Filippo Barbera  
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DISSIDI CULTURALI? NO, ERRORI INTERPRETATIVI


Replica alla recensione di Ota De Leonardis



Filippo Barbera


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Ringrazio Città Bene Comune per l’opportunità di replicare a Ota De Leonardis. La sua recensione (La politica si fa in piazza, 26 luglio 2024), scritta in modo molto seducente e secondo il canone della sociologia critico-espressiva, potrebbe conquistare un lettore sociologicamente poco attrezzato. Appare invece necessario individuarne le imprecisioni, quando non i veri e propri errori concettuali che la costellano. Nella mia replica cercherò di mettere in luce quei fraintendimenti oggettivi (di questo si tratta, non tanto di dissidi di tipo analitico-interpretativi) che riconsegnano a chi legge una recensione unfair. Illustrerò di seguito le basi fattuali di questa mia affermazione e, nel farlo, mi atterrò al medesimo codice linguistico, diretto e caustico, scelto dalla recensione. In ossequio alla regola che la discussione scientifica richiede reciprocità, tanto formale che sostanziale.

Per cogliere il nocciolo della mia replica, è utile partire dal fondo della recensione dove l’autrice ipotizza che il lavoro avrebbe come interlocutore implicito i policy-maker, con l’obiettivo di rassicurarli nell’operazione di dare voce ai marginali, senza in realtà ascoltare la vera voce dei veri marginali. Tecnicamente, si tratta di una lettura decostruttiva, che cioè mira a mostrare come il testo sia l’esito di rapporti di forza e, per questo, generi un campo di potere, una narrazione egemonica e dei soggetti “assoggettati”. Non ho particolari problemi con questo esercizio, a patto che non ci si dimentichi del testo da decostruire, deformandolo o nascondendolo sotto una coltre di errori e giudizi pre-testuali. La critica non può trascurare l’analisi, il rigore e il rapporto con l’oggetto a cui si rivolge. Ed è qui che patentemente scivola la recensione di Ota De Leonardis, come illustrerò qui di seguito.

Come anticipavo, il punto d’arrivo della recensione è che: «i marginali non “innovatori” sono esclusi dal quadro. Il che vuol dire che non sono presi in conto nell’ambito politico delle politiche». Secondo la critica, questo sarebbe lo stratagemma che mi permette, appunto, di incontrare il policy-maker e di rassicurarlo. Una mossa dall’alto, quindi, che invece di mettere al centro la voce dei marginali, li mette a tacere con la forza sovrastante della voce dei policy-maker che parlano al posto loro: «con il loro vocabolario (e i relativi “motivi”) esercitando il potere di nominare di cui parlava Humpty Dumpty ad Alice».

Per comprendere perché si tratti di una critica priva di fondamento rispetto al testo e davvero confusiva per chi legge, metterò in fila la sequenza di errori, imprecisioni e omissioni che portano De Leonardis a questa conclusione.

Il principale rilievo di Ota De Leonardis riguarda la spiegazione su cui il mio libro - Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica (Laterza, 2023) - fonda il fare insieme, che innesca la costruzione di un noi collettivo e il relativo processo di (ri)politicizzazione del futuro. Secondo la recensione, per spiegare la costruzione del noi e la politicizzazione del futuro-in-comune, farei entrare in gioco la natura. Ma lo farei, viene obiettato, in un modo del tutto diverso se non opposto rispetto alla nozione di terrestre e alla prospettiva ecologista di matrice latouriana, da cui questa nozione proviene e che viene appunto ripresa nel libro. L’obiezione, quindi, è che i miei argomenti ricorrano a una concezione di natura che, oltre a essere errata in sé, è incoerente e non adatta allo scopo. Tale concezione, poi, farebbe il paio con una cornice utilitaristica e derivata dall’economia neo-classica, che informerebbe la prospettiva teorica da me adottata. È davvero imbarazzante far rilevare che nel libro non c’è nulla di tutto questo e che si tratta di argomenti fantasmatici che violano gli standard minimi richiesti dalla discussione scientifica: rendere giustizia al testo dell’interlocutore. Vediamo perché.

Innanzitutto, la prospettiva analitica alla quale si rifanno i miei argomenti è del tutto anti-utilitaristica. Inoltre, è una prospettiva che nega la preminenza di una individualità pre-formata. Lo scrivo in tutti i modi e ovunque. Nel primo capitolo (pag. 13), per esempio, ricordo che gli spazi quotidiani abilitano scambi che premiano azioni il cui valore dipende dal comune riconoscimento dei partecipanti in una regola terza rispetto all’azione, non dal suo risultato estrinseco e dall’utilità economica che ne consegue. Dove quindi: «Il senso relazionale dell’azione non si riflette nel risultato in quanto tale: se bucate una gomma e il “buon samaritano” si ferma per aiutarvi, gli sarete comunque grati anche se l’azione non dovesse andare a buon fine e vi trovaste costretti a ricorrere al carro attrezzi. Gli sarete grati perché il “buon samaritano” ha seguito una regola nella quale entrambi vi riconoscete come persone: ama il prossimo tuo come te stesso. Sono, queste, le caratteristiche dei beni analizzati da alcune versioni della cosiddetta teoria dello scambio sociale, secondo la quale ciò che si scambia nella vita sociale è appunto una particolare categoria di beni non riducibili alle dimensioni economiche dello scambio» (corsivo aggiunto). Nella nota successiva ribadisco: «Si potrebbe sostenere che i bambini sono parte di una rete di interdipendenze costituite da rituali dell’interazione e infrastrutture sociotecniche fin dalla loro venuta al mondo. In questo modo la questione sarebbe quella di spiegare la loro successiva autonomia individuale, cosa che avviene poco a poco. Il noi, in questa accezione, precede la formazione dell’individualità e il problema è spiegare come si forma la seconda a partire dal primo. We in me or me in we?». Potrei continuare con altre citazioni, che non farebbero altro che confermare quanto fin qui detto. Davvero non è dato capire in che modo De Leonardis avrebbe preteso di smontare criticamente l’impianto analitico del libro con argomenti così palesemente fuori bersaglio.

La critica continua con l’obiettivo di rafforzare questo punto, con il solo risultato di indebolire ulteriormente l’argomentazione. Nel mio libro sposo la tesi che il comportamento di gruppo/collettivo degli animali, anche di quelli più simili all’uomo, non richiami il soggetto plurale orientato a un futuro più giusto. Per obiettare a ciò, De Leonardis cita il notissimo caso dell’intelligenza collettiva delle formiche (“Io ho un feeling con le formiche”, scrive De Leonardis) che, secondo lei, sarebbe appropriato per rappresentare quel riconoscimento di un destino comune, quella “interdipendenza” alla base della socievolezza del “noi” che il libro attribuisce alla specie umana. Anche questo è uno scivolone concettuale enorme, alla cui base c’è una confusione elementare, che non si dovrebbe davvero ribadire. Più precisamente, il libro ha, tra gli altri, fondamento nei lavori dello psicologo statunitense Michael Tomasello, il quale non parla di intelligenza collettiva ma di intenzionalità collettiva e/o di agency condivisa. La confusione dei due concetti (intelligenza collettiva e intenzionalità collettiva) invalida l’intero argomento critico sollevato dal commento di De Leonardis. Tomasello esegue esperimenti su viventi umani e animali per comprendere a quale età i bambini si comportano in modo diverso dagli scimpanzé. Ciò gli consente di sostenere che lo sviluppo dei bambini replica la storia evolutiva umana: i bambini iniziano con abilità simili a quelle degli scimpanzé, poi si spostano rapidamente verso le capacità unicamente umane che sono emerse all’inizio della nostra evoluzione. In questo modo, l’ontogenesi segue la filogenesi.

In nota nel libro (nota 24, pag. 146), ribadisco che si tratta di un’impostazione influenzata dalle tesi di John Searle, il quale sostiene che dobbiamo distinguere in che modo la realtà sociale differisce dalla realtà fisica. La tesi di Searle è che la realtà sociale è una costruzione della mente attraverso l’intenzionalità collettiva della coscienza del noi, in opposizione all’intenzionalità dell’io relativa alla coscienza dell’io. Nella vita sociale, collaboriamo gli uni con gli altri nel creare pratiche istituzionali per obiettivi condivisi. Creiamo così fatti istituzionali che sono altrettanto reali dei fatti fisici, sebbene le realtà istituzionali dipendano dal lavoro delle nostre menti e non siano direttamente osservabili nello stesso modo in cui la realtà fisica è direttamente osservabile. Tomasello riprende questa idea sostenendo che gli esseri umani sono unici nella loro capacità di intenzionalità condivisa. Ciò consente di impegnarsi, attraverso l’uso di capacità simboliche, nella costruzione di pratiche culturali in modi qualitativamente diversi dagli scimpanzé e dagli altri primati. In sintesi, se è vero che le formiche agiscono certo in modo coordinato e interdipendente ciò è un punto del tutto diverso dal tema dell’agency collettiva. Agire insieme in modo coordinato non implica quella differenza specifica: non presuppone il soggetto plurale o noi. C’è una letteratura ampia e solida, non solo teorica ma anche sperimentale ed empirica, a sostegno di questa tesi. Tomasello la sintetizza nel suo libro Altruisti nati (1) , da me più volte citato.

Anche gli argomenti successivi, che da questa critica infondata discendono, sono fallaci. Per esempio, nella recensione leggiamo che: «con questa semplificazione la questione del collettivo viene inquadrata nell’impianto concettuale dell’economia neo-classica utilitarista (in versione da parodia, beninteso). Di questo impianto si riproduce il bisogno di mobilitare il livello ontologico, la natura umana». Sembra di nuovo rinvenire qui un’ossessione per l’accoppiata natura umana-utilitarismo che, secondo la recensione, strutturerebbe l’impianto analitico del libro. Così, come ho appena mostrato, non è.

Dal momento che la confusione tra ontologia e ontologia sociale è alla base del grave fraintendimento in cui incorre la recensione, descrivo qui di seguito brevemente la differenza in parola. L’ontologia sociale è quella branca della filosofia, sviluppata dagli anni '80 del secolo scorso fino ai giorni nostri, che si occupa di analizzare la realtà il cui artefice è l'uomo e che viene chiamata realtà sociale, poiché ha bisogno, almeno all'inizio, di un riconoscimento collettivo da parte di un gruppo più o meno ampio di soggetti (2). L'ontologia sociale ha come oggetto di indagine quei fatti che nascono da un accordo umano. Per esistere hanno bisogno che gli uomini collettivamente vi credano, che esistano e li riconoscano come esistenti in modo performativo. Nessuna natura umana pre-sociale, quindi. Come ricordo nel mio libro (…) riprendendo Tomasello, le attività pratiche di collaborazione in situazioni di interdipendenza necessaria (es. cacciare e condividere il cibo, difendersi, allattare la prole) hanno selezionato individui propensi alla cooperazione, alla comunicazione sociale (à la Mead intenderci) e, soprattutto, dotati di capacità di giudizio normativo e senso di equità. Certamente, tale capacità può essere più o meno estesa, più o meno inclusiva dei bisogni e interessi altrui e più o meno capace di generare un futuro più giusto. Ciò, appunto, dipende dalle condizioni sociali che definiscono i confini dei gruppi, la loro porosità e apertura alla dissonanza generata dai “senza voce”, quindi dalla capacità di tessere nessi spaziali e pratici tra bisogni individuali dissonanti e soluzioni condivise. Come si vede, il tema rimanda in modo chiaro e netto ai contesti e alle situazioni sociali (interdipendenza, confini, porosità, dissonanza, azioni pratiche) e non a una natura umana pre-sociale. Confondere le due prospettive porta la recensione a critiche infondate e a conclusioni palesemente errate. Come ho anticipato, non si tratta di dissidi interpretativi, ma di errori fattuali rispetto al tipo di argomenti, autori e concetti richiamati esplicitamente nel testo.

Questa centralità dell’ontologia sociale (e non della “natura umana”) è poi del tutto coerente con Latour e con la sua prospettiva ecologista del terreste, contrariamente a quanto affermato dalla recensione: «È abbastanza evidente che questo modo di ricorrere alla “natura” collide con il modo in cui essa è richiamata, con i riferimenti a Gaia, al terrestre” e a Bruno Latour». Questa obiezione sarebbe fondata se il libro si richiamasse alla natura e al fondamento dell’individuo come essere naturale, ma così non è come ho appena chiarito. Lo stesso Bruno Latour ha definito la sua actor-network theory all’incrocio tra ontologia e teoria sociale, quindi come ontologia sociale: «What I am doing is a crossing of ontology and social theory with actor theory» (3). Mi parrebbe il caso di dare credito al sociologo francese, a meno di scovare qualche intenzione nascosta di parlare ai policy-maker anche in Latour.

Sempre la stessa erronea obiezione (il naturalismo pre-sociale) si legherebbe ad altre presunte incoerenze. È questo il caso del concetto di «neutralizzazione del mondo» (pag. 36), che qualifica il fare insieme degli umani. Ota De Leonardis afferma che l’espressione è di origine militare e la riporta alla letteratura sui rischi ambientali. Unespressione, così sostiene, di «conio recente» e che fa proprio il contrario del fare insieme politico oggetto del libro. Anche in questo caso, i riferimenti del libro sono altri e riportati in modo chiaro e non equivocabile. Come scrivo, la neutralizzazione del mondo è il modo di riconoscere la dipendenza reciproca (il noi, appunto). Il riferimento è al saggio di Alessandro Pizzorno (4), scritto nei lontani anni ’60 e molto distante dalla recente letteratura sui rischi ambientali.

Che il concetto di neutralizzazione sia centrale in una letteratura che io non cito, quella sui rischi ambientali, non è davvero un argomento ricevibile. È del tutto nominalista e, di nuovo, fantasmatico. Come nominalista è la critica all’uso che faccio di domanda e offerta di futuro, che anche qui mostrerebbe la vicinanza all’approccio della razionalità economica e dell’individualismo metodologico “naturalizzante”. Ho già illustrato come non sia così, con riferimenti puntuali e precisi al libro. Qui ribadisco come non bastino i nomi a definire i contenuti degli argomenti. Per esempio, Alessandro Pizzorno nel suo saggio critico contro la teoria della scelta razionale e l’individualismo metodologico (dal titolo Sul confronto intertemporale delle utilità) scrive di «curva del tasso di sconto piatta» (1986, p. 19). Basta l’uso dei nomi/parole per accusarlo di economicismo? No, ovviamente. Il medesimo ragionamento vale anche per l’impostazione del mio libro. Sarebbe stato diverso se avessi scritto di equilibrio di mercato, di prezzi, di costo-opportunità, di utilità marginale, di concorrenza, etc. Se, insomma, facessi quello che Gary Becker ha fatto a proposito del crimine e la famiglia: applicare per estensione la grammatica dell’economia come linguaggio generale. Ma così non è. La capacità di aspirare, quando funziona, genera domanda di futuro. Non c’è nessuna contraddizione con l’accezione data da Appadurai e con l’idea che la capacità di aspirare sia un fatto culturale, contrariamente a quanto scrive De Leonardis. La cultura, fortunatamente, non esclude il ruolo dell’agency, individuale e collettiva. Appadurai stesso parla di navigational capacity: interazioni performative intenzionali e organizzate, che portano a situare problemi immediati in una mappa di aspirazioni capaci di collegare gli aspetti materiali della vita (experience-near) alle concezioni culturali più generali di vita buona (experience-distant). Perciò - a prescindere dai risultati che possono o no raggiungere - tali azioni ampliano e infittiscono la mappa della aspirazioni, recuperano l’ancoraggio al futuro e rafforzano la capacità di “voice”. La mappa delle aspirazioni diventa uno strumento per navigare nel futuro in un dato spazio sociale: l’io presente si collega (prefigura, si immagina, formula congetture) ai suoi possibili io futuri in possibili stati futuri del mondo. Individua così possibili scopi, possibili ruoli (essere un ballerino, un sociologo, un astronauta, un contadino, una mamma, un papà) verso cui dirigersi in modo intenzionale. Tali ruoli rimandano all’organizzazione sociale e ai criteri di giustizia che la informano. Nessuna contraddizione, quindi, tra agency e capacità. Del resto, è sufficiente aver letto Sen per saperlo.

 

Possiamo ora tornare alla critica principale da cui sono partito in questa mia replica, vale a dire che il libro sia rivolto ai policy-maker con l’effetto di negare la parola ai senza voce. Anche in questo caso, il commento trascura i numerosi passaggi del libro dove sostengo che il dare voce è un’operazione relazionale di co-costruzione e non di graziosa concessione o imposizione da una voce forte e pre-costituita verso una voce debole. Per esempio, affermo: «La domanda di giustizia sociale e il senso di equità sono caratteristiche costitutive della specie umana, ma non per questo si traducono meccanicamente in capacità di azione comune. Si tratta di caratteristiche che, per farsi azione, dipendono dalla salienza di un “noi” dotato di intenzionalità condivisa. Un “noi” che si costituisce a partire dalla capacità di voice dei marginali e di chi ha minor potere. Non si tratta quindi di includere graziosamente i marginali in un campo d’azione pre-definito, ma di co-costituirsi come soggetto plurale, come un “noi” appunto, insieme a questi» (Lo scrivo non casualmente nell’introduzione, a pag. 7). Quindi il policy-maker, che la recensione immagina come l’interlocutore principe del mio libro, dovrebbe anzitutto mettersi in discussione come attore, se volesse essere coerente con quello che scrivo. Dovrebbe cioè accettare che, come chiarisco: «La domanda per un futuro più giusto deve accompagnarsi a una corrispondente offerta, in un rapporto di mutuo arricchimento e crescita. È illusorio pensare che esista un popolo (domanda di futuro) in attesa della rappresentanza (offerta di futuro): il “popolo” si genera e co-evolve con la sua classe dirigente, la nutre e se ne nutre in un rapporto di mutuo scambio e riconoscimento» (corsivo aggiunto). Il “dare voce” è quindi chiaramente inteso, in coerenza del resto con tutto l’impianto del libro, come costruzione comune e reciproca della capacità di voce pubblica. Perché è davvero difficile negare che i marginali (più o meno innovatori) abbiamo pari voce pubblica. Altrimenti perché definirli marginali? Pensare che la loro voce si senta come la nostra e vada solo “presa” come si raccoglie un frutto dall’albero è una postura spontaneista che nega le differenze di potere, prestigio e influenza che esistono, per esempio, tra docenti universitari ed esclusi.

Vale la pena spendere qualche parola in più su questo punto. Il libro adotta una specifica concezione del riconoscimento reciproco, di derivazione hegeliana. Come chiarisce Alex Honneth (2019) (5), questa concezione vede il riconoscimento come attribuzione di una autorità morale a un soggetto-altro che obbliga il soggetto attributore ad autolimitare il proprio campo di azione. Con questo “riconoscimento reciproco” i soggetti si pongono uno di fronte all’altro come «coautori delle norme da essi stessi praticate» (pag.140), entrambi titolati «a intervenire nella loro verifica e interpretazione» (pag. 140), ovvero «a esprimersi nel dar forma alla prassi del vita comunitaria» (pag. 140). In questo senso, essi si includono reciprocamente in una comune sfera di cittadinanza nell’ambito della quale condividono il diritto, innanzitutto politico, di discutere e definire via via gli assetti normativi che regolano la loro vita e le condizioni della loro auto-determinazione. Questa è una concezione lontana da quella, più diffusa nel linguaggio quotidiano e influenzata dal retaggio dalla filosofia morale scozzese di Hume e Smith. Secondo la tradizione scozzese il riconoscimento è essenzialmente un «attestato di buona condotta» rilasciato dal riconoscente (pag. 136). Il riconoscimento di questi attestati di buona condotta ha un effetto costitutivo sullo status del riconosciuto: grazie a esso un individuo cessa di essere o non diventa un Altro per diventare o restare “uno di Noi”. Tuttavia la concessione dell’attestato non ha nessun effetto costitutivo sullo status di coloro che riconoscono (chi ha più voce): tutti questi sono già perfettamente costituti come membri del Noi e inclusi nella cerchia di cittadinanza, a monte e indipendentemente dal riconoscimento dell’altro. L’effetto perlocutivo dell’attestato, possiamo dire, è unidirezionale.

Il processo di riconoscimento è così simile al caso del docente universitario presidente di una commissione di esami di laurea, ruolo che con tutta evidenza rimanda alla critica del tutto impropriamente mossa da Ota De Leonardis; dichiarando dottore gli studenti egli “fa” qualcosa su loro – li “fa” per l’appunto diventare dottori – ma per lui stesso la dichiarazione non cambia nulla, è mero esercizio di potere già pre-costituito. Nel caso del rilascio di certificati di buona condotta non ci troviamo di fronte a un riconoscimento reciproco, quanto piuttosto a una “classificazione” del riconosciuto come simile (cfr. p. 135). Nella sua accezione più vicina al linguaggio quotidiano, quella derivante dalla tradizione scozzese, il riconoscimento consiste nella “ammissione” di un soggetto che può essere ritenuto un “simile” ad un Noi che già esiste: il riconoscimento “indica la reazione positiva di una comunità, già costituita sul piano normativo (c.m), al comportamento morale di un singolo membro di quella comunità” (pag. 147 vedi anche p. 135).

Tutta diversa è l’impostazione del riconoscimento basato sulla reciprocità adottata nel libro (e del tutto omesso dalla recensione di De Leonardis). In tal caso l’autorizzazione rilasciata al riconosciuto a esercitare la propria volontà ha un effetto costitutivo anche su coloro che riconoscono, perciò è un atto bi-direzionale e presuppone, appunto, la reciprocità. L’effetto della autorizzazione è dunque bilaterale. In questo modello, quindi, il noi non è antecedente al riconoscimento ma emerge da esso. Chioserei aggiungendo che, nell’ottica qui sposata, la sfera della cittadinanza, come sfera in cui gli individui si riconoscono come parte di un Noi integrato da norme sociali condivise e perciò “presupposto di ogni vita sociale” (p. 142, p. 157), non è una sfera precostituita con dei confini a cui gli altri sono ammessi quando hanno “cessato di essere altri” e si sono mostrati simili. Nella sfera pubblica eterarchica (altro concetto cruciale nel mio libro, che De Leonardis non ha colto o non ha capito) abitano una pluralità di coautori che in modo paritario dispongono dell’autorità necessaria per giudicare se le norme comuni sono da approvare o no (p. 139) e più co-autori possono decidere “sull’adeguatezza e sulla corretta applicazione di queste norme” (p.139). Perciò nella sfera pubblica che emerge da questa idea di riconoscimento rileva la presenza di una pluralità di soggetti autorizzati a classificare se stessi e le loro azioni secondo diversi criteri di valore, attinti da un vocabolario di motivi o connessioni simboliche il cui allineamento non è scontato, ma è un risultato di un continuo confronto e conflitto. È la possibilità di voice che rende effettivamente presente l’altro in quanto Altro-non-simile. Senza conflitto non c’è vera alterità. La recensione non (ri)conosce questa differenza e schiaccia il riconoscimento come reciprocità dissonante, di derivazione hegeliana e ripreso da Honneth, sul riconoscimento come elargizione unidirezionale, di matrice scozzese e più vicino al senso comune. Un altro argomento fantasmatico.

 

Ho, in questa replica, sottolineato come la recensione difetti di considerare il testo, ometta passaggi cruciali, confonda concetti tra loro molto diversi e segua strade che con la postura teorico-analitica del libro non hanno nulla a che fare. Certamente apprezzo la critica, ma apprezzo parimenti che questa si basi su quello che ho scritto. Ho dovuto scaricare in nota, su richiesta dell’editore, i passaggi analitici più densi. Ciò non facilita la lettura analitica del libro. Del resto, non è attraverso sequenze di errori logici, analitici e concettuali che si costruiscono argomenti solidi. Il libro ha evidentemente costretto De Leonardis a confrontarsi con una letteratura che non conosce. Quando ci si confronta con temi e argomenti non familiari, non è mobilitando il già conosciuto attraverso l’euristica della disponibilità che si fa un buon servizio all’autore e al lettore. Si rievocano, così, solo i propri fantasmi, idiosincrasie, habitus di gate-keeping istituzionale e “tic” di campo.

Filippo Barbera

 

Note
1) Si possono vedere, per una trattazione più tecnica, anche: “Diventare umani”, “Le origini culturali della cognizione umana”, “Le origini della comunicazione umana”, “Dalle lucertole all'uomo. Storia naturale dell'azione”. Si può non essere d’accordo con questa letteratura ma occorre spiegare le motivazioni, non etichettarla a priori come “senso comune”. Diversamente non si rende un buon servizio alla discussione intellettuale e al lettore.
2) Cfr C. Rosciglione, “Il collettivo secondo Margaret Gilbert: impegno congiunto e soggetto plurale”, in F. La Mantia, A. Le Moli (a cura di), Persona, comunità, strategie identitarie, Palermo University Press, Palermo 2019, pp. 293-306.
3) An Interview with Bruno Latour, in “Configurations, Volume 1, Number 2, Spring 1993.
4) Il saggio “Sulla maschera” scritto nel 1952, pubblicato per la prima volta nel 1960 e ora in Sulla maschera, il Mulino, Bologna 2008, pp. 40-42.
5) Riconoscimento. Storia di una idea europea, Feltrinelli, Milano 2019.

 

 

N.d.C. - Filippo Barbera è professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro presso il Dipartimento CPS dell’Università di Torino, fellow presso il Collegio Carlo Alberto e membro dell’assemblea del Forum Diseguaglianze e Diversità. Si occupa di innovazione sociale, economia fondamentale e sviluppo delle aree marginalizzate.

Tra le sue pubblicazioni recenti: con D. Cersosimo e A. De Rossi (a cura di), Contro i borghi (Donzelli, 2022); con A. Membretti e G. Tartari (a cura di), Migrazioni verticali (Donzelli, 2024); con P. Luongo (a cura di), L’economia, la politica, i luoghi. Saggi per Fabrizio Barca (Donzelli, 2024).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 

 


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11 SETTEMBRE 2024

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A. Porrino, Biopolitica e governo delle condotte, commento a: O. Marzocca, Il virus della biopolitica (Efesto, 2023)

A. Bonaccorsi, La Storia dell'aerchitettura è la Storia, commento a: C. Olmi, Storia contro storie. Elogio del fatto architettonico, (Donzelli, 2023)

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