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UN NUOVO PAESAGGIO URBANO OPEN SCALE
Commento al libro di Carlo Ratti
Alberto Clementi
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È ormai da tempo che Carlo Ratti sta affinando la sua interpretazione innovativa della città contemporanea e, in particolare, del ruolo delle tecnologie digitali nella sua trasformazione in atto. Anche nel suo ultimo libro - La città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano (con Matthew Claudel, Einaudi, 2017) - Ratti è portatore di una visione tendenzialmente ottimistica, come è naturale per chi è chiamato ad esercitare il progetto. Al tempo stesso esprime una visione sostanzialmente totalizzante, intanto che continua a esplorare l'avvenire delle città con un futurecraft che implicitamente assume le nuove tecnologie ICT come un motore ineludibile del cambiamento. Ratti auspica una città sempre più smart, grazie all'avvento dell'informatica diffusa, ubiquitous computing, e della disponibilità crescente di poderosi data base (Big data), con modelli data-driven che consentono ormai di misurare in modo accurato le prestazioni urbane e di valutare in tempo reale l'effetto delle strategie d'intervento.
La posizione di Ratti non è affatto ingenua, diversamente dalle numerose teorizzazioni di smart city che tradiscono la loro ascendenza dall'ingegneria dei sistemi e talvolta anche dagli interessi dei colossi dell'informatica che hanno letteralmente inventato il tema, monopolizzandone le ricadute per il proprio tornaconto. Sono i cittadini al centro del futurecrafting proposto da Ratti: "Non può esistere smart city senza smart citizens". In questa diversa e condivisibile prospettiva, "la città viene migliorata non tanto grazie alla tecnologia, quanto all'iniziativa dal basso dei cittadini". Facendo proprio l'obiettivo di attivare la cittadinanza prefigurato da Saskia Sassen, Ratti immagina di "hackerare la città aprendo sistemi informatici tradizionalmente chiusi e infrangere la mentalità che mira a ottimizzare gli spazi urbani".
Questa visione di Ratti sembra del tutto coerente con le nuove forme di razionalità individuate dalla critica più avanzata per descrivere la città contemporanea. Kwinter ad esempio ne riconosce cinque: la diffusione illimitata delle tecnologie digitali; la frammentazione delle domande sociali; l'affermazione di una visione globale e omogeneizzante della cultura; la democratizzazione all'accesso della sfera pubblica; l'assimilazione al mercato dei sistemi di organizzazione della società (1). Ratti esprime infatti una posizione colta e consapevole che cerca generosamente di mettere al servizio della cittadinanza le enormi risorse rese disponibili dallo sviluppo delle reti digitali. La sua interpretazione si inserisce in un modo originale di concepire smart city, che - come ho avuto già occasione di osservare nel mio commento al libro di Corinna Morandi e altri From Smart city to Smart Region - intercetta positivamente i temi del miglioramento del capitale umano e della capacitazione individuale come formulati da Sen e Nussbaum. Le tecnologie ICT in questa diversa prospettiva non appaiono più soltanto i vettori della new economy o della ottimizzazione smart delle funzionalità urbane, secondo l'ottimistico quanto infondato approccio della fine del secolo scorso. Tendono piuttosto a ridefinirsi come "uno dei driver di una società nella quale le città sono i nodi intelligenti e propulsivi di una pluralità di politiche e di strategie messe in campo per una transizione soft da un sistema fortemente dissipativo in termini di risorse naturali verso un sistema diverso, molto più dinamico, efficiente, circolare, ricco di conoscenza e di nuove articolazioni, capace di perseguire lo sviluppo sostenibile e il benessere dei cittadini al di là dei consumi e al di là del PIL, investendo in capacitazione e relazioni sociali" (2).
Considerata la diversità di questo approccio, l'innovazione dovrà essere trattata in modo più pertinente rispetto alle formulazioni originarie del pensiero smart, derivate sostanzialmente dall'ingegneria dei sistemi, e orientate soprattutto a migliorare l'efficienza funzionale della città e della sua gestione. Appare insufficiente il modello teorico della tripla elica introdotto nella ricerca per analizzare i processi d'innovazione basati sulla conoscenza. Deakin in particolare aveva individuato tre driver determinanti per la creazione dei nuovi saperi e la loro capitalizzazione: ricerca scientifica, industria e governance (3). La città smart ne veniva definita di conseguenza come "luogo di densificazione della rete, luogo d'incontro delle attività e delle conoscenze". Ora invece diventa necessario aprire il processo dell'innovazione all'ingresso della società civile, una quarta elica, attraverso cui "l'impegno civile arricchisce la dotazione culturale e sociale, determinando le interazioni tra ricerca, industria e governo locale, piuttosto che essendone determinata". L'intelligenza della città non va considerata dunque come esito di software e algoritmi sempre più sofisticati, assistiti dallo sviluppo di big data sempre più pervasivi e affidabili; dipende invece in misura sostanziale dalla capacità d'incorporare il protagonismo degli individui e della società, e dall'impegno civile che può piegare gli sbocchi dell'innovazione verso percorsi imprevedibili con le sole strumentazioni tecnologiche. Si tratta di una visione dell'innovazione smart abbastanza simile a quella che ci propone Ratti, e che tende a emanciparsi dalle formulazioni correnti.
Però c'è qualcosa che non convince fino in fondo in questo approccio fondamentalmente ottimistico, in cui effettivamente la tecnologia appare utile solo se si dimostra empowering, cioè se offre ai cittadini una quantità adeguata di informazioni per prendere decisioni informate e consapevoli. Non è soltanto il sospetto che i poderosi interessi che soggiacciono alla diffusione delle tecnologie digitali siano in verità assai poco malleabili, e che tendano ad agire purtroppo in direzione ben diversa da quella perorata da Ratti (tra i molti esempi disponibili, si pensi ai limiti delle realizzazioni più celebrate dell'idea di smart city come Songdo o Singapore, giustamente criticate da Greenfield come espressione di autoritarismo istituzionale, che ripropone di fatto il modello impositivo praticato dagli architetti della prima modernità, polemicamente contraddetto anche da Ratti in altre occasioni (4). Ma si pensi anche a un caso a noi più vicino, l'applicazione sconcertante del modello di democrazia partecipata digitalmente, come si sta sperimentando in Italia: un'inquietante distorsione del funzionamento normale della democrazia, svuotata populisticamente delle rappresentanze intermedie e non più controllabile in modo trasparente. Nei fatti insomma i modelli veicolati da smart cities tendono troppo spesso a sacrificare i processi espliciti di contemperamento democratico tra esigenze e giudizi di valore espressi da gruppi d'interesse irriducibili tra loro. Né appaiono capaci di apprendere criticamente dall'esperienza, per esempio di fronte ai movimenti di protesta civile o che emergono dai conflitti sociali nelle periferie.
In questa prospettiva fa impressione la critica radicale di Sennett, che vede le città smart realizzate finora come "città impeccabilmente efficienti, ma senza anima. Sono del resto costruite per essere consumate, in modo che la gente non pensi. La smart city ci rende stupidi". Lo testimonia con evidenza l'esempio delle smart cars, che tende a ridurre drasticamente le nostre abilità cognitive e la nostra esperienza della città. In effetti, "più un'esperienza è liscia, priva di frizioni, più noi smettiamo d'imparare"(5). Ancora più radicale è una critica indiretta di Tafuri, il quale trent'anni fa osservò che le grandi utopie che cercano d'imbrigliare il tempo dandogli intenzionalmente una forma riconoscibile sono destinate a fare la stessa fine della Berlino di Hitler o della Mosca di Stalin. "Proprio il sistema di conflitti che chiamiamo città implica l'abbandono di qualsiasi tentativo complessivo di sintesi della natura della città o della metropoli, o di ciò che la metropoli sta diventando".
E allora? Noi tutti siamo ben consapevoli dei limiti che pesano su smart city e sull'ottimistico ricorso pervasivo alle tecnologie digitali. E tuttavia conviene far tesoro del lavoro illuminante proposto da Ratti. I suoi sforzi vanno nella direzione giusta, quella di una città autocatalitica come già teorizzato da De La Pena. Una città dove i processi adattivi si basano sull'esistenza di un'intelligenza locale diffusa, che migliora le capacità dei cittadini di promuovere dal basso i mutamenti di contesto e che in definitiva è volta a potenziare il loro capitale cognitivo, favorendo la loro compartecipazione attiva alla costruzione dei progetti per la città (6).
Il fatto è che appare fuorviante assumere una prospettiva totalizzante, con la riforma radicale dei metodi di progettazione della città e delle strumentazioni conoscitive da adoperare. I metodi più canonici di progettazione della città non dovrebbero affatto lasciare il campo alla urbanistica open source, e all'impersonalità delle soluzioni costruite direttamente dai citizens adoperando le reti digitali a disposizione. Piuttosto ci si dovrebbe aprire riflessivamente all'intreccio tra le molteplici razionalità tipiche del progetto urbano mirate alla ricerca di qualità bilanciata tra approcci top down e bottom up, incorporando quelle portate dalla partecipazione informata dei cittadini, assistita dalle nuove tecnologie digitali.
A queste condizioni sarà possibile contribuire concretamente alla costruzione della città di domani. E forse diventerà possibile praticare il modello EcoWebTown, al quale avevo dedicato le battute conclusive del mio libro Forme imminenti (7). Cioè un nuovo paesaggio urbano open scale, prodotto dalla combinazione peculiare di una varietà eterogenea di ecodistretti locali dai metabolismi autobilanciati, iperconnessi, identitari, messi in relazione alle diverse scale dalla presenza multiscalare di reti della sostenibilità e reti smart. Una città interpretabile con le categorie concettuali introdotte tempo fa da Banham, meglio ancora che attraverso l'interazione tra reti digitali e corpi fisici di Senseable City.
Alberto Clementi
Note 1) Kwinter S., 2010 Notes on the Third Ecology, in Ecological Urbanism, eds. by M. Mostafavi and G. Doherty, Baden: Lars Müller, pp. 104-153. 2) Donolo C., Toni F., 2013, La questione meridionale e le smart cities, in "Rivista economica del Mezzogiorno", XXVII, nn. 1-2 3) Leydesdorff L., Deakin M., 2011, The Triple-Helix Model of Smart Cities: a neo-evolutionary perspective in "Journal of Urban Technologies", Taylor&Francis 4) Greenfield A., 2013, Against the Smart City, New York: Do Projects, 5) Sennett R., 2018, "D - La Repubblica", n. 1090. 6) De La Pena B., 2013, Embracing the Autocatalytic city, Ted Books 7) Clementi A., 2016, Forme imminenti. Città e innovazione urbana, Trento: LiSt Lab.
N.d.C. - Alberto Clementi, urbanista, è stato preside della Facoltà di Architettura di Pescara. Consulente di diversi ministeri e altre amministrazioni pubbliche regionali e comunali, ha coordinato numerosi programmi di ricerca e prodotto piani e progetti sia di livello territoriale che urbano. Dirige la rivista online EcoWebTown.
Tra le sue pubblicazioni più recenti: Forme imminenti. Città e innovazione urbana, LiSt Lab, 2016; Strategie di reinfrastrutturazione urbana, in F. D. Moccia, M. Sepe, "Networks and infrastructures of contemporary territories", INU edizioni, 2016; Ridisegnare il governo del paesaggio italiano, in ParoleChiave, n. 56 (2016) Carocci; con C. Pozzi, Progettare per il futuro della città, Quodlibet, 2015; EcoWebDistrict. Urbanistica tra smart e green, in E. Zazzero, "EcoQuartieri. Temi per il progetto urbano ecosostenibile", Maggioli, 2014.
Per Città Bene Comune ha scritto: In cerca di innovazione smart (18 maggio 2018).
Sull'ultimo libro di Alberto Clementi - di cui si è discusso alla Casa della Cultura il 16 maggio 2017 nell'ambito della V edizione di Città Bene Comune - v. il commento di Pepe Barbieri, La forma della città, tra urbs e civitas (12 maggio 2017).
Sul libro di Carlo Ratti - di cui si discusso alla Casa della Cultura il 22 maggio 2018 nell'ambito della VI edizione di Città Bene Comune, v. anche il commento di Giampaolo Nuvolati, Tecnologia (e politica) per migliorare il mondo (13 luglio 2018).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 12 OTTOBRE 2018 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
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in redazione: Elena Bertani Oriana Codispoti
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L. Meneghetti, Stare con Settis ricordando Cederna, replica alla posizione di Marco Romano e Francesco Ventura
C. Bianchetti, Lo spazio in cui ci si rende visibili e la cerbiatta di Cuarón, commento a: C. Olmo, Città e democrazia (Donzelli, 2018)
F. Ventura, Sapere tecnico e etica della polis, commento a: S. Settis, Architettura e democrazia (Einaudi, 2017)
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R. Milani, Viaggiare, guardare, capire città e paesaggi, commento a: C. de Seta, L'arte del viaggio (Rizzoli, 2016)
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G. Nuvolati, Tecnologia (e politica) per migliorare il mondo, commento a: C. Ratti, La città di domani (con M. Claudel, Einaudi, 2017)
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