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Questa mia nota si riferisce sia al libro di Ilaria Agostini e Enzo Scandurra - Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018) -, sia alla recensione di Giancarlo Consonni apparsa in questa rubrica - In Italia c'è una questione urbanistica? (15 giugno 2018) -. I due testi dicono cose interessanti, contengono riflessioni acute ma, secondo me, non colpiscono il bersaglio. In ambedue l'urbanistica è considerata responsabile di ogni decisione che coinvolge la città (il suo sviluppo, la sua organizzazione, le sue dinamiche, la sua capacità di rispondere alle necessità di chi l'abita, ecc.). Non voglio dire che gli autori (del libro e della recensione) disconoscono il ruolo della politica nei processi di trasformazione della città - tutt'altro: essi ne sono perfettamente consapevoli - ma rilevo che gli strali più potenti e convinti sono indirizzati verso l'urbanistica, disciplina che - a loro dire - avrebbe tradito i suoi compiti, la sua gloriosa tradizione, il suo ruolo. Ora, non si tratta di difendere l'urbanistica, ne tantomeno gli urbanisti, ma vorrei cercare qui di mettere a punto un ragionamento in cui tutti i pezzi siano ben sistemati sulla scacchiera.
Intanto, credo si possa convenire sul fatto che la città sia uno dei terreni principali nel quale si manifestano i conflitti sociali (i nostri autori ne sono convinti come me): è infatti qui che le diverse componenti della società tendono ad affermare i loro interessi (non soltanto in termini di "occupazione" dello spazio) senza, tuttavia, riuscire quasi mai a piegare l'intera organizzazione urbana a uno solo di questi (non so se questa interpretazione sia condivisa dai tre autori che ho citato). La città, infatti, non è omologabile a un solo interesse o agli interessi di un solo gruppo sociale: nella città convivono e convivranno sempre comunità antagoniste: con proprie necessità, proprie speranze, proprie strategie. Ogni interesse che cerca di imporsi troverà sempre ostacoli, oppositori. Si sbaglia analisi e proposta politica ogni qualvolta si interpreta la città come totalmente asservita a un solo interesse. Ci sono fasi in cui sembrano prevalerne alcuni ma, difficilmente, uno solo di questi potrà imporsi totalmente. Mi sento quindi di affermare che il livello della qualità sociale di una città dipende dal conflitto che in essa si manifesta e, al tempo stesso, della ricomposizione di tale conflitto che si realizza tra i contendenti. Stando così le cose, la qualità sociale di una città non può essere attribuita a una specifica qualità dell'urbanistica che in essa si esercita ma, piuttosto, alla forza e modalità del conflitto in essere in quel luogo e in quel tempo, e a come questo conflitto è governato dalla politica con l'ausilio dell'urbanistica.
La città è un oggetto in continua trasformazione: non solo conflitti economici e sociali, ma anche modificazioni culturali, tecnologiche, negli stili di vita, nella tipologia dei consumi, ecc. determinano un dinamismo che investe sia la morfologia che la "condizione urbana". Di tali modificazioni, non c'è dubbio, la scelta urbanistica deve tener conto con un atteggiamento di cautela, senza necessariamente fare riferimento a un modello di città ideale ma, piuttosto, facendo i conti con le condizioni esistenti e le trasformazioni in atto. Si potrebbe affermare che l'urbanistica possa (debba) essere considerata lo strumento per il governo delle trasformazioni. Ma in che cosa consiste la scelta urbanistica? In molte occasioni, mi sono speso per affermare che ogni scelta urbanistica debba essere considerata scelta politica tecnicamente assistita. Scelta politica perchè l'intervento urbanistico, giusto o sbagliato che sia, modifica di fatto le condizioni d'uso della città, il che vuol dire che i cittadini di quella città, e in generale chi la 'usa', si troveranno in una condizione diversa. Vien dunque spontaneo chiedersi: chi è legittimato a decidere di queste modificazioni ed eventualmente a contrastare o a dare un indirizzo diverso alle tendenze in atto?
Secondo la struttura democratica del luogo e del tempo in cui viviamo è sicuramente la politica che possiede questa prerogativa; nella nostra situazione è l'amministrazione pubblica (comunale e regionale) che possiede questo potere legittimato da procedure, affidato a norme e valutato politicamente. La partecipazione della popolazione è sempre desiderabile, e questa può esprimersi secondo meccanismi istituzionali o attraverso iniziative autonome, ma le istanze che emergeranno andranno interpretate sia sul piano politico che su quello tecnico: non avranno cioè un carattere cogente se non per quanto previsto istituzionalmente. La legittimità dell'amministrazione pubblica a decidere dei destini della città e del territorio è caratterizzata da un aspetto formale (ma non privo di sostanza) che individua nella delega all'amministrazione stessa (democraticamente eletta) il "governo" (pro tempore) della città e delle sue trasformazioni e da un aspetto sostanziale che riconosce all'amministrazione la consapevolezza dei bisogni dell'intera città, della comunità che in essa è insediata, e non di sue singole parti o gruppi sociali (prerogativa, questa, non sempre manifesta e garantita).
Vorrei chiarire che la legittimazione della politica non riguarda le scelte specifiche e puntuali di organizzazione urbana quanto, piuttosto, gli indirizzi di evoluzione della città, la qualità dei servizi, la relazione da costruire tra bisogni della popolazione e servizi pubblici offerti. Cioè la definizione di un quadro di riferimento sull'evoluzione dell'organismo urbano e sugli indirizzi di questa evoluzione. Non dovrebbe trattarsi di un potere decisionale sulle specifiche realizzazioni quanto, piuttosto, di un indirizzo denso di contenuti sulla dinamica futura di quella specifica città. Non è un caso che tali indirizzi trovino in molte legislazioni regionali una loro espressione formale nel "documento preliminare" che impegna l'amministrazione pubblica su una linea di politica di sviluppo.
Il "tecnicamente assistito" di cui dicevo prima fa, ovviamente, riferimento all'urbanistica, alle sue pratiche progettuali operative, ma non si tratta di un'attività di routine o semplicemente tecnica (tipo larghezza delle nuove strade, distanze tra gli edifici, ecc.). Piuttosto, questa va considerata come un'attività politico-culturale che chiama in campo l'intelligenza creativa, la capacità di lettura della città e della sua realtà sociale, che si esprime anche attraverso la domanda della collettività per una città diversa e che, attraverso la traduzione degli indirizzi politici generali in progetti di trasformazione, migliora la qualità della vita della popolazione insediata. Non siamo, quindi, di fronte a un'attività neutra, ma ad una che nell'ambito specifico delle proprie competenze pone problemi di scelta e di alternative. Si tratta infatti di tradurre in "opere di trasformazione" quanto contenuto negli indirizzi politici espressi dalla pubblica amministrazione e sulla base di quanto, spesso, sta già avvenendo nella città (del resto, secondo i casi, l'urbanista può essere coinvolto anche nella definizione di detti indirizzi politici). Voglio dire che esiste una responsabilità politica dell'urbanista, ma che tale responsabilità può esercitarsi solo in presenza di una determinata scelta politica dell'amministrazione.
L'urbanistica in sé e per sé non ha nessuna legittimità nel definire e attuare le trasformazioni della città che graveranno sulla popolazione che in quella città vive. Non si tratta di difendere gli urbanisti o l'urbanistica, ma soltanto di mettere in evidenza ruoli e responsabilità. Non si può negare che in certe fasi storiche l'urbanista si è sentito investito di poteri che invadevano la sfera delle decisioni politiche, ma si è trattato di una fase nella quale lo spirito riformista dell'urbanistica ha incontrato una posizione progressista della politica (i casi sono noti e riportati anche nei testi esaminati). Tuttavia, anche in quella felice occasione la mancata distinzione di ruoli e poteri ha spesso portato a conflitti, tra l'amministrazione e il "progettista", a continue discussioni e revisioni del piano (fino a fare apparire l'urbanistica un'attività senza una vera presa sul tempo e la realtà) che, spesso, hanno finito per vanificare o almeno depotenziare ogni ipotesi pianificatoria. Per non parlare dei piani rifiutati in toto (i casi sono molti e noti). Con questo ragionamento sul ruolo "tecnico" non intendo sostenere che ogni urbanista sia costretto a fornire il suo specifico sapere a qualsiasi decisione politica. Sarà scelta individuale del professionista accettare o meno incarichi che contrastino con il proprio sistema di valori (politici, ideali, sociali e culturali). Non va dimenticato, infatti, - anche in questo gli esempi che potremmo portare sarebbero numerosi - che l'urbanista è anche un intellettuale che combatte le sue battaglie su diversi piani e con molteplici strumenti. Così come non può essere dimenticato che, d'altro canto, alcuni urbanisti, in buona fede o per opportunismo, hanno finito per piegare il loro sapere agli interessi più biechi presenti nella società. Da questo punto di vista i nostri autori hanno ragione da vendere, ma sbagliano bersaglio quando investono con la loro critica l'urbanistica nel suo insieme come disciplina, piuttosto che certi specifici modi di praticare la professione.
Se guardiamo al panorama complessivo del nostro Paese e delle nostre città, non possiamo affermare di essere di fronte al "fallimento" dell'urbanistica ma, piuttosto, alla "sconfitta" della disciplina. Il che fa una notevole differenza. L'urbanistica quale attività di continuo riordino della città, di riduzione delle sperequazioni spaziali e sociali, quale "norma" che elimina l'arbitrio dei singoli nella trasformazione della città, ha molti nemici che solo una politica progressista tecnicamente assistita può sconfiggere o, almeno, contenere. Caricare sulle spalle dell'urbanistica tutto quello che non ci soddisfa dell'organizzazione urbana non porta lontano, così come non cogliere le trasformazione negli stili di vita della popolazione può portare ad attribuire alla disciplina responsabilità che travalicano il suo specifico ambito di azione. Un solo esempio: esaltare condizioni di vita come quelle dei Sassi di Matera nel secondo dopoguerra - cosa che non mi sento di condividere nonostante il carattere comunitario che caratterizzavano tali condizioni in quel particolare contesto fisico e sociale - accusando di grave errore urbanistico il tentativo, peraltro non completamente riuscito, di fornire a quella comunità - che viveva, non dobbiamo dimenticarlo, in condizioni deprecabili - una sistemazione più civile, mi pare una posizione senza speranza.
Non ho alcun dubbio che i miei interlocutori, nelle linee generali del mio ragionamento, possano condividere questa sistemazione dei 'pezzi' sulla scacchiera - si tratta di studiosi avveduti, preparati, colti - ma proprio per questo non posso accettare il loro giudizio sull'urbanistica. Questo, a me pare, è frutto di una semplificazione che porta a sostenere che questa disciplina si è chiusa in una falso tecnicismo, si è indissolubilmente legata ai cosiddetti poteri forti, insegue e avalla trasformazioni della città che peggiorano le condizioni di vita dei cittadini. Torno a dire l'urbanista è un intellettuale che combatte le proprie battaglie con strumenti diversi (comprese le "dimissioni", in virtù di un ideale o, forse, un'illusione). Non solo: mi pare di poter affermare che il dibattito urbanistico presente nel nostro Paese non abbia uguali altrove, per intensità e articolazione. Ricorrere alle semplificazioni, dunque, non sembra essere lo strumento adatto per comprendere una realtà che è assai articolata. "Fare di tutta un'erba un fascio" non rende giustizia all'intelligenza e alla cultura dei miei interlocutori e finisce per disconoscere la ricchezza della ricerca in urbanistica, anche se capisco che siano molti i segnali che spingono in questa direzione.
La consapevolezza della necessità di aggiornare strumenti operativi, teorie, pratiche o anche solo punti di vista non è prerogativa di un piccolo gruppo di intellettuali, seppur ampiamente qualificati. In nessun Paese europeo sono presenti tante riviste di settore come in Italia, ben due associazioni nazionali di urbanisti che conducono analisi sullo stato di salute delle nostre città e della disciplina e collane editoriali specificatamente dedicate ai temi della città e della pianificazione. Il dibattito è vivace, franco, e spesso senza inutili prudenze diplomatiche. Anche con tutto ciò è necessario misurarsi. Come non capire che chi ha parlato di "cassetta degli attrezzi" non pensava a pinze, martelli e cacciaviti ma, piuttosto, ad attrezzi concettuali, né faceva un discorso di "tecniche"? Come non riflettere sul fatto che il campo dell'attività dell'urbanista sia quello dell'elaborazione di politiche adatte alla realizzazione di obiettivi pubblici, condivisi, e che per queste non esiste un prontuario ma la loro elaborazione impegna saperi, creatività e intelligenza di chi opera? Ci si può, certo, accomodare sulla banale semplificazione ma, proprio per quanto detto prima, non si può tralasciare di considerare che il campo conflittuale nel quale si misurano le forze sociali - ovvero la città - non può che influenzare anche quelle culturali che proprio della città si occupano. Una qualsiasi riflessione sull'urbanistica merita attenzione contro ogni riduzionismo e richiama la necessità di confrontarsi con mente aperta, senza pregiudizi.
Ci sono due questioni con le quali vorrei concludere queste mie osservazioni. Mi pare che ogni discorso sull'urbanistica in azione non possa essere sviluppato senza affrontare il nodo della politica. La sua degradazione pare enorme e con questa situazione dobbiamo fare i conti non solo come urbanisti ma anche come cittadini. Su questo fronte mi pare di cogliere, in generale e senza fare riferimento agli autori che ho citato in particolare, molte illusioni, se non la tendenza ad imboccare scorciatoie. Eppure la città è un fondamentale campo per misurare effetti e conseguenze delle scelte politiche e forse, proprio da ciò, bisognerebbe partire per affrontare qualsiasi riflessione sull'argomento. Muovere dalla politica non significa abbandonare il terreno specifico della disciplina. Le trasformazioni della città sono l'esito aggregato di spinte economiche (sull'appropriazione dello spazio), di tensioni ideali, dell'affermarsi di nuove scoperte tecniche e scientifiche, delle dinamiche della cultura (in generale e specificatamente urbana): un insieme che va analizzato e incardinato nella realtà di ogni contesto. Il dibattito urbanistico è spesso vivace ma le contrapposizioni tra le differenti posizioni culturali, in realtà, non riescono a nascondere una questione di fondo: quella del tipo di società sottesa a ogni idea di città (desiderata). La critica sullo stato della società ci obbligherebbe a qualcosa di più dell'esplicitazione di un semplice "sogno", a qualcosa di diverso dalla riaffermazione di un modello di città ideale: ci inviterebbe a lavorare, a riflettere, a mettere a frutto i nostri saperi e la nostra cultura per dire qualcosa della città del XXI secolo, sfuggendo alle mode ora della città ecologica, ora della smart city, ora della "rigenerazione", ora della "città digitale", o ancora delle comunità in estinzione e così via. Fare i conti con tutto questo e altro ancora è fondamentale per poter dire qualcosa di sensato e di utile per noi e le future generazioni.
Ridurre le sperequazioni spaziali, contribuire a limitare le diseguaglianze sociali, costruire spazi collettivi adeguati ai tempi e ai bisogni (espressi o sottaciuti), fornire le condizioni perché comunità diverse da quelle che magari si amano possano realizzarsi, accrescere la responsabilità collettiva, cercare di "manomettere" il senso comune degradato verso la ricerca di un risanamento sociale, dare dignità a tutti i soggetti sociali anche a quelli nuovi, riconoscere esigenze culturali diverse dalla nostra tradizione, avere consapevolezza che il tempo di ciascuno di noi può essere sfruttato, utilizzato socialmente e attingere ad attività creative, ecc. Queste e altre sono le possibilità offerte al lavoro dell'urbanista che costituiscono, ciascuna di esse, un campo di confronto-scontro politico.
Bisogna essere convinti che l'età dell'oro delle città non sta nel passato ma nel futuro. Avere i piedi nel passato è indispensabile. Tuttavia, considerare che il passato può essere il fango che ci tiene fermi non significa negare le radici, ma essere consapevoli di una certa realtà. Lo sguardo al futuro, alle grandi possibilità esistenti, può permetterci di ragionare sulle condizioni attuali e future proponendo soluzioni che non ci separino violentemente da ciò che è alle nostre spalle ma che, contemporaneamente, sappiano guardare a ciò che ancora deve venire.
Francesco Indovina
N.d.C. - Francesco Indovina, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica, ha insegnato per anni Analisi delle strutture urbanistiche e territoriali all'Università IUAV di Venezia. Dal 2003 insegna alla Scuola di Architettura di Alghero. Da sempre è fautore di un approccio interdisciplinare agli studi sulla città e il territorio coniugato a un saldo impegno civile. È autore di numerose pubblicazioni e ha fondato e diretto i periodici "Archivio di studi urbani e regionali" e "Economia urbana" (già "Oltre il Ponte"); dirige inoltre la collana di Studi urbani e regionali della Franco Angeli.
Per Città Bene Comune ha scritto: Si può essere "contro" l'urbanistica? (20 ottobre 2015); Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Pianificazione "antifragile": problema aperto (23 giugno 2017); Una vita da urbanista, tra cultura e politica (24 novembre 2017).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 14 SETTEMBRE 2018 |
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