Carlo Cellamare  
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RELAZIONALITÀ PER CAPIRE LE PERIFERIE


Commento al libro di Paolo Grassi



Carlo Cellamare


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Il libro di Paolo Grassi - Barrio San Siro. Interpretare la violenza a Milano (FrancoAngeli, 2022) - è frutto di un pluriennale lavoro di ricerca sul campo nel quartiere San Siro di Milano. Il suo grande interesse è legato alla capacità di restituire la complessità di un quartiere, anche molto problematico come questo (ricordiamo che si tratta di uno dei quartieri di edilizia residenziale pubblica più critici di Milano, peraltro oggi investito dalla discussione sulla riqualificazione complessiva di questo settore urbano), frutto di un lavoro immersivo e delle tante relazioni sviluppate con le persone e col territorio, ma anche della collaborazione e dell’interazione con un gruppo di ricerca, prevalentemente di urbanisti e architetti, che ha fatto della presenza nel quartiere e dell’approccio interdisciplinare una propria modalità di ricerca, la propria cifra. Paolo Grassi, antropologo dell’Università Bicocca di Milano, ha saputo dare un contributo estremamente fertile per la comprensione della vita quotidiana, dell’uso dello spazio, dell’abitare un quartiere, che ha una valenza non riferibile al solo quartiere di San Siro o alla sola città di Milano, ma piuttosto di carattere generale, come modalità di approccio. Se, infatti, il focus è il tema della violenza (così come esplicitato anche nel titolo del libro), prodotta anche dalle strutture spaziali, dalle politiche urbane, dal funzionamento generale della città, la lettura e l’interpretazione riguardano più in generale l’uso dello spazio e la vita nel e del quartiere.

Oltre all’introduzione, che illustra i temi principali della ricerca, ma anche incorpora alcune importanti conclusioni, il libro è strutturato in quattro grandi sezioni, che riguardano alcuni ambiti tematici in cui si articola la violenza, ma più in generale le modalità con cui le relazioni spaziali e le politiche pubbliche influenzano le condizioni di vita delle persone, per non diventare addirittura fattori di marginalità. Tutto il testo è popolato dalle persone incontrate del quartiere, ma anche dei gruppi organizzati e/o strutturati, siano essi comitati di quartiere o semplici gruppi informali di abitanti. Il quartiere è esso stesso oggetto di una relazione ed è interessante la riflessione dell’autore nel definirlo un vero e proprio barrio. I quattro ambiti tematici si riferiscono a: la percezione dell’abbandono da parte delle istituzioni; la stigmatizzazione cui si connette l’idea di degrado e la geografia della paura; le sofferenze e le vulnerabilità sociali, illustrate attraverso alcune storie personali emblematiche; altre politiche e progettualità sviluppate nel quartiere (le politiche scolastiche, la rigenerazione urbana). Tutte le sezioni sono organizzate attraverso una struttura simile: il racconto dell’incontro con una persona, la contestualizzazione del problema, le storie di vita (e il materiale etnografico) che permettono di attraversare quei problemi, le conclusioni che permettono di leggere criticamente quanto emerso e di riportarlo ad un ordine di problemi più generali.

Penso sia importante sviluppare alcune notazioni più rilevanti.

In primo luogo, trovo che il cuore del libro, e che è anche lo specifico del contributo dell’antropologo alla riflessione sulla città e al ripensamento del quartiere, è la capacità di connettere la storia particolare, o più storie, delle persone con una riflessione più generale, anche sui problemi strutturali e di sistema. Essi possono essere legati allo stigma, alla geografia della paura, al problema del degrado (e al suo uso strumentale), ecc., ma ancor più in generale alle politiche pubbliche urbane, alle modalità di assegnazione dell’alloggio pubblico, all’organizzazione dei servizi (scolastico, sanitario, ecc.) e alle forme di esclusione e marginalizzazione, ai rapporti spaziali all’interno del quartiere e tra il quartiere e il resto della città. Non si tratta, quindi, soltanto del racconto delle storie personali che evidenzia i problemi specifici, ma le storie particolari nella loro interazione col contesto (spaziale, sociale, politico, ecc.) ci permettono di avere una comprensione più approfondita dei problemi generali e, di conseguenza, delle direzioni che potrebbe prendere una revisione delle politiche. Le storie di vita e i loro intrecci ci permettono di capire meglio la complessità del reale e di interpretare i grandi processi urbani. Per alcuni versi si tratta di strade già avviate in altre esperienze e in altri contesti, ma qui le vediamo sviluppate in pienezza.

Le questioni connesse alle politiche non si affrontano soltanto nella sezione finale, ma di fatto attraversano tutto il libro, perché di fatto sono aspetti con cui ci si confronta in tutti gli ambiti della vita del quartiere e delle persone. Anche se non trattate direttamente, esse evidenziano continuamente i limiti, i rischi, le distorsioni, le difficoltà di gestione, le possibilità, le potenzialità di revisione, ecc. delle politiche pubbliche e della gestione da parte delle amministrazioni.

La discussione sviluppata nel libro intorno ad alcune categorie comunemente utilizzate, come degrado, abbandono da parte delle istituzioni, ecc., serve non per precisarle e ridefinirle in maniera pi appropriata, o per svelarne alcuni usi impropri o ambigui o strumentali, ma per discutere – attraverso di esse – alcuni processi in atto e visioni interpretative del mondo (oltre che dei problemi urbani).

Tutto questo, ed è questo un secondo punto che vorrei rilevare, evidenzia come il lavoro dell’antropologo fa vedere quello che normalmente non vediamo, sia perché gli urbanisti prevalentemente guardano allo spazio fisico (e quindi alla sua materialità) e generalmente non colgono le dimensioni immateriali che permeano le pratiche urbane, sia perché il mestiere degli antropologi (come spesso si autodefiniscono) è proprio quello di “svelare” gli impliciti, di discutere quello che si dà per scontato. Da qui non solo l’utilità, ma la necessità del lavoro interdisciplinare, di cui sono profondo sostenitore e che ho scoperto e cominciato a praticare sistematicamente molti anni fa. Non riusciamo a capire veramente i problemi, se non combiniamo anche questo tipo di ricerca, come quella preziosa di Paolo Grassi. Non riusciamo a comprendere la città senza un approccio integrale. Ovviamente vale il reciproco. Anche per gli antropologi e, in generale, per le scienze sociali ed umane è particolarmente importante imparare a leggere lo spazio, perché ti permette di capire problemi che altrimenti non sarebbero facili da comprendere. E Paolo Grassi sviluppa seriamente questa prospettiva (anche se lo spazio non viene sempre letto adeguatamente, come avverrebbe con l’occhio dell’urbanista), anche valorizzando l’opportunità di lavorare all’interno di un gruppo interdisciplinare. In questo caso, poi, l’attenzione all’uso dello spazio (e al ruolo che lo spazio ha nel determinare o nell’influire sulle varie forme di violenza urbana) risulta particolarmente fertile. Solo per riprendere alcune notazioni dell’autore: “La violenza avviene nello spazio, compreso quello urbano, ma lo spazio a sua volta - se concepito appunto in maniera relazionale - può considerarsi agente di violenza, può essere violento, per così dire” (p. 18). E ancora, più in generale, riprendendo le riflessioni di studiosi come Fassin e Massey: “La qualità dello spazio urbano “conta”, ha un suo ruolo. […] Lo spazio è […] prodotto e produttore di relazioni. […] Significa […] guardare allo spazio come sfera di eterogeneità, campo di forze e nessi sociali, e non come mero contenitore. Significa inoltre comprendere che il modo con cui pensiamo lo spazio influenza la modalità in cui lo gestiamo” (p. 19). Il rapporto con lo spazio attraversa tutto il libro e pervade anche le storie delle persone incontrate, nel bene e nel male, come fattore identitario ma anche come percorso di autonomia. Come, ad esempio, nel caso di Anna (uno tra i tanti), “povera tra i poveri”, proveniente da una soluzione abitativa veramente umile, una “casa minima”: “A volte il luogo in cui era nata veniva indicato da altri membri del comitato come un segno identitario distintivo: «Ha una mentalità da casa minima», ho sentito più volte dire. Come se la casa minima indicasse al tempo stesso uno spazio fisico e un habitus, una disposizione acquisita. Anna riconosceva questa rappresentazione o, meglio, riconosceva come le condizioni socio-economiche cui era stata soggetta avessero influito sulla sua situazione attuale. Al tempo stesso però la sfidava. La sua traiettoria biografica attestava il continuo tentativo di prendere le distanze da tale etichetta essenzializzante” (pp. 121-122).

In terzo luogo, legandosi a quanto appena detto, Paolo Grassi pone sistematicamente attenzione all’agentività (nel mondo anglosassone l’agency), ovvero la capacità da parte di tutte le persone di interagire con i fattori di contesto, di fatto fortemente condizionanti la vita di ciascuno, spesso in forma oppressiva. Non c’è mai però un determinismo. Sebbene i condizionamenti possano essere molto forti, e in questo mondo decisamente orientato dal modello di sviluppo neoliberista (che non è un modello solo economico, ma anche culturale e sociale) oggi sono particolarmente forti, pure è data la possibilità di un’agentività personale e/o collettiva. Anche in un contesto come questo, particolarmente deprivato e stigmatizzato, dove i margini di azione sono estremamente limitati, pure è importante pensare a quali siano gli spazi di un’agency. Questo ci interroga su quali siano, onestamente, i margini e le possibilità di cambiamento e stimolano il pensare politiche e progettualità, ma anche di valorizzare quelle esistenti che si incarnano nell’agency delle persone e dei collettivi.

Infine, un quarto punto riguarda la relazionalità. L’autore, ogni volta che riporta una storia di vita, pone l’attenzione con molta onestà alle modalità con cui si sono costruite e sviluppate le relazioni con le persone che ha incontrato e di cui racconta appunto le storie, quello che gli hanno voluto trasmettere. Contestualizza rispetto alla relazione che si è strutturata tra lui e l’interlocutore. Si tratta di una vera ricerca situata che illustra il posizionamento del ricercatore, mostra i limiti e le opportunità che la relazione ha permesso e valorizza le persone incontrate, che sono il centro dell’attenzione. Questa attenzione alla relazione, che l’autore riprende nella riflessione generale e che attraversa tutto il libro e tutti gli stralci del lavoro etnografico che viene riportato, ma che è anche il focus dell’introduzione di Ferdinando Fava, penso sia la testimonianza profonda della qualità della ricerca. L’autore riprende l’interrogativo di Althabe: “Chi sono io per i miei interlocutori” e lo ripropone a sé stesso in ogni incontro personale, riconoscendone il valore di “rivoluzione copernicana” nell’antropologia, proprio perché sposta l’attenzione dal ricercatore all’interlocutore. “Il centro dell’universo diviene l’interlocutore, non il ricercatore. L’attenzione all’esperienza di quest’ultimo lascia spazio a quella per l’interazione. Il campo si istituisce come processo relazionale” (p. 28).

Mi sembra che la relazionalità, in termini di relazioni spaziali e d’uso, di relazioni tra le discipline e i campi della conoscenza, di relazioni sociali, ma soprattutto tra le persone (anche come ricercatori), sia sempre più il campo su cui siamo chiamati a lavorare.

Carlo Cellamare

 

 

 

N.d.C. - Carlo Cellamare, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica alla Sapienza Università di Roma, dirige il LabSU - Laboratorio di Studi Urbani "Territori dell'abitare" del Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale e il periodico "Tracce Urbane". È membro del collegio docenti del dottorato in Ingegneria dell’Architettura e dell’Urbanistica (referente del curriculum Tecnica Urbanistica), ha coordinato numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali e ha collaborato con diverse amministrazioni locali.

Tra i suoi libri: Culture e progetto del territorio (FrancoAngeli, 1999); (a cura di) con Enzo Scandurra e Patrizia Bottaro, Labirinti della città contemporanea (Meltemi, 2001); Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi (Eleuthera, 2008); Progettualità dell'agire urbano. Processi e pratiche urbane (Carocci, 2011); (a cura di) Roma città autoprodotta (manifestolibri, 2014); con Massimo Ilardi e Enzo Scandurra, Recinti urbani. Roma e i luoghi dell'abitare (manifestolibri, 2014); (a cura di) Fuori raccordo. Abitare l'altra Roma (Donzelli, 2016); Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana (Donzelli, 2019); con Francesco Montillo, Periferia. Abitare Tor Bella Monaca (Donzelli, 2020), Abitare le periferie (Bordeaux Edizioni, 2020).

Per Città Bene Comune ha scritto: Roma tra finzione e realtà (18 luglio 2019); Cambiare le periferie ripoliticizzandole (16 novembre 2021).

Sui libri di Carlo Cellamare, v. in questa rubrica: Gabriele Pasqui, Più Stato o più città fai-da-te? (21 febbraio 2020); Agostino Petrillo, La città che sale (19 giugno 2020); Carla Tedesco, Periferie: ripartire dal vissuto (17 giugno 2022).

NB. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


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07 GIUGNO 2024

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

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G. B. Lattes, Il sociologo e la città, commento a: G. Amendola, La città: immagini e immaginari (FrancoAngeli, 2024)

G. M. Flick, La città dal diluvio universale all'arcobaleno, commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio (a cura di), La città dopo la pandemia (Aracne, 2023)

V. Prina, Esplorare e raccontare Varese, commento a: L. Crespi (a cura di), Atlante delle architetture e dei paesaggi dal 1945 a oggi in provincia di Varese (Silvana Editoriale, 2023)

C. Olmo, Le molteplici dimensioni del tempo, commento a: M. Bettini, Chi ha paura dei Greci e dei Romani? (Einaudi, 2023)

S. Tagliagambe, Al diavolo la complessità, commento a: J. Gregg, Se Nietzsche fosse un narvalo (Aboca, 2023)

A. Ziparo, Ecoterritorialismo: una strada tracciata, commento a: A. Magnaghi, O. Marzocca (a cura di), Ecoterritorialismo (Firenze University Press, 2023)

L. Gaeta, Ritorno al quotidiano (dopo l'evento), commento a: M. Mininni, Osservare Matera (Quodlibet, 2022)

C. Saraceno, Una casa di tutti, commento a: A. Agnoli, La casa di tutti (Laterza, 2023)

P. Salvadeo, Cosa può fare l'architetto?, commento a: A. Di Giovanni e J. Leveratto (a cura di), Un quartiere mondo (Quodlibet, 2022)

W. Tocci, Visibile-invisibile per il buongoverno urbano, commento a: A. Balducci(a cura di), La città invisibile (Feltrinelli, 2023)

I. Forino, Una casa (e un arredo) per tutti, commento a: G. Consonni, Il design prima del design (La Vita felice, 2023)

E. Ruspini, Intersezionalità e Teoria sociale critica, commento a: P. Hill Collins,Intersezionalità come teoria critica della società (UTET Università, 2022)

M. Caja, Il tempo fa l'architettura, commento a: A. Torricelli, Il momento presente del passato (FrancoAngeli, 2022)

A. Porrino, Biopolitica e governo delle condotte, commento a: O. Marzocca, Il virus della biopolitica (Efesto, 2023)

A. Bonaccorsi, La Storia dell'aerchitettura è la Storia, commento a: C. Olmi, Storia contro storie. Elogio del fatto architettonico, (Donzelli, 2023)

M. Venturi Ferriolo, La città vivente, commento a: S. Mancuso, Fitopolis, la città vivente (Laterza 2023)

G. Pasqui, Città: fare le cose assieme, commento a: B. Niessen, Abitare il vortice (Utet, 2023)