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Il giardino biopolitico. Spazi, vite e transizione è un libro importante e coraggioso. Paola Viganò, che lo ha pubblicato nella serie “Critica del progetto” di Donzelli, diretta da Cristina Bianchetti, intende ricapitolare in questo volume sia gli esiti di alcune importanti ricerche progettuali sviluppate negli ultimi anni in Europa e nel mondo, sia un quadro di riferimento concettuale e in definitiva “politico” entro il quale collocare gli sforzi per la definizione di un nuovo “progetto dello spazio”. L’ambizione del libro è esplicitata con molta chiarezza nell’Introduzione, di cui richiamo qui i passaggi fondamentali. Viganò prende le mosse dall’affermazione secondo la quale la tradizione europea di disegno della città può essere considerata un tassello importante di una più ampia azione “biopolitica” indirizzata a «mantenere in vita, proteggere, educare ed emancipare una popolazione» (p. 3). La crisi e forse l’esaurimento di tale tradizione, secondo Viganò, non possono essere ascritte al progetto dell’urbanistica moderna, che di quella strategia biopolitica e pedagogica è stata la più alta incarnazione, ma ad un insieme di ragioni culturali, politiche, ecologiche che hanno condotto a quella che Viganò definisce senza mezzi termini l’inadeguatezza e la modestia del progetto urbano contemporaneo.
A partire da questa assunzione Viganò si pone due domande. La prima concerne il riconoscimento dei caratteri dell’azione biopolitica che sottenderebbe alle derive contemporanee del progetto di città e di territorio. La seconda allude alla necessità di immaginare un “progetto dello spazio” che sia in grado di «dare forma ad un’azione biopolitica di emancipazione sostanziale» (p. 4). Per corrispondere a queste domande Viganò compie tre mosse, che coincidono con le tre parti del libro. Dapprima, l’Autrice prende in considerazione tre “tipi di spazi”, che incarnano figure potenti del discorso progettuale moderno e contemporaneo e che propongono archetipi differenti di libertà, coesistenza e rapporto tra individuale e collettivo. I tre spazi, che Viganò denomina “spazio funzione”, “spazio natura” e “spazio sociale” sono presentati con riferimento ad alcuni progetti esemplari (realizzati e non: dalle siedlungen di Francoforte a Tapiola, da New Babylon a Tolouse le Mirail), che definiscono un campo discorsivo entro cui prendono corpo diverse flessioni del progetto moderno e della sua crisi. Questi tre “tipi di spazi”, così differenti tra loro, sono tuttavia accomunati da un’intenzione comune e da una convinzione, secondo la quale «lo spazio abilita, definisce condizioni di vita e apre (o può negare) spazi di emancipazione». E ancora: esso è «strumento essenziale di redistribuzione, di opportunità, giustizia, orizzontalità» (p. 102). L’obiettivo di Viganò è dunque di comprendere come sia ancora possibile, entro condizioni radicalmente mutate, pensare il progetto dello spazio come dispositivo abilitante l’emancipazione, nella prospettiva di quella che l’Autrice chiama una “biopolitica affermativa” e assumendo lo spazio non solo come risorsa ma anche come “agente”.
La seconda parte del libro, breve e molto densa, intitolata “Spazio e progetto biopolitico”, propone due mosse. Innanzitutto, Viganò ci invita a considerare insieme tre connotazioni dello spazio che sempre più stanno mutando le condizioni dell’agire progettuale. Lo spazio, in questa prospettiva, è insieme strumento di riproduzione del capitale nella fase della globalizzazione compiuta e dell’urbanizzazione planetaria; supporto che abilita o fa resistenza rispetto a molteplici prassi sociali, ma anche non umane; potenziale agente, e addirittura “soggetto” di una trasformazione possibile. Queste tre connotazioni dello spazio contemporaneo portano Viganò a identificare tre “campi di pensiero” che aprono strade interessanti per la pratica progettuale: la relazione tra vita, spazio e potere propria del pensiero biopolitico; le riflessioni della deep ecology e dell’ecologia politica, verso una “decolonizzazione” della natura; la ripresa di un’idea di emancipazione attraverso il progetto dello spazio.
Queste connotazioni dello spazio e questi campi di riflessione permettono infine a Viganò nella terza parte del volume di indicare la strada del “giardino biopolitico” attraverso la presentazione autoriflessiva di alcuni progetti che la stessa Viganò ha elaborato con il suo studio. Questi progetti esemplari affrontano alcuni dei temi fondamentali indicati in precedenza: la possibilità di esplorare un’urbanistica “del suolo vivente” (Rennes); il disegno a scala vasta della transizione ecologica dei territori europei (Ginevra); il disegno di una “metropoli orizzontale” che lavori su diverse nozioni di perifericità (Vallonia, quartiere Peterbos a Bruxelles), la costruzione di immaginari inediti per territori in crisi radicale (la ricerca sugli Appalachi). La terza parte del libro, come scrive Viganò, «riprende i punti salienti del passaggio epistemologico, ontologico ed etico del quale vorrei rendere conto: il primo punto, la critica alle categorie di territorio oggetto e territorio risorsa; il secondo, la critica alle strutture forti della modernità; il terzo, il rapporto da ricostruire tra le forme dell’economia e le forme dello spazio (nuove traiettorie di sviluppo); il quarto, la necessità di prototipi eco-socio-spaziali; il quinto punto, la relazione tra nuova natura e produzione dello spazio» (p. 130). Al cuore di questo programma di lavoro “affermativo” si colloca la ricerca progettuale di un nuovo discorso sui nessi complessi tra spazio, vita e progetto.
Proprio questo atteggiamento “affermativo”, orientato a generare immaginari e dispositivi operativi, mi sembra particolarmente importante in un volume che ha l’ambizione di intrecciare una lettura complessiva della nostra società e dei suoi ecosistemi, a scala planetaria, e una riflessione approfondita sulle culture del progetto. Confesso apertamente di non essere competente per valutare la lettura proposta da Paola Viganò della traiettoria delle culture del progetto lungo tutto il XX secolo, e dunque non affronterò il tema, estremamente importante, del modo in cui l’Autrice tratta il nodo dell’eredità del progetto “biopolitico” moderno. D’altra parte, non sono nemmeno sicuro che il ricorso a casi “esemplari” non presenti anche qualche rischio, rispetto alle forme ordinarie di progettazione e pianificazione del territorio, che disegnano incessantemente quella che in questa fase della mia riflessione mi piace chiamare l’urbanistica “in pratica”, ossia il campo davvero complesso delle pratiche istituzionali, amministrative, tecniche, politiche, economiche che stanno mutando radicalmente la scena dell’azione del progetto urbanistico e architettonico nelle città e nei territori. In questo senso, immaginare un futuro possibile del progetto facendo perno sulla critica di progetti esemplari del passato e sull’assunzione, in forma di veri e propri “prototipi”, di progetti per molti aspetti “eccezionali” e sicuramente autoriali del presente, quali quelli che la stessa Viganò ha realizzato e ci narra nel libro, rischia a mio avviso di non riconoscere la forma e i “sistemi concreti d’azione” dei dispositivi di sapere e di potere che sottendono ai progetti ordinari di trasformazione delle città e dei territori, alla vischiosità e all’opacità dell’’urbanistica “in pratica”.
Tuttavia, vorrei sottolineare che mi sembra molto persuasiva l’ipotesi proposta all’inizio del libro, secondo la quale lo spazio in cui viviamo è ancora «largamente il deposito di idee e teorie formate da e a partire dall’architettura e dall’urbanistica moderne (p. 13)». Ciò è tanto più vero quanto più osserviamo lucidamente i processi di trasformazione urbana e territoriale e i tentativi di pianificazione quando usciamo dal terreno stretto dei territori europei e nordamericani e ci facciamo attenti a quanto accade nelle altre aree del mondo, nelle quali sui gioca oggi larga parte della partita ecologica e di giustizia spaziale a scala planetaria.
Non intendo nemmeno ingaggiarmi sull’uso della nozione di “biopolitica”, che mette in gioco una parola e un concetto (quello di “vita”, tra bios e zoé) che richiede una attenta sospensione critica e interpretativa per sottrarsi alle trappole di ogni biologismo. Direi solamente in questa sede che condivido con qualche cautela quanto scrive Viganò (“lo spazio è biopolitico”) e che comprendo il ricorso all’interpretazione di Roberto Esposito - Viganò cita opportunamente il volume Bios. Biopolitica e filosofia (1) - che circoscrive lo spazio teorico per una possibile biopolitica “altra”, anche rispetto ad una linea di pensiero che va, pur con tutte le differenze, da Michel Foucault a Giorgio Agamben, sottraendo la nozione di biopolitica all’uso esclusivo dei dispositivi di potere e di assoggettamento e trattandola anche come occasione di emancipazione.
Vorrei invece soffermarmi sul nesso che Paola Viganò istituisce tra i tre “campi” evocati nella sezione centrale del libro (interpretazione della biopolitica, deep ecology, emancipazione) e i prototipi biopolitici (socio-eco-spaziali) che Viganò propone attraverso alcuni suoi progetti, affrontando tre temi tra i molti.
Il territorio soggetto
Il primo tema su cui vorrei provare a dialogare con Viganò è la nozione di spazio agente e di territorio come soggetto. Prenderei le mosse dall’osservazione per la quale la nozione di soggetto è scivolosa. Non solo perché, come Viganò riconosce perfettamente, nella riflessione biopolitica i soggetti sono costrutti di complesse pratiche di soggettivazione e assoggettamento. Ma soprattutto perché parlare di una soggettività del territorio, di una presa di parola delle “strutture deboli”, che è esplicitamente evocata dall’Autrice, pone a mio avviso più di un problema. Si tratta di un tema ampiamente affrontato nella letteratura filosofica, sociologica, geografica e giuridica, per esempio lungo le piste indicate da Bruno Latour. La questione della natura come agente è affrontata anche da Michel Serres ne Il contratto naturale (2) ed è al centro dell’attenzione da tempo anche da parte di giuristi, attraverso la nozione limite di “personalità giuridica” della natura. Come si manifesterebbe questa soggettività? Di quale parola si serve? Su questo punto ritengo fondamentali alcuni passaggi dell’ultimo libro di Carlo Sini, ed in particolare del saggio “L’ambiente umano”. Scrive Sini, criticando l’idea stessa di un ambiente naturale “altro dall’umano”: «Questa supposta e per certi versi incontrovertibile origine non umana si conforma sempre come già articolata ed espressa in base al sapere umano e mai per come tu supponi che sarebbe stata e sarebbe in sé. Il suo in sé è sempre vestito o travestito di noi, delle nostre spoglie, dei nostri discorsi» (3). In altre parole, la natura agente, il territorio soggetto a cui fa riferimento Viganò accadono appunto nel suo discorso, nel discorso del progettista. La parola dell’acqua, della terra, delle piante è insomma parte del discorso umano: in sé, semplicemente, non esiste. Il che va benissimo, riconoscendo le implicazioni che ha il carattere situato di questa parola, i suoi bias, la sua “localizzazione”. Il suo essere parte dei discorsi umani, uno tra i molti, che assume un punto di vista e una prospettiva ma che non può immaginare di parlare per “il tutto”. In relazione a questo primo tema il nodo per me è quello della pluralità degli interessi e dei poteri in gioco, che il progetto dovrebbe assumere problematicamente anche quando si propone di parlare per qualcuno (o qualcosa) altro, come peraltro sempre fa. Un progetto che riconosca dunque il carattere situato delle proprie pratiche progettuali e il “potere invisibile” che ne definisce condizioni di possibilità e limiti.
Tra deep ecology e political ecology
Il secondo tema che avanzo è relativo alla difficoltà di tenere insieme deep ecology e political ecology. In un libro molto bello intitolato Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (4) Roberto Ciccarelli mette in guardia da qualunque naturalizzazione delle condizioni di radicale crisi ecologica del pianeta, e invita a sospettare di una concezione ecologica che non assuma la natura politica dei processi di costruzione di una risposta “tecnonaturale”. Paola Viganò ha perfettamente chiaro questo nesso problematico quando scrive ad esempio, con riferimento al concetto di “assemblaggi tecno-bio-culturali”: «Il carattere politico di questi assemblaggi ha strutturato molti dei contributi dell’ecologia politica che si propone di penetrare i fenomeni socio-ambientali contemporanei» (p. 123). Mi sembra, tuttavia, che le conseguenze per le pratiche progettuali di questa presa di distanza dai rischi di depoliticizzazione propri di alcuni filoni della deep ecology non siano del tutto chiare. La lettura degli Appalachi proposta nel libro di Viganò in questo quadro è estremamente sfidante. Il destino degli Appalachi è l’esito di processi di ristrutturazione del capitale globale e di crisi non solo di un modello di sviluppo, ma di un intero modello sociale. Senza intaccare questi processi e senza mettere in campo qualche ipotesi di agency politica e sociale (attori e interessi che siano in grado di sostenere un modello di sviluppo “altro”), l’immaginario che lavora negli esercizi proposti da Viganò appare davvero utopico. Senza dimenticare che la lettura del ruolo dello spazio nei processi di produzione e riproduzione del capitale è oggi investita in modo radicale dal cambiamento dovuto alla finanziarizzazione, i cui effetti spaziali non finiamo di vedere ogni giorno e che influenzano non solo le città, ma anche le dinamiche territoriali di scala amplissima. In altri termini, il nesso con l’economia, evocato e invocato da Viganò, dovrebbe misurarsi con realismo sul significato che possono avere le diverse declinazioni economiche dei progetti di transizione nei quali il capitale globale è già da tempo impegnato.
Politica e società
Il terzo tema che propongo ha a che vedere con il nesso tra progetto biopolitico e politica. Quale agency dovrebbe sostenere i prototipi di Viganò per non renderli velleitari e per farli marciare? Come incardinare le strategie progettuali in un quadro che non perda di vista la natura eminentemente politica della posta in gioco? Su questo punto il progetto per il quartiere popolare ad altissimo tasso di immigrazione di Petebos a Bruxelles (Viganò chiama esplicitamente in causa Pierre Bourdieu), ma anche la vicenda nel tempo del progetto esemplare di Tolouse la Mireil, penso possano insegnarci qualcosa. Come agire quanto le disuguaglianze sociali si nutrono di povertà economica, di capitale sociale, cognitiva? Su questi ambiti, verrebbe da dire, ci vuole molta pazienza, un lavoro di lunga lena, e soprattutto un investimento pubblico di proporzioni elevatissime. Investimento finanziario, organizzativo, cognitivo. Le politiche per questi contesti sono innanzitutto politiche per l’istruzione, per il lavoro, per il reddito, altrimenti l’immaginario che il progetto mobilita non può che cadere nel vuoto. Abbiamo innumerevoli e lodevoli esempi di questi fallimenti anche nel nostro Paese, durante e dopo il secolo breve e lo zenit del movimento moderno. In gioco, mi sembra, è lo stile del progetto, il suo rapporto con la politica, le politiche, l’amministrazione, i cittadini. Su questo punto credo che la strategia del “giardino biopolitico” abbia bisogno di alleati, risorse, mobilitazione politica e sociali, in assenza delle quali la natura esemplare dei progetti rischia di trasformarsi in un proposito nobile ma velleitario.
In sintesi, questo libro dal quale ho imparato molto, e di cui ho tratteggiato molto marginalmente solo alcuni aspetti che sono per me interessanti, potrebbe essere considerato un’occasione per pensare all’altezza adeguata le sfide delle culture del progetto. D’altra parte, mi sentirei di suggerire che il progetto del giardino biopolitico potrebbe essere osservato e utilizzato come un dispositivo tra i tanti, che assume la sua parzialità come una possibile risorsa, nella consapevolezza delle aperture e dei limiti posti dalle condizioni materiali e simboliche, economiche e sociali, istituzionali e politiche entro le quali prendono corpo tutti i progetti per la città e il territorio. Misurarsi con i vincoli (normativi, politici, economici) dell’urbanistica “in pratica”, quella di tutti i giorni, permetterebbe forse di capire quanto i progetti del giardino biopolitico possano davvero innervarla e alimentarla, capitalizzando l’immaginario progettuale che Paola Viganò è in grado di mobilitare.
Gabriele Pasqui
Note 1) R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004. 2) M. Serres, Il contratto naturale, Feltrinelli, Milano 1990. 3) C. Sini, Intelligenza artificiale e altri scritti, Jaca Book, Milano 2024, p. 55. 4) R. Ciccarelli, Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista, Derive e Approdi, Roma 2022.
N.d.C. - Gabriele Pasqui, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano, ha diretto il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani dal 2013 al 2019 ed è stato responsabile scientifico di un progetto di ricerca sulle Fragilità territoriali selezionato dal Miur nell’ambito dell’iniziativa “Dipartimenti di Eccellenza”.
Tra i suoi libri: Il territorio delle politiche (F. Angeli, 2001); Confini milanesi (F. Angeli, 2002); Progetto, governo, società (F. Angeli, 2005); Territori: progettare lo sviluppo (Carocci, 2005); Città, popolazioni, politiche (Jaca Book, 2008); con P. C. Palermo, Ripensando sviluppo e governo del territorio (Maggioli, 2008); con A. Lanzani, L'Italia al futuro (FrancoAngeli, 2011); con A. Balducci e V. Fedeli, Strategic Planning for Contemporary Urban Regions (Ashgate, 2011; Routledge, 2016); Urbanistica oggi (Donzelli, 2017); La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018); con C. Sini, Perché gli alberi non rispondono. Lo spazio urbano e i destini dell'abitare (Jaca Book, 2020); con L. Montedoro, Università e cultura. Una scissione inevitabile? (Maggioli, 2020); Coping with the Pandemic in Fragile Cities (Springer, 2022); Gli irregolari. Suggestioni da Ivan Illich, Albert Hirschman e Charles Lindblom per la pianificazione a venire (Franco Angeli, 2023).
Per Città Bene Comune ha scritto: Pensare e fare urbanistica, oggi (26 febbraio 2016); Come parlare di urbanistica oggi (8 giugno 2017); I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza (11 gennaio 2019); Più Stato o più città fai-da-te?(21 febbraio 2020); La storia tra critica al presente e progetto (23 ottobre 2020); La ricerca è l’uso che se ne fa (28 maggio 2021); Case pubbliche: una questione aperta (16 settembre 2022); Città: fare le cose assieme (11 gennaio 2024).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 11 SETTEMBRE 2024 |
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