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Nel 2009 Giovanni Maciocco e io abbiamo pubblicato da Springer-Verlag un volume intitolato People and Space. New Forms of interaction in City Project il cui motivo conduttore era quella che chiamavamo “la critica dell'illusione terapeutica dello spazio”, propria anche del Movimento Moderno. Questa illusione, che ha caratterizzato molti degli ultimi sviluppi della tradizione disciplinare dell'urbanistica, si può far corrispondere alla formula secondo la quale “il miglioramento dell'urbs determina il miglioramento della civitas”, una formula che subordina esplicitamente le azioni sulla seconda a quelle sulla prima. Le aree urbane hanno subito un peggioramento e un deterioramento anche in seguito a questo ruolo subordinato che gli urbanisti hanno attribuito alla civitas, sbilanciando il rapporto dalla parte della città edificata, col risultato di produrre, insieme ad altri fenomeni, quello che Françoise Choay ha definito il “divorzio tra urbs e civitas”, che ha proiettato la città in una prospettiva non-place, facendole così perdere il rapporto con il luogo.
Vi sono fenomeni strutturali, che hanno caratterizzato le dinamiche urbane, di fronte alle quali il disagio disciplinare dell'urbanistica si è dimostrato con evidenza: la dinamica delle reti tecniche si è progressivamente sostituita alla statica dei luoghi costruiti per condizionare mentalità e comportamenti urbani. Si tratta di un sistema di riferimento fisico e mentale, costituito da reti materiali e immateriali così come da oggetti tecnici, la cui egemonia indiscriminata nei rapporti che le nostre società intrattengono con lo spazio e il tempo ha demoltiplicato e delocalizzato l’interazione degli individui. Ormai sembra che l’appartenenza a delle comunità di interesse diverse non si fondi più né sulla prossimità, né sulla densità demografica locale, in una prospettiva di etica della prossimità. Trasporti e telecomunicazioni ci coinvolgono in relazioni sempre più numerose e diverse, col risultato di ridurci via via a membri di collettività astratte, i cui impianti spaziali non coincidono più e non presentano più stabilità nel tempo (1).
L’economista americano Melvin Webber nel 1967 ha saputo qualificare in una formula lapidaria, “the non-place urban realm” (2), la delocalizzazione dell’ancestrale civitas e analizzare esemplarmente le ripercussioni che ne sono già scaturite e quelle possibili e future. Fin dal 1968 egli proponeva il concetto di “post-city age”, l’era del dopo città, che è ambiguo tradurre come era post-urbana, dal momento che conviene designare attraverso l’urbano la nuova cultura planetaria e il suo modo al tempo stesso unico e polimorfo di trattare la questione dello spazio abitabile. L’esame del lessico fa emergere l’egemonia dell’urbano, esplicita in espressioni e formule come regione urbana, comunità urbana, distretto urbano, campo urbano, che dicono abbastanza dell’eclisse della città e dell’anacronismo di termini, come “comune”, “villaggio”, “città”, che sembrano ormai consegnati alla storia e destinati a essere riservati all’area delle nostalgie. Queste parole ormai desuete ci richiamano tuttavia alla realtà inconfutabile della nostra condizione naturale, al fatto che, “quali che siano l’immaterialità, l’astrazione, la molteplicità delle relazioni che gli urbani intrattengono tra essi attraverso il pianeta, essi sono, noi siamo, nostro malgrado, gettati nello spazio e costretti a viverci e a soggiornarci da qualche parte. Ma dove e come?”(3).
Questa domanda viene oggi riproposta da Giancarlo Consonni nel suo libro intitolato Non si salva il pianeta se non si salvano le città, Quodlibet, Macerata 2024. Anche la sua analisi si concentra sulle conseguenze negative della scissione tra urbs e civitas, sottolineando che esse “sono così connesse e interagenti che la tesi di una indifferenza delle forme insediative rispetto alla qualità delle relazioni sociali, oltre a essere infondata, non fa che portare acqua al mulino della deresponsabilizzazione circa i destini del consorzio civile. In altri termini, se si vogliono perseguire obiettivi come la coesione sociale, l’integrazione, la sicurezza e, più in generale, se si intende migliorare la convivenza civile, si devono mettere in campo - sul fronte degli assetti fisici degli insediamenti umani - azioni specifiche che siano sinergiche e coerenti con quelle riguardanti la civitas” (p.55).
E anche Consonni individua tra le cause di questa scissione l’interesse prevalente se non addirittura esclusivo per la questione dei collegamenti a distanza che ha finito per oscurare l’importanza delle reti di prossimità: “Da tempo, negli agglomerati insediativi la nota di fondo è diventata la compresenza degli edifici nell’indifferenza. E questo perché gli organismi edilizi tendono a ridurre il rapporto con il contesto al solo legame con le reti, a cominciare dai trasporti e dalle telecomunicazioni; un rapporto egoistico puntualmente registrato nel carattere chiuso e introverso degli edifici: un carattere malcelato nelle torri terziarie dagli involucri vetrati che le trasformano in teche sigillate e più evidente nelle villettopoli (Pier- luigi Cervellati), laddove si assiste al rintanarsi delle case dietro alte siepi. Ne derivano paesaggi sempre più estesi in cui si respira aria da bunker, dove la soglia è abolita nel suo ruolo e significato di legame, di intermediazione, di penombra, di ‘punto d’incontro tra silenzio e luce’ (Kahn, The room, the street and human agreement, p. 136: 65). In questi paesaggi o si è dentro o si è fuori, con la sensazione dominante, negli spazi aperti, di essere sempre e comunque fuori posto. L’esatto contrario di quanto è ancora possibile riscontrare nelle città storiche, nei cui ‘interni’ aperti pubblici viene esaltato tanto il carattere affabile quanto la propensione all’affabulazione degli aggregati; qualità che si manifestano nella capacità di alimentare il desiderio e il piacere della scoperta delle potenzialità della convivialità, da cui il generarsi di una narrazione nella quale chi passeggia è insieme interprete e destinatario. ‘È infatti cosa di non poco conto – afferma Leon Battista Alberti a proposito delle strade delle città – che chi vi cammini venga scoprendo a mano a mano, quasi ad ogni passo, nuove prospettive di edifici’ (Alberti, L’architettura, p. 306). Nel mondo in cui viviamo la narrazione urbana si è interrotta: i nuovi agglomerati sono muti tanto sul fronte della memoria quanto su quello della coltivazione del desiderio e del sogno. Gli edifici, se parlano, è per esibirsi in vaniloqui” (pp.64-66).
Ho citato per intero questo passo perché in esso sono esemplarmente sintetizzati alcuni dei nodi cruciali fondamentali che non solo l’urbanistica e l’architettura, ma la cultura contemporanea nel suo complesso non possono fare a meno di affrontare. Il primo riguarda la complessità dell'operazione di far combaciare i bordi di due mondi contrastanti, la realtà esterna su cui intervenire e l’universo interiore del soggetto, individuale o collettivo, indagata e analizzata con acume di recente da Fabio Merlini (4), il quale approfondisce l’ampio spettro di possibilità con cui deve essere interpretata e vissuta questa relazione, con i suoi due estremi costituiti da una loro reciproca estraneità, per un verso, e da una interazione in virtù della quale essi invece non solo aderiscono, ma si sostengono e si rigenerano vicendevolmente, per l’altro, con tutta la gamma delle svariate modalità intermedie fra loro. Viene così offerta concretamente una pregevole ricostruzione dei processi di mediazione e di incorporazione che reinventano l’esterno attraverso la sua interiorizzane, dando così il senso di come si possa andare al di là della coppia opposizionale fuori/dentro, costituendo così quell’equilibrio tra l’esterno della percezione e l’interno della sensazione di cui è espressione concreta il paesaggio.
L’aderenza tra esteriorità e interiorità attraverso la ricomposizione e la coincidenza dei loro rispettivi bordi realizza un “ritorno a sé e in sé arricchito”, che è l’esatto contrario della “curiosità corrosiva” che va alla continua ricerca di un ‘oltre’ inconcludente che accende e spegne l’attenzione distratta e inappagata, sempre in cerca di nuove sollecitazioni per sentirsi sempre viva”(5). Questa operazione di ricomposizione, se operata e condotta nel modo dovuto, produce un esito, in virtù del quale “si diventa maggiori di sé stessi. Diventare maggiori di sé stessi significa oltrepassare il limite istituito dalla percezione di sé, quale si delinea attraverso il vissuto quotidiano. È un andare oltre l’immagine che si ha di sé”(6). Per conseguire questo risultato occorre acquisire la consapevolezza dell’importanza di “un desiderio non tanto di possesso del mondo, bensì di appropriazione di sé, nel senso di un lavoro mai concluso di ridefinizione della propria apprensione dello spettacolo del mondo, che sospinge giocoforza sempre più in là la capacità di trattenere presso di sé ciò di cui si è stato testimoni”(7).
Come si fa ad ancorare la soggettività alla realtà al di là di essa, il mondo interiore a quello esteriore, il dentro al fuori? Con quali strumenti percettivi e cognitivi li si può far combaciare e interagire? E da dove partire per cominciare a realizzare questo processo? Sono queste le domande alle quali non si può esimere dal rispondere chi intende progettare.
È evidente che non può essere trovata nessuna risposta soddisfacente a questioni di questo genere se si resta prigionieri della coppia opposizionale "dentro"/"fuori", alla quale si devono sia la problematicità della coincidenza dei bordi tra esteriorità e interiorità, in modo da produrre il processo di incorporazione e assimilazione della realtà di cui parla Merlini, sia la difficoltà di capire davvero, ad esempio, la definizione di paesaggio proposta dalla Convenzione europea del 2000, che lo considera uno spazio intermedio tra la fisicità materiale del territorio e l'universo interno dei simboli.
Una via d'uscita ce la offre Lacan, il quale elabora il concetto di estimità per approfondire alcuni degli aspetti più complessi e controversi della soggettività, dell'inconscio e della stessa pratica analitica. Il termine estimità traduce il francese extimité, neologismo lacaniano che fonde il prefisso ex di exterieur con l'aggettivo intime per creare l'ossimoro di una “esteriorità intima”(8). Se questo concetto viene utilizzato nel settimo seminario per indicare la “fase generativa della soggettività che precede logicamente l'opposizione tra interno ed esterno”, nel decimo seminario(9) l'analisi della soggettività viene affrontata facendo esplicito riferimento alle superfici non orientabili come il nastro di Möbius, una superficie muovendosi all’interno della quale si può credere in ogni momento che ci sia una faccia non ancora esplorata, quella che è il rovescio della faccia che sta percorrendo. Si può così credere a questo rovescio, benché di fatto non ci sia. Senza rendersene conto, si esplora l'unica faccia che c'è, eppure, in ogni momento, c'è anche un rovescio (10).
Il superamento delle rigide coppie opposizionali esterno/interno, fuori/dentro fa emergere l’importanza del confine da intendersi non esclusivamente come linea di demarcazione, ma anche e soprattutto come interfaccia, ponte, filtro e dispositivo di collegamento, questione cruciale che ho cercato di porre al centro dell’attenzione già nel 1997 (11). Ne scaturisce la centralità del concetto di soglia, oggetto di un‘analisi approfondita in un libro che ho scritto insieme a Bartolini, uscito nel 2020 con la prefazione di Romano Màdera(12).
Lavorare su questi concetti significa, concretamente, sostituire il tradizionale approccio interpretativo, basato sulle descrizioni e sulle rappresentazioni, con quello che possiamo definire incrementale, che fa riferimento al costante ampliamento della nostra esperienza in virtù dei risultati di ciò che progettiamo e realizziamo, come espressione effettuale, quindi, della nostra immaginazione produttiva, che modificano costantemente ed estendono le nostre forme di vita e i luoghi in cui si radicano. In presenza di questa saldatura di percezione e progettazione, dell'effettuale con il possibile non si può parlare di mimesis, di semplice rappresentazione e imitazione di ciò che è qui e ora: bisogna invece cogliere il processo, il farsi, il divenire delle forme, la loro continua ricreazione. Ecco il senso da attribuire al riferimento di Consonni al “punto d’incontro tra silenzio e luce”, ripreso e chiarito con la puntuale citazione dei “claros del bosque su cui Maria Zambrano ha scritto pagine illuminanti” (p. 24).
È interessante a questo proposito ricordare che proprio “al claro del bosque” e a Maria Zambrano è dedicato l’esergo che Massimo Cacciari ha scelto per aprire il suo ultimo libro (13) e che in qualche modo ne indica la finalità. Questo riferimento vuol significare, come si spiega in una delle pagine iniziali dell’opera, che: “la nostra luce è 'chiara' come può esserlo il claro del bosque (Maria Zambrano). Noi possiamo far- chiaro, clarare, soltanto aprendo radure (clairière, clearing) nel bosco. Luce e lucus si apparentano; potando e disboscando (collucare, inter-lucare, sub-lucare) ci facciamo luce, grazie a cui c'è dato vedere e vivere, ma nel bosco sempre. […] Il lucus è perciò sì un luogo aperto (aperto dall'uomo e consacrato successivamente al dio), ma aperto nel bosco. Il bosco rimane il soggetto fondamentale: bosco fitto e impenetrabile, e che proprio per questo fornisce asylum. È il chiuso del bosco che garantisce e protegge l'aperto del lucus. Qui, nel claro, la luce è perciò sempre opaca. L'accento non cade sulla claritas, sulla piena luminosità, ma sulla debolezza della luce. La luce non giunge mai a illuminare perfettamente il lucus. Il claro è il luogo dell'ombra; la luce del locus è quella propria dell'ombra. ‘Nulli certa domus; lucis habitamus opacis’ (Virgilio, Eneide, VI, 673). Non abitiamo spazi aperti, ma il lucus che si apre nel profondo dell'ombra. Il lucus è il cuore luminoso-opaco del bosco, che appartiene al bosco, indisgiungibile dalle sue stesse tenebre”(14).
Questo passo chiarisce bene il significato dell’approccio incrementale, basato sul costante ampliamento della mostra esperienza, al quale mi sono appena riferito, in quanto evidenzia che noi possiamo far luce e comprendere soltanto “aprendo radure” che ci consentono di procedere nel bosco. E sottolinea altresì la centralità dei luoghi, dei contesti di appartenenza, del “chiuso del bosco”, che fornisce asylum e garantisce e protegge l'aperto del lucus. Ombra indisgiungibile dalla luce, dunque, e apertura che non può essere adeguatamente compresa se si omette il suo nesso con la chiusura. Val la pena di rammentare, a questo proposito, che l’antitesi tra questi due estremi viene superata, nei sistemi complessi, con l’introduzione del concetto di “chiusura operazionale”, su cui si basa la teoria dei sistemi autopoietici di Maturana e Varela: “Un sistema autopoietico è un’unità composita, una rete di produzione di componenti che: a) attraverso le loro interazioni rigenerano ricorsivamente la rete di processi che li producono, e b) realizzano questa rete come un’unità attraverso la costituzione e la specificazione dei suoi confini nello spazio nel quale esistono” (79). Un sistema di questo genere è autonomo: pur essendo, ovviamente, aperto alle interazioni con l’ambiente, nel senso che scambia con quest’ultimo materia, energia, informazione, è però caratterizzato da quella che possiamo chiamare chiusura operazionale, definizione che vale a far capire che “il risultato dei suoi processi coincide con quegli stessi processi. Il concetto di chiusura operazionale è pertanto un modo per specificare classi di processi che, nel loro funzionamento, si rinchiudono su sé stessi a formare reti autonome. Tali reti non ricadono nella classe dei sistemi definiti da meccanismi di controllo esterni (eteronomi), ma al contrario in quella definita da meccanismi interni di autoorganizzazione (autonomi)”(15).
L’autonomia dei sistemi autopoietici e la chiusura operazionale che ne scaturisce non hanno pertanto nulla a che fare con l’isolamento: esse si riferiscono al fatto che il risultato di un’operazione o di un processo cade ancora entro i confini del sistema medesimo, e non alla mancanza di relazioni e interazioni del sistema con l’ambiente esterno e con gli altri sistemi presenti nell’ambito di quest’ultimo. In questa prospettiva metodologica l’autonomia è, cioè, la chiave di un discorso nell’ambito del quale la spiegazione di ciò che accade a un sistema non va ricercata tutta o in parte preponderante nelle condizioni esterne ma nella «morfologia intrinseca» che lo connota.
Il superamento delle coppie opposizionali che viene prospettato riguarda, ovviamente, anche la relazione tra la natura e la città, in quanto - scrive Consonni - “va preso atto che a minacciare questi due doni, la natura e la città, sono gli stessi interessi, con dinamiche simili. Non è un caso che agricultura e urbis cultura abbiano conosciuto crisi parallele, frutto dell’accresciuta aggressività delle pratiche estrattive - meglio sarebbe dire predatorie -, lasciate libere di operare sulle risorse naturali e sull’habitat. La forza devastante di queste pratiche è potuta crescere a dismisura grazie al venir meno dell’abitare (e dell’οἰκονομία) come motore primo del pensiero operante, dell’agire trasformativo e dell’attribuzione di senso. Non si salva il pianeta se non si salvano le città. Occorre ripartire dall’abitare come modo consapevole e responsabile di essere sulla terra. Occorre ridare forza progettante alla consapevolezza che, in questa concezione e pratica dell’abitare, artificio e natura si completano e si illuminano a vicenda. Una riprova la troviamo in quei paesaggi ereditati dalla storia - e sono ancora molti - in cui si manifesta una ‘bellezza che - come scrive Gogol’ nelle Anime morte - né la natura né l’arte sanno inventare, ma che si realizza soltanto quando esse si uniscono’” (pp. 27-28).
Ne consegue che: “Non si può realizzare l’obiettivo della sostenibilità ecologica se, contestualmente, non si opera per conseguire la sostenibilità sociale. La sopravvivenza del pianeta e dell’umanità è affidata al raggiungimento di due obiettivi: la preservazione della capacità nutritiva della terra (agri cultura) e la difesa/promozione dell’urbanità (urbis cultura). Il nodo che è venuto al pettine nel capitalismo maturo è lo scontro tra la logica estrattiva e la logica rigenerativa” (p. 43). Per invertire la tendenza devastante provocata da questo scontro, “accanto alle infrastrutture primarie (acqua, luce, gas, fognature, viabilità, trasporti, telefonia ecc.) e alle infrastrutture secondarie (i servizi sociali, dalla scuola alla sanità), vanno riconosciute, e quanto più possibile potenziate, quelle che potremmo chiamare le infrastrutture della socialità: quell’insieme di elementi (non solo fisici) da cui dipende non poco la qualità delle relazioni di prossimità e in generale la qualità urbana delle formazioni insediative, di cui ho cercato qui di dare conto. Armare le città di convivenza civile: è questa la strada da perseguire” (pp- 70-71).
Per raggiungere questo obiettivo, secondo Consonni, sul piano culturale occorre ripensare la politica urbanistica, che nel nostro paese “non ha posto mano a un progetto strategico in fatto di città che avesse come cardini urbanità e inclusione. Un vuoto, questo, che non solo permane ma che si è ulteriormente aggravato, complice larga parte della cosiddetta “cultura urbanistica”, sul versante della professione non meno che su quello accademico. In quest’ultimo ambito pesa, io credo, la separazione fra architettura e urbanistica consumatasi in Italia a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Con un primo risultato, tuttora perdurante: il misconoscimento della centralità del disegno urbano, inteso a promuovere inclusione, urbanità e bellezza, come parte essenziale della pianificazione territoriale. In una pretesa di scientificità (e di neutralità), la ricerca e l’insegnamento in ambito urbanistico si sono concentrati sugli aspetti gestionali, sui processi decisionali, sugli attori; e sulla messa a nudo delle “retoriche”, ovvero sulle strategie discorsive che accompagnano la redazione dei piani e la prassi urbanistica” (pp- 79-80). E dal punto di vista politico bisogna porre rimedio ai guasti determinati dalla riforma del titolo V della Costituzione (con la legge costituzionale n. 3/2001), la quale, “sovvertendo i rapporti tra Stato centrale e Enti periferici in materia di governo del territorio, ha permesso che Regioni e Comuni facessero della risorsa suolo e delle concessioni edificatorie materia di scambio (ai fini della conquista del consenso) a favore dei proprietari dei beni immobili: una svendita che ha peggiorato e non smette di peggiorare la qualità urbana degli insediamenti e gli equilibri ecologici. Tutto questo non ha impedito che le ‘retoriche’ continuassero a fiorire. In assenza di un progetto socialmente motivato, i governanti degli Enti periferici hanno anzi finito per concentrare il loro impegno sul versante comunicativo, non risparmiando energie in narrazioni edulcorate del reale. Allo stesso tempo si è consumato lo svuotamento degli uffici tecnici degli Enti locali di ogni compito e capacità progettuale, come anche di ogni capacità analitica che non sia l’applicazione delle norme (peraltro contraddistinte da notevoli margini di incertezza, favorita dal combinarsi di un’ipertrofia legislativa con l’assenza di un indirizzo politico, che non sia quello del laissez-faire). In questo disarmo desolante della Pubblica amministrazione, da tempo ha finito per prevalere l’orientamento per cui gli unici “attori” autorizzati ad avanzare proposte e progetti sono gli operatori immobiliari, con un impennarsi degli appetiti selvaggi e il proliferare di interventi all’insegna della divisione e della segregazione sociale (sotto mascheramenti spesso forniti dall’archistar di turno). E questo mentre nei programmi politici non c’è traccia del problema di assicurare a tutti una casa dignitosa” (pp. 82-83). Ciò ha portato a una “privazione del diritto alla città”, proprio a causa della crescente incidenza della rendita immobiliare, con la sua corsa ad accaparrarsi le economie esterne nei punti privilegiati dei contesti urbani (con processi di semplificazione funzionale e di gentrificazione, quando non di cancellazione della presenza degli abitanti e con l’affiorare di gated communities)” (p. 84). Si produce così una disseminazione incontrollata degli insediamenti, dove la cosiddetta urbanizzazione, a dispetto del termine, non produce città.
Emerge così una questione di sostenibilità sociale che, a differenza di quella ambientale, “è ignorata a tutti i livelli, dalle forze politiche, abbiano esse responsabilità di governo o siano all’opposizione, ai cosiddetti ‘esperti’. Ma ancor più sorprendente è l’assenza di un’adeguata presa di coscienza della natura politica del problema da parte di coloro che lo vivono direttamente sulla propria pelle, ovvero i cittadini. E questo per il diffuso analfabetismo sui legami che intercorrono tra polis e politica, fra urbs e civitas, fra gli assetti insediativi e i sistemi relazionali, di cui si è detto” (p. 85). Tutto questo, secondo Consonni, è potuto avvenire anche grazie a equivoci alimentati ad arte circa una presunta libertà insediativa intesa come libertà da ogni vincolo, compresi quelli volti alla difesa del bene comune e delle relazioni sociali come linfa vitale della convivenza civile.
Quello che viene posto qui è un problema epistemologico della massima importanza, che riguarda il fraintendimento della nozione di vincolo e della sua funzione, generalmente associati all’idea della restrizione dello spettro delle opportunità disponibili, e quindi di limitazione della creatività e della libertà. Per mostrare che le cose non stanno così è sufficiente ricordare che il vincolo introdotto in fisica dal principio di indeterminazione di Heisenberg - secondo il quale e impossibile misurare simultaneamente osservabili incompatibili, come la posizione e la quantità di moto - conferisce a una particella quantistica uno spettro molto più ampio di comportamenti possibili. Come osserva acutamente Chiara Marletto “dichiarare che qualcosa è impossibile porta a un numero maggiore di cose possibili; per quanto possa sembrare bizzarro questo fatto è la base della fisica quantistica”(16).
Un altro esempio tratto dalla fisica evidenzia quale sia la funzione insostituibile dei vincoli: si tratta dell'affacciarsi sulla scena della costante di Planck, nota anche come quanto d’azione, indicata con la lettera h, che ha le dimensioni di un’energia (J) per un tempo (s) e il cui valore numerico corrisponde a:
h= 6,62618.10-34J.s
Il suo carattere di particolare interesse consiste nel fatto che determina che le grandezze fisiche a essa legate, quali ad esempio l’energia, la quantità di moto e il momento angolare, non possano assumere qualsiasi valore, bensì solo valori multipli della costante medesima. Si tratta dunque di un vincolo ben preciso di cui occorre tenere adeguatamente conto nel mondo quantistico, quello in cui si avverte l’incidenza di questa costante, con conseguenti effetti di quantizzazione.
Quando si va al di sotto di una certa scala di dimensione fisiche bisogna cambiare ontologia, perché entriamo in un mondo governato da leggi diverse rispetto a quelle della ordinaria realtà macroscopica. Questo secondo esempio ci mostra che l'introduzione di un vincolo come la costante di Planck articola la realtà in livelli, stabilendo quale sia il tipo di ontologia e di linguaggio che va adottato per ciascuno di essi, evitando così che vengano commessi errori categoriali, come quelli derivanti dall'applicazione del linguaggio della fisica classica al mondo delle dimensioni inferiori ad h, con le fallacie linguistiche connesse all'uso improprio di termini come "onda" o "particella" per parlare dei microfenomeni. La mancanza di vincoli non produce pertanto libertà, ma comporta un rischio concreto di confusione e di disordine, di omissione di livelli imprescindibili, che nel caso specifico delle città comporta il venir meno del riferimento a condizioni primarie e basilari del vivere, come l’abitabilità di un contesto, la ricchezza relazionale di cui gli insediamenti umani non possono essere privati senza perdere senso, la convivenza civile e la sua relazione con le forme insediative, la cura dell’habitat e della sua ospitalità per tutti i ceti sociali. In assenza di vincoli che impongano il rispetto della centralità e dell’importanza di questi nodi cruciali la politica, come giustamente sottolinea Consonni, “è priva di una bussola e finisce inevitabilmente per essere subalterna al mercato e alle sue logiche” (p. 94).
Un ulteriore vincolo di cui non si può fare a meno se si vuole parlare in modo concreto di sostenibilità ecologica è l’attenzione al bilancio energetico, che dagli edifici va estesa all’intero territorio e quindi alle relazioni che intercorrono fra modelli insediativi e l’erogazione di energia necessaria al loro funzionamento.
Nella conclusione della sua analisi Consonni sottolinea in proposito che “la cosiddetta ‘città diffusa’ comporta una elevata dissipazione di energia, difficilmente sostenibile sul lungo periodo. Ma il bilancio è in profondo rosso su altri due fronti: l’elevato consumo di suolo, che sottrae terra all’agricoltura, e la scarsa qualità delle relazioni sociali. Un altro bilancio che si impone riguarda le attività agricole. Si potrebbe definire bilancio delle capacità riproduttive della terra, in cui assume rilevanza centrale la misurazione della capacità dell’agricoltura di rigenerare il potenziale produttivo dei terreni coltivati. Occorre dunque distinguere fra le attività agricole che si prendono cura della terra e quelle, assai estese, che la saccheggiano, rendendola inutilizzabile per le generazioni future. L’Unione europea, i governi nazionali e le stesse amministrazioni locali, in modi assai più rigorosi e incisivi di quanto non abbiano fatto fin qui, sono tenuti a presidiare questa materia e ad agire di conseguenza, con la messa in campo di linee strategiche e con il ricorso a incentivi, penalizzazioni, divieti e sanzioni” (p. 99-100).
In sintesi: “Ogni intervento di trasformazione dell’ambiente fisico va in direzione del fare o disfare città e del tutelare o devastare i paesaggi. Per questo le scelte urbanistiche hanno portata squisitamente politica e conseguenze sul fronte dell’incivilimento” (p. 101).
Questa conclusione rimanda a ciò che Maciocco e io avevamo evidenziato in People and Space, rimarcando tutte le patologie derivanti, sul piano politico oltre che su quello culturale, dalla perdita del rapporto con i luoghi, come contesti determinanti di costumi, abitudini, mores, e dai goffi tentativi di recuperarlo in modo inautentico e falsato: estetizzazione, tematizzazione, segregazione, scomposizione, genericità, che hanno prodotto una crescente lacerazione della coesione sociale che si è manifestata anche sotto forma di disimpegno dalla partecipazione alla vita della civitas e di disinteresse per la politica. Per cercare di invertire questa tendenza, più che il riferimento alla bellezza, sulla quale il pur pregevole libro di Consonni insiste in un modo che considero eccessivo, come se potesse avere un qualche effetto salvifico e taumaturgico, occorre partire dalle situazioni concrete dove si riscontra la presenza di una fluidità sociale, anche se in modi differenti da quelli tradizionali, in cui sono presenti embrioni di civitas, cellule staminali di cittadinanza che si manifestano con pratiche sociali inedite.
Queste situazioni sono gli spazi intermedi, che si presentano in molte forme che associano urbs e civitas - spazi fisici e spazi di possibile coesione sociale - attraverso pratiche sociali non convenzionali, come avviene in spazi come terrains vagues, periferie, banlieue, ma anche spazi della città che sono in attesa di altri significati, caratterizzati dalla presenza di soggetti e “oggetti di confine” (“boundary objects”)(17), ovvero oggetti concreti o astratti, con diversi significati in diversi mondi sociali, la cui creazione e gestione diviene processo chiave per lo sviluppo e il mantenimento delle relazioni di coerenza tra mondi sociali che si intersecano e si modificano.
L’analisi proposta da Susan Leigh Star e James Griesemer è interessante perché parte da una situazione locale concreta, quella di fronte alla quale si sono trovati professionisti, amministratori e tutti gli operatori collegati al Museum of Vertebrate Zoology presso l'Università della California, Berkeley durante i suoi primi anni, con la tensione tra punti di vista divergenti, dovuta all’eterogeneità degli interessi tra attori che includevano il direttore del museo, il suo principale mecenate, gli amministratori universitari e i collezionisti e cacciatori amatoriali che fornivano esemplari per la collezione, ognuno dei quali si era avvicinato al progetto con preoccupazioni diverse, veicolate dal mondo sociale in cui viveva Si tratta di una questione che può essere estesa senza forzature alla generalità della ricerca scientifica, per lo più condotta da gruppi di attori diversificati, in particolare ricercatori di differenti discipline, portatori di visioni alternative, tra i quali si richiede cooperazione, al fine di garantire reciproca comprensione tra i domini, affidabilità, interscambiabilità, e per raccogliere informazioni che mantengano la loro integrità nel tempo, nello spazio e nelle contingenze locali e pervenire a risultati generalizzabili. Per far fronte a questa tensione Star e Griesemer hanno elaborato un modello basato sull’idea che la capacità di tutti gli attori disparati di cooperare al progetto del museo dipendeva da due cose: la standardizzazione dei metodi e la creazione, appunto, di oggetti di confine, adattabili a diversi punti di vista e sufficientemente robusti da mantenere l'identità tra di essi. Un oggetto di confine è qualsiasi entità che faccia parte di più mondi sociali e faciliti la comunicazione tra di essi. Ha un'identità diversa in ogni mondo sociale in cui vive e deve essere per questo contemporaneamente concreto e astratto, fluido e ben definito. "Gli oggetti di confine sono oggetti che sono abbastanza plastici da adattarsi alle esigenze locali e ai vincoli delle varie parti che li impiegano, ma abbastanza robusti da mantenere un'identità comune tra i diversi livelli di riferimento"(18).
I due autori hanno in proposito distinto quattro tipi oggetti che possono essere fatti rientrare nella classificazione suddetta:
§ repository; § tipi ideali; § confini coincidenti; § forme standardizzate.
Questi esempi, tutti tratti dal contesto specifico del progetto museale, sono indicativi dell'ampia gamma di cose che possono essere considerate oggetti di confine. L'estensione del concetto oltre questo contesto particolare produce una vasta gamma di potenziali oggetti di confine, nonché di tipi di oggetti di confine, in grado di colmare le lacune tra i mondi sociali, in quanto risultano utilizzabili da membri di più gruppi e possono riflettere le preoccupazioni e le esigenze di ciascuno di essi, arginando così i conflitti potenziali.
Questo modello presenta un evidente motivo di interesse ai fini della soluzione del problema della ricostituzione della coesione sociale in città, come quelle attuali, che non hanno più una maggioranza, nel senso che comprendono in qualche modo soltanto minoranze eterogenee, con interessi ed esigenze non solo diversi ma spesso anche antitetici. In questa situazione, se non si vuole fare della questione del ripristino della civitas una semplice formalità, oggetto di appelli puramente retorici, occorre assumere quale centro di gravità per vedere la città a progettarla il concetto di minoranza, quella dei soggetti senza voce e privi di rappresentanza come gli anziani, i bambini, gli immigrati, i deboli e gli emarginati di ogni tipo, generalmente oggetti di discriminazione. Per facilitare la coesione tra questi gruppi dispersi occorre, appunto, lavorare sugli spazi intermedi e individuare tutti i possibili “oggetti di confine” tra di essi, in modo da fare delle minoranze soggetti attivi capaci di stimolare e facilitare “derive” e “traslazioni” nelle categorie descrittive, interpretative e operative di una politica della pianificazione e dell’attuazione che sia realmente in grado di permettere alle città di crescere senza disunirsi. Solo così si può sperare di elaborare un progetto che sia non soltanto un prodotto teorico, ma anche e soprattutto un’azione sociale interattiva attraverso la quale poter costituire nuovi soggetti urbani (città ad alta densità) e territoriali (città a bassa densità) e nuove figure di implementazione di una politica che persegua il compito di far emergere valori condivisi e di generare nuove istituzioni.
Si potrà così pervenire auspicabilmente a una ricomposizione di urbs e civitas in cui la prima si organizzi in strutture generative spaziali, e la seconda si articoli in strutture generative sociali al passo con i tempi, che traguardino un’organizzazione sociale a geometria variabile rispettosa delle differenze e capace di farne un nuovo modello di generalità e di coesione.
Silvano Tagliagambe
Note 1) F. Choay, «Le règne de l’urbain et la mort de la ville», in AA.VV., La ville. Art et architetture en Europe 1870-1993, Centre Georges Pompidou, Paris , 1994. 2) M. Webber, “The urban place and the non-place urban realm”, in M. Webber (ed.), Explorations into urban structure, Philadelphia, Philadelphia University Press, 1967. 3) F. Choay, «Le règne de l’urbain et la mort de la ville», cit. 4) F. Merlini, Ritornare in sé. L’interiorità smarrita e l’infinita distrazione, Aragno, Torino 2022. 5) Ivi, p. 9. 6) Ivi, p. 126. 7) Ibidem. 8) J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 2a ed., Einaudi, Torino 2008., p. 165. 9) J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia. Einaudi, Torino 2007. 10) Ivi, p, 148. 11) S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, Il Saggiatore, Milano, 1997. 12) S. Tagliagambe, P. Bartolini, Per una filosofia del tra. Pensare l’esperienza umana sulla soglia. Prefazione di R. Màdera, Mimesis, Milano-Udine 2020. 13) M. Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi, Milano 2024. 14) Ivi, pp. 25-26. 15) H. Maturana, ‘‘Autopoiesis: Reproduction, Heredity and Evolution’’, in M. Zeleny (editor), Autopiesis, Dissipative Structures and Spontaneous Social Order, Frederick A. Praeger Publisher. Boulder (Colorado) 1980, pp. 52-53. 16) C. Marletto, The science of can and can’t. A physicist’s journey through the land of counterfactuals. London, Allen Lane 2021, tr. it. La scienza dell’impossibile. Alla ricerca delle nuove leggi della fisica, Mondadori, Milano 2022, p. 112. 17) S. L. Star and J.R. Greisemet, 1989, p. 393 Institutional Ecology, 'Translations' and Boundary Objects: Amateurs and Professionals in Berkeley's Museum of Vertebrate Zoology, 1907-39, ‘Social Studies of Science’, Vol. 19, No. 3 (Aug., 1989), pp. 387-420. Stable URL: http://www.jstor.org/stable/285080. 18) Ivi, p. 393.
N.d.C. Silvano Tagliagambe, professore emerito di Epistemologia del progetto dell'Università di Sassari, ha insegnato Filosofia della Scienza nelle università di Cagliari, Pisa, Roma "La Sapienza" e Sassari.
Tra i suoi testi più recenti: Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello (Raffaello Cortina, 2002); Come leggere Florenskij (Bompiani, 2006); Lo spazio intermedio (Università Bocconi Editore, 2008); con G. Maciocco, People and Space. New Forms of interaction in City Project (Springer-Verlag, 2009); Identità personale e neuroscienze, in S. Rodotà, M. Tallacchini, Trattato di Biodiritto. Ambiti e fondi del Biodiritto (Giuffré, 2010, pp. 323-360); con A. Malinconico, Pauli e Jung. Un confronto su materia e psiche (Raffaello Cortina, 2011); con D. Antiseri e P. Maninchedda, La libertà, le lettere, il potere (Rubbettino, 2011); Il cielo incarnato. L'epistemologia del simbolo di Pavel Florenskij (Aracne, 2013); con A. Malinconico, Jung e il Libro Rosso. Il Sé come sacrificio dell'io (Moretti&Vitali, 2014); Il nodo Borromeo. Corpo, mente, psiche (Aracne, 2015); con F. Merlini, Catastrofi dell'immediatezza. La vita nell'epoca della sua accelerazione (Rosenberg & Sellier, 2016); con G. Rispoli, La divergenza nella Rivoluzione. Filosofia, scienza e teologia in Russia (1920-1940) (Ed. La scuola, 2016); Epistemologia del confine (New Press, 2017); Oltre il muro di pietra. La concezione antinomica della verità in Florenskij alla prova delle neuroscienze (Insedicesimo, 2017); Lo sguardo e l'ombra (Castelvecchi, 2017); Il paesaggio che siamo e che viviamo (Castelvecchi, 2018); Placido Cherchi. La cultura dell'ologramma (Il Maestrale, 2018); con A. Malinconico, Tempo e sincronicità. Tessere il tempo (Mimesis, 2018); con G. Biggio e D. Sirigu, Metamorfosi. Cervello in divenire, benessere psicofisico e nuove strategie terapeutiche (Mimesis, 2019); Come in uno specchio. Il cervello e il suo ambiente (Mimesis, 2020); con P. Bartolini, Per una filosofia del tra. Pensare l'esperienza umana sulla soglia (Mimesis, 2020); con E. Facco, Ritornare a Ippocrate. Riflessioni sulla medicina di oggi (Le Monnier Università, 2020); Il paesaggio. Glossario (Libria, 2021); Dal caos al cosmo. Introduzione al cosmismo russo (Teti, 2021); Chiralità. La vita e l'antinomia. Gli eroi dei due mondi (Mimesis, 2021); con Alberto Felice De Toni e Roberto Masiero, a cura di, Per un manifesto del digitale nella scuola (Mimesis, 2022); Metaverso e gemelli digitali. La nuova alleanza tra reti naturali e artificiali (Le Monnier Università-Mondadori Education, 2022); a cura di, Mente, cervello, ambiente. Questioni (Moretti & Vitali, 2023).
Per Città Bene Comune ha scritto: Senso del limite e indisciplina creativa (28 aprile 2017), L’urbanistica come questione del sapere (19 marzo 2021), Al diavolo la complessità (5 aprile 2024).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 27 SETTEMBRE 2024 |