessibile a tutti", sottinteso: laddove il proprietario che detiene il diritto su di un bene, a esempio un suolo, sia inerte, improduttivo. E come si accede al diritto di proprietà oltre che per eredità? Con la compravendita, quindi tramite il mercato. Ne consegue che è necessario che la legge garantisca la libertà di mercato. E ove il proprietario si rifiuti di vendere e vi sia un interesse pubblico all'uso di quel bene, allora lo Stato deve espropriarlo. L'esproprio è la conferma del diritto di proprietà, perché solo chi ne è titolare ha il godimento del bene. Ed è la conferma del dominio del mercato e del valore venale di tutti i beni, in specie del suolo, perché al proprietario espropriato spetta di diritto un'indennità commisurata al valore venale. Non può, un proprietario, opporsi all'esproprio, a esempio perché, piuttosto che incassare denaro "liquidando" il bene, preferisce godere il paesaggio di quel luogo al quale si sente legato da ricordi e affetti vitali.

La pianificazione urbanistica, come atto normativo delle amministrazioni comunali in forza di legge, trae origine dalla volontà di promuovere l'ammodernamento delle città, conferendo un ordine spaziale e temporale alle opere pubbliche e private. Perciò all'origine fu insieme necessario incentivare l'investimento privato del nascente capitalismo nel campo immobiliare, promuovendo, attraverso l'uso massiccio dell'esproprio, una forte liberalizzazione del mercato. I piani regolatori degli anni a cavallo tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento sono stati attuati secondo il disegno pubblico espropriando i suoli. Estesi all'intero territorio comunale, senza più attuarli tramite esproprio e a liberalizzazione già avvenuta, i piani normativi vengono travolti dal divenire del mercato. Le loro destinazioni urbanistiche, infatti, calate su ogni particella catastale di proprietà privata, non possono costituire un obbligo per il proprietario a usare il bene come vorrebbe il piano. Sicché l'uso avverrà solo quando il mercato lo richiede, divenendo per il proprietario fonte di profitto, e se la domanda è per un uso diverso, il piano verrà variato. È evidente perciò che la pianificazione che si va massicciamente praticando con quel diritto urbanistico in vigore non è pianificazione autentica: non pianifica un bel nulla, segue solo il mercato e crea solo occasioni ulteriori di puro profitto speculativo al di là della stessa domanda di mercato. Ecco perché in più occasioni ho argomentato che è un autogol affidare a questa pianificazione scopi di tutela di qualsiasi genere. Ho suggerito di separare gli atti di pianificazione dagli atti normativi di tutela, di qualsivoglia tutela, semplificando e razionalizzando norme e procedure e li ho chiamati "statuti dei luoghi"(7). In ogni territorio comunale, le norme limitanti dello "statuto dei luoghi" devono essere sovraordinate a qualsiasi piano e progetto, come lo sono quelle costituzionali rispetto alle leggi particolari. Mentre la pianificazione non dovrebbe più conformare il diritto di proprietà con le "destinazioni urbanistiche", perché servono solo agli speculatori, ma utilizzare l'espropriazione per pubblica utilità o, dove non è possibile, attivare incentivi e accordi con i privati proprietari attraverso procedure regolamentate e trasparenti.

A me pare, infine, che il discorso sul paesaggio che Settis svolge in queste lezioni - non meno di tutti coloro, architetti e urbanisti, che sono avversi ai tradizionali vincoli paesaggistici - nega il senso originario della tutela legale, ossia di ben determinate qualità storico culturali percepibili dai sensi in luoghi circoscritti. Ed è sorprendente, se si pensa che Settis ha presieduto una commissione ministeriale per il Codice dei beni culturali e del paesaggio. È lo stesso Settis a rilevare che sono troppe e giustapposte, come tutti sappiamo, le leggi in Italia, tanto da renderle inefficaci. Faccio notare che la prima legge di tutela del cosiddetto "paesaggio" (1922) era composta di 7 articoli e 800 parole, tra queste non c'era la parola "paesaggio"; la seconda che l'ha sostituita, "Sulla protezione delle bellezze naturali" (1939), era composta da 19 articoli e 2000 parole, tra queste non c'era il termine "paesaggio" per la sua evidente ambiguità, inadatto perciò a un testo normativo. Gli articoli sul paesaggio nel Codice dei beni culturali e del paesaggio sono 28 (senza le norme transitorie), contengono 7400 parole, e la parola "paesaggio", con un carico di indeterminazione accresciuto, compare ben 34 volte. Come se non bastasse, e solo per fare un esempio tra molti delle diciotto Regioni d'Italia, l'atto normativo del recente Piano paesaggistico della Toscana, che è solo una piccola parte della sterminata quantità di documenti testuali e grafici, contiene circa 15.000 parole.

Sotto il peso crescente delle norme e l'alluvione di parole, il Paesaggio piange. Ma per fortuna quello sommerso dall'urbanizzazione è infinitamente inferiore a quello annebbiato dalle imponenti nuvole prodotte da leggi, libri e convegni. Se si esce di casa con lo sguardo attento, il Paesaggio, quello concreto, autentico si offre ancora, in tutto il suo splendore, ai sensi della vista di chi sa goderne.

Francesco Ventura

 

 

 

Note
1) Aristotele chiama "architettoniche" quelle tecniche che hanno la capacità di ordinare una o più tecniche in funzione del proprio fine (archè téchne, ossia tecniche che hanno il comando su altre tecniche). Si tratta, cioè, di tecniche che usano come mezzi i fini di altre tecniche per perseguire il proprio specifico scopo. La tecnica del timoniere ha per fine il governo della nave, conosce dunque la forma idonea del timone, ed è architettonica rispetto a quella del falegname il cui fine è la lavorazione del legno capace di dar forma al timone secondo il fine del timoniere. Ascoltiamo Aristotele e i suoi esempi [1094a, 1-15]:

"Comunemente si ammette che ogni arte esercitata con metodo, e, parimenti, ogni azione compiuta in base a una scelta, mirino ad un bene: perciò a ragione si è affermato che il bene è "ciò cui ogni cosa tende" [qui c'è l'eco di Platone]. Ma tra i fini c'è un'evidente differenza […] e […] molti sono i fini: […] della medicina il fine è la salute, dell'arte di costruire navi il fine è la nave, della strategia la vittoria, dell'economia la ricchezza. [10] Tutte le attività di questo tipo sono subordinate ad un'unica, determinata capacità: come la fabbricazione delle briglie e di tutti gli altri strumenti che servono per i cavalli è subordinata all'equitazione, e quest'ultima e ogni azione militare sono subordinate alla strategia, così allo stesso modo, altre attività sono subordinate ad attività diverse. In tutte, però, i fini delle attività architettoniche [15] sono da anteporsi a quelli delle subordinate: i beni di queste ultime infatti sono perseguiti in vista di quei primi".
Da qui segue l'introduzione dell'argomento logico filosofico (metafisico) in base al quale Aristotele intende mostrare la necessità di un rigido ordinamento gerarchico della molteplicità delle tecniche nella e per la polis, interamente subordinato a un unico scopo.
"Orbene, se vi è un fine delle azioni da noi compiute che vogliamo per sé stesso, mentre vogliamo tutti gli altri in funzione di quello, e se noi non [20] scegliamo ogni cosa in vista di un'altra (così infatti si procederebbe all'infinito, cosicché la nostra tensione resterebbe priva di contenuto e di utilità), è evidente che questo fine deve essere il bene, anzi il bene supremo. E non è forse vero che anche per la vita la conoscenza del bene ha un grande peso, e che noi, se, come arcieri, abbiamo un bersaglio, siamo meglio in grado di raggiungere ciò che dobbiamo? Se è [25] così, bisogna cercare di determinare, almeno in abbozzo, che cosa mai esso sia e di quale delle scienze o capacità sia l'oggetto"
Skopos vuol dire tra l'altro "bersaglio", ossia laddove, dopo che l'arciere vi ha mirato scagliandola, la corsa della freccia si arresta definitivamente, dove il movimento ha "fine" compiuta. Ed è dove il tempo dell'azione finisce: non c'è più tempo né contingenza. Se ogni agire particolare mira a un qualche bene, che a sua volta è mezzo per mirare ad altro bene, lo skopos che non si rovescia più in mezzo di ulteriori fini, e che dunque è un limite invalicabile, non contingente e immutabile non può che essere "il bene supremo". Aristotele argomenta la necessità del "bene supremo" con una dimostrazione per assurdo: se perseguissimo sempre un fine in funzione di un altro non raggiungeremmo mai nulla di definitivo e "la nostra tensione resterebbe priva di contenuto e di utilità". Il "progresso all'infinito" è uno degli argomenti logici più frequentati da Aristotele. È un non senso logico, in questo caso un non senso dell'agire e operare.
Aristotele oltre che determinare quale sia il bene supremo della polis, intende determinare, come s'è visto nella citazione, "di quale delle scienze (épistemon) o capacità (dynàmeon) sia l'oggetto" e così prosegue:
"Si ammetterà, che appartiene alla scienza più importante, cioè a quella che è architettonica in massimo grado. Tale è, manifestamente, la politica. Infatti, è questa che stabilisce quali scienze è necessario coltivare nelle città, [1094b] e quali ciascuna classe di cittadini deve apprendere, e fino a che punto […]. E poiché è essa che si serve di tutte le altre scienze e che stabilisce, [5] inoltre, per legge che cosa si deve fare, e da quali azioni ci si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché sarà questo il bene per l'uomo".
Sicché la politica è quel sapere che conosce l'immutabile "bene supremo". Un sapere perciò epistemico (épistemon), incontrovertibile, dunque, di fatto, è filosofia. È "architettonica", dice Aristotele, ma in che senso? Perché è capacità (dynàmeon) di subordinare la molteplicità di fini propri di ciascuna tecnica. E lo è in massimo grado, perché subordina la totalità deterministica dei fini. Pone, cioè, tutte le tecniche, deterministicamente stabilite e assegnate secondo una rigida divisione sociale del lavoro, sotto il dominio dell'immutabile, che, del fare, è eterna, immodificabile legge. Ogni specifico fine è rovesciato in mezzo al servizio del bene supremo. L'imprevedibilità del divenire è cancellata e, di conseguenza ogni autentica creatività è negata. Settis, invece, legge la eudaimonia di Aristotele come quella "condizione di equilibrio, da cui poi si sprigionato le energie creatrici", proprio laddove "la condizione di equilibrio" pensata dallo stagirita è tale da soffocarla. Per Platone (ribadito da Aristotele): le cose agibili e producibili dalla tecnica non stanno assolutamente in equilibrio, sono empamphoterizein: contese e incerte tra l'essere e il niente. Settis sembra non avvedersi che, per un verso, vien detto che è di per sé evidente che le cose possono essere e non essere e perciò la tecnica può far loro percorre l'infinita separatezza fra essere e niente, conferendo all'agire creativo una potenza distruttiva costruttiva illimitata, e per l'altro verso, per porsi cioè in sicurezza dal divenire annientante, lo si nega, annullando così la produttività della tecnica in ogni sua forma a causa. Per cui la politica è pensata "architettonica" solo in quanto subordina tutto; ma non è una tecnica produttiva, al contrario della politica del nostro tempo che è consapevolmente produttiva - come lo è sempre stata, anche ai tempi di Aristotele al di là delle sue idee. La politica aristotelica è una sorta di prassi che testimonia, rende note e impone all'intera polis le leggi eterne del bene supremo. Tali leggi sono il nitido modello del diritto cosiddetto "divino" o "naturale", che è l'opposto del diritto del nostro tempo cosiddetto "positivo", dal latino positum, ossia imposto dalla volontà di una parte su di un'altra. Una parte (perciò si dicono "partiti politici") riesce momentaneamente a imporre le proprie leggi (secondo il proprio progetto creativo di ciò che quella parte ritiene "bene" o "felicità"), se possiede e si avvale di tecniche più potenti di quelle della parte avversa: nelle democrazie moderne - che sono procedurali - contando le teste; nelle dittature tagliandole. Democrazie e dittature sono preferenze, non verità epistemiche, perciò possono non essere preferite: ciascuna sussiste fin tanto che una parte maggioritaria, per qualsivoglia motivo (fede, convenienza o terrore), la preferisce e riesce a produrre una tecnica di rafforzamento e conservazione più potente di quella avversa.
2) L'intero filosofare di Emanuele Severino è volto a mostrare che l'uscire e il ritornare nel niente delle cose, ossia "il senso greco della cosa", è la fede fondamentale del cosiddetto "Occidente" e oggi di tutti i popoli della terra. In Dispute sulla verità e la morte (Rizzoli, 2018), Severino scrive: "All'interno della fede, la tecno-scienza possiede la capacità più alta di trasformare le cose, più alta di tutte quelle apparse sulla terra. Ma per quanto rigorosa e complessa sia la dimensione si muove pur sempre all'interno di ciò che non è l'autentica verità incontrovertibile, ma, appunto, è fede, illusione, negazione della verità autentica". E che la scienza contemporanea, alla guida della tecnica nel nostro tempo, avendo sostituito la guida di Dio, sia una forma di fede sono gli stessi scienziati a riconoscerlo, a esserne consapevoli: il premio Nobel per la fisica Arno Penzias in un'intervista rilasciata a Giovanni Maria Pace ("La Repubblica", 25 ottobre 1998) dichiara: "alla base della scienza stanno presupposti indimostrabili che dipendono da una certa visione del mondo, in sostanza da un atto di fede. Per esempio, noi diciamo - anzi lo dicevano già i Greci, inventori della logica - che il mondo ha senso, che le teorie più semplici ed eleganti sono teorie giuste, eccetera. Ma non abbiamo prove. Le nostre sono ipotesi potenti, che spiegano molte cose, ma restano indimostrabili. Bisogna crederci".
3) Sul rovesciamento del mezzo in scopo, dove si mostra che quello del danaro non è che un caso particolare di quello generale dove è la tecnica a rovesciarsi in scopo, si veda il mio commento al libro di David Harvey pubblicato in questa rubrica: Più che l'etica è la tecnica a dominare le città; e vi si trova anche un ben diverso modo di trattare il tema del diritto alla città rispetto quello di Settis.
4)Emanuele Severino: Tecnica e architettura, Raffaello Cortina Editore, 2002; La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, 2008; ma vedi anche Natalino Irti e Emanuele Severino, Dialogo su Diritto e tecnica, Laterza 1002.
5) Paolo Grossi, La proprietà e le proprietà nell'officina dello storico, Editoriale Scientifica 2006.
6) Ciò fa dire a Pierre Joseph Proudhon "la proprietà è un furto", Che cos'è la proprietà, 1840.
7) Francesco Ventura: Paesaggio e sviluppo sostenibile, in Il Ponte, n. 10, ottobre 1994, pp. 35-51; Regolazione del territorio e sostenibilità dello sviluppo, Libreria Alfani editrice, 2003; La tutela delle bellezze naturali e del paesaggio, in F. Ventura (a cura di), Beni culturali. Giustificazione della tutela, Città Studi, 2001, pp. 34-79.

 

N.d.C. - Francesco Ventura, già professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi di Firenze, ha pubblicato tra gli altri: L'istituzione dell'urbanistica. Gli esordi italiani (Libreria Alfani Ed., 1999); Statuto dei luoghi e pianificazione (Città Studi Edizioni, 2000); Sul fondamento del progettare e l'infondatezza della norma, in P. Bottaro, et al. (a cura di), Lo spazio, il tempo e la norma (Ed. Scientifica, 2008); La verità del falso ("Area, n. 105-2009); Il monumento tra identità e rassicurazione, in G. Amendola (a cura di), Insicuri e contenti (Liguori, 2011); La tutela e il recupero dei centri storici, in L. Gaeta, et al., Governo del territorio e pianificazione spaziale (Città Studi, 2013); La progettazione del passato ed il ricordo del futuro, in A. Iacomoni (a cura di), Questioni sul recupero della città storica (Aracne, 2014).

Per Città Bene Comune ha scritto: Urbanistica: tecnica o politica? (14 febbraio 2016); Lo stato della pianificazione urbanistica. Qualche interrogativo per un dibattito (1 aprile 2016); Urbanistica: né etica, né diritto (30 giugno 2016); Più che l'etica, è la tecnica a dominare le città (16 febbraio 2017); Antifragilità (e pianificazione) in discussione (28 luglio 2017); Così non si tutela né il suolo né il paesaggio (1 dicembre 2017); Su "La struttura del paesaggio": inutile le polemiche, riflettiamo sui contenuti (12 gennaio 2018).

Tutti gli scritti di Città Bene Comune comparsi online nel 2016 sono ora raccolti in: R. Riboldazzi (a cura di), Città Bene Comune 2016. Per una cultura urbanistica diffusa, Ed. Casa della Cultura, Milano 2017; quelli comparsi online nel 2017 sono invece raccolti in: R. Riboldazzi (a cura di), Città Bene Comune 2017. Leggere l'urbanistica per immaginare città e territori, Ed. Casa della Cultura, Milano 2018.

Sul contributo di Salvatore Settis ai temi della città, del territorio e del paesaggio, v. anche la sintesi video della conferenza tenuta alla Casa della Cultura il 12 dicembre 2017 e il testo integrale, a cura di Oriana Codispoti, con la presentazione di Salvatore Veca (Ed. Casa della Cultura, 2018).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

 

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

28 SETTEMBRE 2018

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018:

P. Pileri, L'urbanistica deve parlare a tutti, commento a: Anna Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

F. Indovina, Non tutte le colpe sono dell'urbanistica, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)

M. Balbo, Disordine? Il problema è la disuguaglianza, commento a: F. Indovina, Ordine e disordine nella città contemporanea (FrancoAngeli, 2017)

R. Milani, Viaggiare, guardare, capire città e paesaggi, commento a: C. de Seta, L'arte del viaggio (Rizzoli, 2016)

F. Gastaldi, Un governo del territorio per il Veneto?, commento a: M. Savino, Governare il territorio in Veneto (Cleup, 2017)

G. Nuvolati, Tecnologia (e politica) per migliorare il mondo, commento a: C. Ratti, La città di domani (con M. Claudel, Einaudi, 2017)

F. Mancuso, Città come memoria contro la barbarie, commento a: A. Zevi, Monumenti per difetto (Donzelli, 2014)

M. Morandi, Per una Venezia di nuovo vissuta, commento a: F. Mancuso, Venezia è una città (Corte del Fontego, 2016)

R. Pavia, Leggere le connessioni per capire il pianeta, commento a: P. Khanna, Connectography (Fazi, 2016)

G. Consonni, In Italia c'è una questione urbanistica?, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)

M. Romano, Memoria e bellezza sotto i cieli d'Europa, commento a: S. Settis, Cieli d'Europa (Utet, 2017)

V. Biondi, La nuova crisi urbana negli USA, commento a: R. Florida, The New Urban Crisis (Basic Books, 2017)

P. Colarossi, Per un ritorno al disegno della città, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2012, rist. 2015)

A. Clementi, In cerca di innovazione smart, commento a: C. Morandi, A. Rolando, S. Di Vita, From Smart Cities to Smart Region (Springer, 2016)

P. Pucci, La giustizia si fa (anche) con i trasporti, commento a: K. Martens, Transport Justice. Designing fair transportation systems, (Routledge, 2017)

E. Trusiani, Ritrovare Mogadiscio, commento a: N. Hagi Scikei, Exploring the old stone town of Mogadishu (Cambridge Scholars Publishing, 2017)

A. Villani, Post-metropoli: quale governo?, commento a: A. Balducci, V. Fedeli, F. Curci, Oltre la metropoli (Guerini, 2017)

R. Cuda, Le magnifiche sorti del trasporto su gomma, commento a: M. Ponti, Sola andata (Egea 2017)

F. Oliva, Città e urbanistica tra storia e futuro, commento a: C. de Seta, La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi (Longanesi, 2017) e La città, da Babilonia alla smart city (Rizzoli, 2017)

J. Gardella, Attenzione al clima e alla qualità dei paesaggi, commento a: M. Bovati, Il clima come fondamento del progetto (Marinotti, 2017)

R. Bedosti, A cosa serve oggi pianificare, commento a: I. Agostini, Consumo di luogo (Pendragon, 2017)

M. Aprile, Disegno, progetto e anima dei luoghi, commento a: A. Torricelli, Quadri per Milano (LetteraVentidue, 2017)

A. Balducci, Studio, esperienza e costruzione del futuro, commento a: G. Martinotti, Sei lezioni sulla città (Feltrinelli, 2017)

P. C. Palermo, Il futuro di un Paese alla deriva, riflessione sul pensiero di Carlo Donolo

G. Consonni, Coscienza dei contesti come prospettiva civile, commento a: A. Carandini, La forza del contesto (Laterza, 2017)

P. Ceccarelli, Rappresentare per conoscere e governare, commento a: P. M. Guerrieri, Maps of Delhi (Niyogi Books, 2017)

R. Capurro, La cultura per la vitalità dei luoghi urbani, riflessione a partire da: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2017)

L. Ciacci, Il cinema per raccontare luoghi e città, commento a: O. Iarussi, Andare per i luoghi del cinema (il Mulino, 2017)

M. Ruzzenenti, I numeri della criminalità ambientale, commento a: Ecomafie 2017 (Ed. Ambiente, 2017)

W. Tocci, I sentieri interrotti di Roma Capitale, postfazione di G. Caudo (a cura di), Roma Altrimenti (2017)

A. Barbanente, Paesaggio: la ricerca di un terreno comune, commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

F. Ventura, Su "La struttura del Paesaggio", commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

V. Pujia, Casa di proprietà: sogno, chimera o incubo?, commento a: Le famiglie e la casa (Nomisma, 2016)

R. Riboldazzi, Che cos'è Città Bene Comune. Ambiti, potenzialità e limiti di un'attività culturale

 

 

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